Cesare Primo Mori: il prefetto di ferro

Cesare Primo Mori viene ricordato dagli storici, e non solo da loro, con l’appellativo di «prefetto di ferro». Nacque a Pavia il 22 dicembre 1871 e trascorse gli anni della fanciullezza nel brefotrofio di quella città. Gli anni di studente li passò dapprima all’Accademia Militare di Torino e successivamente a Taranto. Qui frequentò una bella ragazza, Angelina Salvi, che in seguito divenne sua moglie. Si trasferì in polizia lavorando a Ravenna e, a partire dal 1904, a Castelvetrano, in provincia di Trapani.

A Castelvetrano il commissario Mori si fece subito notare per la sua azione efficace e drastica, utilizzando modi risoluti, determinati e al limite della legalità che verranno usati nuovamente (con un potere ed una possibilità di agire notevolmente maggiori) diversi anni più tardi in ogni provincia della Sicilia. Eseguì molteplici catture e riuscì a sottrarsi a diversi atti violenti contro la sua persona. Affermava il Procuratore Generale di Palermo: «Finalmente abbiamo a Trapani un uomo che non esita a colpire la mafia dovunque essa si alligni».

Dopo aver prestato servizio per undici anni nel trapanese, Mori venne spostato a Firenze nel 1915, con l’incarico di vice questore. Dal momento che lo scoppio della prima guerra mondiale peggiorò le condizioni in Sicilia, Mori venne nuovamente richiamato nell’isola nel 1916 con l’autorità di dirigere reparti speciali, che avevano il compito di combattere coloro che compivano azioni violente contro persone e cose, atti in continuo aumento anche a causa del fatto che diversi siciliani non si erano presentati alla chiamata del servizio militare di leva. Durante le sue retate, Mori si caratterizzò, come sempre, per i suoi modi di agire drastici ed efficaci. Nel paese di Caltabellotta, in un giorno, imprigionò oltre trecento persone e sicuramente conseguì risultati davvero lusinghieri. La carta stampata uscì con titoloni come: “Colpo mortale alla mafia” e Mori disse ad un suo aiutante: «Costoro non hanno ancora capito che i briganti e la mafia sono due cose diverse. Noi abbiamo colpito i primi che, indubbiamente, rappresentano l’aspetto più vistoso della malvivenza siciliana, ma non il più pericoloso. Il vero colpo mortale alla mafia lo daremo quando ci sarà consentito di rastrellare non soltanto tra i fichi d’india, ma negli ambulacri delle prefetture, delle questure, dei grandi palazzi padronali e, perché no, di qualche ministero». Avanzò di grado e gli fu conferita la medaglia d’argento al valore militare. In seguito fu nominato questore a Torino, a Roma ed infine prefetto a Bologna.

Mantenne questo incarico dall’8 febbraio 1921 al 20 agosto 1922, e come fedele impiegato dello Stato, risoluto ad attuare le sue norme in maniera irremovibile, rimase uno dei pochissimi componenti della polizia a contrastare le violenze e i soprusi dei fascisti. Ricoprendo l’incarico di prefetto, Mori diresse l’attività investigativa sulla strage di Palazzo d’Accursio, avvenuta il 21 novembre 1920 ed indicando come colpevoli sia socialisti che fascisti. La sua lealtà ed onestà vennero riconosciute da Benito Mussolini, il quale conferì a Mori la carica di “prefetto antimafia in Sicilia”. L’aumento dei dissidi in politica si verificò a causa del ferimento di Guido Oggioni, fascista facente parte della “Sempre Pronti”, durante il ritorno da un raid con il quale si volevano castigare i comunisti, e all’omicidio di Celestino Cavedoni, segretario del Fascio. Mori non permise ritorsioni e raid violenti da parte dei fascisti, bloccando sul nascere, grazie all’uso delle forze di polizia, ogni iniziativa pericolosa al mantenimento dell’ordine pubblico, azione per cui venne fortemente criticato. Nell’agosto 1922 venne spostato a Bari e costretto ad un periodo di riposo dopo la marcia su Roma. Con la sua amatissima moglie decise di andare a vivere a Firenze.

Dal momento che era conosciuto come persona determinata e non originaria della Sicilia (pertanto non colluso con la mafia), ma grande esperto delle cose siciliane, venne fatto tornare al lavoro il 28 maggio 1924 dal ministro dell’Interno Federzoni. Mussolini, invitato dall’alta borghesia del luogo, aveva da poco visitato la Sicilia (in particolar modo Palermo e Trapani). Desiderando demolire una volta per tutte la mafia vi mandò Mori ed in seguito pure il giudice Luigi Giampietro come procuratore generale. Mori venne designato prefetto di Trapani, dove giunse il 2 giugno 1924, e lì si fermò fino al 12 ottobre 1925. La prima misura che adottò fu la revoca immediata di ogni autorizzazione all’uso delle armi e nel gennaio del 1925 dette ordine ad un gruppo di persone di occuparsi del rilascio in ambito provinciale delle concessioni per il campieraggio e la guardianía, lavori da sempre in mano alla mafia. Grazie ai numerosi successi conseguiti nel trapanese, Benito Mussolini volle Mori come prefetto di Palermo il quale prese così possesso della carica il 20 ottobre 1925, con una estesa libertà d’azione e autorità sull’intera isola siciliana al fine estirpare la mafia da quelle terre. Mussolini spedì a Mori il seguente messaggio trasmesso attraverso il telegrafo: «Vostra Eccellenza ha carta bianca, l’autorità dello Stato deve essere assolutamente, ripeto assolutamente, ristabilita in Sicilia. Se le leggi attualmente in vigore la ostacoleranno, non costituirà problema, noi faremo nuove leggi». 

Mori mantenne questo incarico fino al 1929. Adottò misure repressive severe nei confronti della criminalità e della mafia, non avendo alcun riguardo verso gruppi organizzati di malviventi e su chi esercitava il proprio potere violento su una porzione del territorio siciliano, facendo ricorso pure ad azioni non previste dalla legge (fra le quali il supplizio, l’imprigionamento di persone e l’intimidazione). Con il totale sostegno di Mussolini conseguirà successi straordinari e il suo “modus agendi” si protrarrà senza interruzione nel 1926 e nel 1927. Marco Travaglio è sicuro che Mori: «arrestasse anche fascisti, convinto che la mafia sin da allora fosse trasversale agli schieramenti politici». 
Il 1º gennaio 1926 portò a termine quella che è sicuramente la sua più celebre operazione di polizia, che fu soprannominata “l’assedio di Gangi”, località sotto il totale controllo di parecchie bande dedite alla delinquenza. Con un buon numero di carabinieri e di poliziotti perlustrò il piccolo centro abitazione per abitazione, imprigionando malviventi, mafiosi e chiunque si nascondesse o fuggisse alle forze dell’ordine per sottrarsi ad un arresto o ad un obbligo di dimora. I modi di agire utilizzati in questa operazione risultarono molto violenti e Mori non indugiò a servirsi di donne e fanciulli come prigionieri affinché i criminali si costituissero al prefetto. A motivo della inflessibilità del suo “modus agendi”, fu definito dalla carta stampata il “Prefetto di Ferro”. 
Nel 1927 assicurò alla giustizia e riuscì a far imporre la pena del carcere a vita a Vito Cascio Ferro, il capo della mafia siciliana e americana, che aveva ammazzato Joe Petrosino. Pure negli edifici in cui si amministrava la giustizia le sentenze con cui l’autorità giudiziaria infliggeva una pena nei confronti dei mafiosi iniziarono a divenire severe. Gli storici indicano tra coloro che si sentivano oggetto di persecuzione pure il generale di Corpo d’Armata, ed un tempo ministro, Antonino Di Giorgio, il quale avrebbe avanzato una richiesta di aiuto, in una conversazione confidenziale, allo stesso Mussolini. Tutto ciò non gli eviterà né il procedimento penale né il provvedimento che autorizzava la messa in pensione del comandante e la rinuncia a membro della Camera dei deputati nel 1928. In verità la contrapposizione aspra con il generale avrà come conseguenza la rimozione dello stesso prefetto. Mussolini chiamò ad un colloquio il comandante Di Giorgio, quando venne a conoscenza che questi era a Roma per le esequie del Maresciallo Diaz, per essere informato sulle azioni di Mori, dal momento che giungevano ininterrotte diverse lagnanze da uomini influenti. Il generale, per volere di Mussolini, presentò un rapporto scritto dettagliatissimo, mentre il Mori, a conoscenza del suddetto colloquio, fece circolare notizie poco lusinghiere nei confronti del generale. 

Mussolini fece di tutto per ristabilire la concordia tra i due rivali, ma il generale (in un ulteriore incontro con il duce) respinse ogni offerta di pacificazione. Il comandante rassegnò volontariamente le proprie dimissioni, abbandonando tutti gli incarichi per occuparsi solamente della famiglia. Nel giro di alcuni mesi il duce informò il prefetto Mori,con un messaggio trasmesso attraverso il telegrafo,  di averlo sollevato dal suo difficile ufficio. I mezzi di comunicazione fascisti affermarono soddisfatti che la mafia era stata debellata mentre in realtà parecchi uomini mafiosi si erano trasferiti all’estero o si erano nascosti nei paesini dell’entroterra siciliano in attesa di momenti più favorevoli (che tornarono a proporsi con la venuta degli Americani in Sicilia nel luglio 1943).

Sebbene siano passati molti anni dalla presenza di Mori in Sicilia, attualmente gli storici, e non solo loro, si confrontano sul modo di agire del prefetto di Palermo nella sua battaglia alla mafia. Si è certi che il suo “modus agendi” fu risoluto ed incisivo. Si ritiene fosse una persona che creava problemi, dal momento che era in grado di danneggiare sia i rappresentanti dell’alta borghesia come di inimicarsi numerosi fascisti. Sul finire degli anni Venti il “prefetto di ferro” era una personalità conosciutissima e diverse sue azioni, che la carta stampata dello stato fascista aveva esaltato in ogni modo, erano oramai sulla bocca di ogni cittadino italiano. Cesare Mori ebbe il coraggio di attaccare con veemenza, con l’assenso di Mussolini, sia il personaggio più importante del fascismo siciliano, Alfredo Cucco, sia l’ex ministro della Guerra, l’influente comandante Antonino Di Giorgio. Numerosissimi mafiosi furono costretti a trasferirsi negli Stati Uniti, dove vennero ospitati e soccorsi da Cosa Nostra. Dal momento che i mafiosi facevano soprattutto parte della classe rurale (gabelloti, campieri e guardiani) spadroneggiando sia sui latifondisti che sul proletariato, Cesare Mori riteneva che, cancellata la “classe mafiosa”, i grandi proprietari non sarebbero stati più perseguitati dai mafiosi né considerati dal popolo collusi con essa. Il “modus agendi” di Mori manifestò la sua incisività a partire dal primo anno di attività e nella provincia di Palermo le uccisioni diminuirono drasticamente da 268 nel 1925 a 77 nel 1926, le sottrazioni indebite di beni altrui da 298 a 46, come pure diversi altri tipi di delitti calarono vistosamente. Numerosi mafiosi ammisero l’estremo stato di disagio della mafia in quegli anni e in quelli successivi. 

Il “prefetto di ferro” non si interessò solamente della manovalanza mafiosa, ma anche ai suoi legami con gli uomini dediti al governo e all’amministrazione dello Stato, spingendo addirittura il duce a chiudere il Fascio della provincia di Palermo e cacciare Cucco (il quale, non si deve dimenticare, era un componente del Gran Consiglio del Fascismo) dal Partito Nazionale Fascista. La “cupola mafiosa” aveva dunque subito numerose sconfitte grazie alle azioni di forza di Cesare Mori, in special modo i raggruppamenti mafiosi delle Madonie, di Bagheria, Termini Imerese, Mistretta e Partinico. Ulteriori raggruppamenti avevano preferito nascondersi nelle zone montuose dell’isola ed approfittarono delle operazioni di penetrazione via mare degli Americani in Sicilia per tornare in azione. Gli Americani, frequentemente, sistemarono i mafiosi a capo degli enti locali siciliani poiché erano dei fidati antifascisti.

Divenendo Mori un membro del Senato, proseguì ad interessarsi della situazione in Sicilia venendo a conoscenza di ogni evento, sebbene non avesse più alcuna autorità e vivesse praticamente isolato. Egli soleva dire:« La misura del valore di un uomo è data dal vuoto che gli si fa dintorno nel momento della sventura». Dal momento che era solito parlare della mafia siciliana suscitava l’ostilità di diversi organi fascisti. Il 30 marzo 1930 venne esortato a :«non parlare più di una vergogna che il fascismo ha cancellato». Mori pubblicò nel 1932 la sua opera più celebre, intitolata «Con la mafia ai ferri corti» (data nuovamente alle stampe nel 1993).

La sua adorata moglie morì nel marzo 1942 quando l’ex prefetto di Palermo, colpito da una neoplasia alla cistifellea, risiedeva dall’anno precedente ad Udine, in un alloggio concesso in locazione in via Aquileia. Cesare Mori passò a miglior vita alla presenza del suo affezionato aiutante e conducente di automobili Lino Vidotti alle prime ore del 5 luglio 1942 e venne inumato nel cimitero di Pavia. A Pagnacco, in provincia di Udine, si può trovare la “Villa Mori”, residenza nella quale il prefetto soggiornò per diversi anni.

Molteplici elementi peculiari del senatore Mori, come per esempio la risolutezza ed il coraggio, vengono citati in situazioni, periodi storici e personalità totalmente differenti, nel romanzo «Il giorno della civetta» di Leonardo Sciascia pubblicato nel 1961. Da questo libro ha avuto origine la pellicola cinematografica dallo stesso titolo girata nel 1968 e diretta da Damiano Damiani con attori del calibro di Franco Nero e Claudia Cardinale. 

Sull’attività di Cesare Mori fu realizzato nel 1977 un secondo film «Il prefetto di ferro», con la regia di Pasquale Squitieri, attori principali Giuliano Gemma e Claudia Cardinale e le musiche splendide di Ennio Morricone. L’opera cinematografica si rifece al testo del Petacco ma ignorò lo sviluppo logico e cronologico trattando disordinatamente diversi avvenimenti, escludendone altri e perfino mutando lo svolgimento di alcuni (per esempio «l’assedio di Gangi» viene presentato come accaduto in piena estate, mentre effettivamente si verificò nel mese di gennaio). Nel 2012 la RAI realizzò una «fiction» in due puntate, intitolata :«Cesare Mori – il prefetto di ferro».

BIBLIOGRAFIA
C. DUGGAN, La mafia durante il Fascismo, Rubbettino, Soveria Mannelli 1986;
C. MORI, Con la mafia ai ferri corti, Mondadori, Milano 1932;
A. PETACCO, Il prefetto di ferro. L’uomo di Mussolini che mise in ginocchio la mafia, Mondadori, Milano 1975;
G. TRICOLI, Il fascismo e la lotta contro la mafia, ISSPE, Palermo 1986.

 

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