La presenza e la rievocazione di Bisanzio nella letteratura moderna e contemporanea



Costantinopoli, a partire dal settecento, è divenuta simbolo di negatività e di decadenza raffinata, una interpretazione purtroppo diffusa nella storiografia tradizionale europea. Un esempio ci viene fornito dalla celeberrima opera del Gibbon il quale, come tutti i suoi contemporanei, riteneva che l’Impero bizantino rappresentasse solo un pallido riflesso della Grecia e della Roma antiche. Inoltre non può passare sotto silenzio il giudizio assai negativo di W.E.H. Lecky che afferma:
«sull’impero bizantino il verdetto della storia è unanime. Esso costituisce, senza eccezione alcuna, la forma in assoluto più vile e spregevole che la civiltà abbia assunto finora. Nessuna altra civiltà di lunga durata è stata così interamente priva di qualsiasi forma ed elemento di grandezza. I suoi vizi erano i vizi di uomini che avevano cessato di essere eroici senza aver imparato ad essere virtuosi. Schiavi, e schiavi consenzienti, negli atti e nei pensieri, immersi nella sensualità e nei piaceri più frivoli, i bizantini emergevano dalla loro indolenza soltanto quando qualche sottigliezza teologica o qualche audacia nelle corse dei carri li spingeva a violenti tumulti. La storia dell’impero è un racconto monotono di intrighi di preti, eunuchi e donne, di avvelenamenti, di cospirazioni, di continua ingratitudine e di perenni fratricidi».

Lo scrittore Enrico Bagnato
In questo articolo desidero raccontare come alcuni scrittori italiani nel Novecento abbiano rappresentato Bisanzio, il suo Impero e la sua civiltà.
Inizierò soffermandomi su «La basilissa» di Enrico Bagnato, scrittore pugliese noto per alcune raccolte di poesie, ma con questo testo al suo esordio quale autore di teatro. L’opera venne rappresentata dapprima a Genova nel 1979 e poi riproposta in numerose città dell’Italia. Il dramma è articolato in atto unico, suddiviso in undici scene. L’azione si svolge a Bisanzio, all’interno del palazzo imperiale. L’argomento è molto conosciuto e indubbiamente costituisce una delle pagine più fosche e drammatiche della storia bizantina. L’autore si è ispirato per la trama alle più diffuse interpretazioni storiografiche. La vicenda reale si svolse in un arco di circa venti anni, dalla morte prematura di Leone IV il Cazaro nel 780 (e l’ascesa al trono di suo figlio Costantino VI) fino alla deposizione di Irene nell’802. Dopo aver assunto la reggenza in nome di suo figlio minorenne, l’imperatrice Irene, originaria dell’iconodula Atene, preparò la condanna dell’iconoclastia, grazie alle risoluzioni del settimo concilio ecumenico (786). Nella lotta tra sostenitori e avversari dell’iconoclastia si inserì il conflitto della madre contro il figlio, divenuto maggiorenne ed insofferente delle ambizioni imperiali di Irene. Le incertezze e gli errori del giovane Costantino portarono al suo isolamento e, a causa degli intrighi di sua madre Irene, fu detronizzato nel 797 da una rivolta militare e catturato da uomini fedeli ad Irene. L’imperatore venne portato nella sala in cui era nato e crudelmente accecato. La sua detronizzazione comportò che vi fosse una donna, per la prima volta, a regnare sull’impero bizantino. Ma una politica fiscale demagogica oltre agli insuccessi militari bizantini contro gli Arabi e all’incoronazione imperiale di Carlo Magno, provocarono una reazione che portò all’incoronazione di Niceforo I nell’802 e all’esilio di Irene che venne deportata per ordine del nuovo imperatore, mentre giungevano a Costantinopoli gli ambasciatori di Carlo Magno con una proposta di matrimonio per Irene. 
Costantino VI e Irene
Sulla base di questi avvenimenti, drammatici e densi di fascino, si sviluppa la trama de «La basilissa». I personaggi principali sono quelli consacrati dalla storia: Irene e Costantino VI. Sulla scena è presente quasi sempre la sala del trono, simbolo del potere. Al centro del dramma si trova l’imperatrice Irene, che appare dominata da un istinto primordiale, il potere. Per soddisfare tale ambizione sempre più sfrenata, ella è pronta ad ogni nefandezza. In lei la «libido dominandi» diviene l’unica ragione di vita. La sete di potere diviene pure desiderio di piacere. La figura di Costantino appare più sfuocata. Egli è un debole, la cui colpa più grave è non saper valutare la realtà per quella che è. Costantino non ha lottato per conquistare ciò che possiede, sicché non sa scrutare i cuori di coloro che lo circondano. Pertanto né le raccomandazioni e i consigli dei fedeli Teofilo e Cosma né i presagi sfavorevoli della moglie Teodota gli giovano a qualcosa. Con la perdita della luce materiale si aggiunge infatti, come contrappasso beffardo, l’illuminazione intollerabile sulla perversione materna: quindi a Costantino, doppiamente vittima, non rimane altro conforto che la morte. La tragedia rispetta nel suo evolversi le vicende storicamente comprovate. Nell’autore vi è l’immagine di Bisanzio, quale luogo di ogni raffinata infamia. Il tema centrale dell’opera è ancora una volta il potere, inteso come la meta di ogni sfrenata ambizione, dio crudele a cui sacrificare la vita propria e altrui. Ovviamente la sete di potere porta all’impossibilità o all’estrema difficoltà di stabilire rapporti di solidarietà fra gli uomini.

La Delfina Bizantina – Aldo Busi
Aldo Busi è uno dei più discussi autori italiani, anche da coloro che non lo hanno letto ma che rimangono affascinati, scioccati, innervositi o conquistati dalle sue apparizioni in televisione. Busi è un personaggio che opera per lasciare ai posteri un proprio messaggio personale. Egli scrive «La Delfina Bizantina». Il romanzo è ambientato in un luogo non ben definito del litorale adriatico, che potrebbe essere Ravenna. Tre sono le donne protagoniste, spiate dal narratore nelle loro macchinazioni e nei loro sogni. La prima protagonista è Anastasia Kuncewicz, ex stella di bordelli alla moda ed astuta arrampicatrice sociale, che al declino della bellezza oppone un’ingegnosa imprenditorialità. Sua figlia Teodora, adagiata in irrefrenabili piaceri, esercita con passiva acquiescenza gli slanci di un erotismo incerto e languido. La terza infine è la signorina Scontrino, anche lei ex tenutaria di un bordello. Attorno a queste protagoniste ruotano molti personaggi, caratterizzati da numerose e strabilianti mostruosità. La più eccelsa realizzazione di Anastasia è un lussuoso campeggio-residence denominato «La Delfina Bizantina», opera dell’architetto Antemio. Qui si consumano e si intrecciano gli squallidi destini evocati dal Busi, secondo una scansione che richiama esplicitamente Bisanzio e Ravenna.

Il Fuoco Greco – Luigi Malerba
Altri echi della storia e civiltà bizantina rintracciamo nel romanzo di Luigi Malerba, «Il fuoco greco», Mondadori, Milano 1990. Malerba è uno dei maggiori e più tradotti scrittori italiani del secondo Novecento. Giornalista, scrittore, sceneggiatore cinematografico e televisivo. Egli ha scelto in questa opera un periodo storico e personaggi di grande importanza, ma poco noti al grande pubblico. L’autore ritiene di trovare nella corte imperiale di Bisanzio e nei suoi palazzi dal fascino orientaleggiante, l’ambiente più idoneo a rappresentare il dramma dello scontro tra poteri occulti, tra personaggi senza scrupoli che si contendono il controllo dello Stato. Pertanto Bisanzio con i suoi palazzi imperiali, i suoi cerimoniali sontuosi e le lotte fratricide per la conquista del trono costituisce una metafora ideale per una approfondita rivisitazione dei meccanismi brutali del potere. L’idea che si ha di Bisanzio in questo romanzo è la stessa che ha ispirato le famose pagine di Edward Gibbon. L’impero Bizantino è un impero perennemente in crisi durante la sua esistenza millenaria ed i cittadini dell’impero non erano degni né del nome di Greci né di Romani. Di tale giudizio oramai fortemente datato la storiografia di questi ultimi decenni ha già fatto ampiamente giustizia, considerando la civiltà bizantina autonoma, fedele alla tradizione ma capace pure di creare un proprio sistema di valori. La narrazione corrisponde cronologicamente all’intera durata del regno di Niceforo II Foca. Il momento storico preso in considerazione da Malerba nel romanzo viene definito da un insigne bizantinista come Georg Ostrogorsky «l’età d’oro dell’impero bizantino». Foca, già durante il breve regno di Romano II (959-963), riuscì a conquistare l’intera isola di Creta, diventata luogo di rifugio di pirati musulmani e successivamente sconfisse l’emiro di Aleppo, Saif ad-Dawla, rendendo più sicuri i confini orientali dell’ impero. La conseguenza di queste vittorie fu la sua ascesa al trono (963-969). Il romanzo si apre con una nota di carattere storico, riguardante il «fuoco greco», che dà il titolo al romanzo. 
Questa arma bellica, chiamata dai Greci «fuoco liquido o fuoco marino», costituì a lungo uno dei segreti più gelosamente custoditi dai Bizantini, dato che era spesso un elemento determinante negli scontri navali con i nemici. Solo l’imperatore e alcuni suoi collaboratori conoscevano la sua formula. Nell’omonimo romanzo esso diventa la struttura portante dell’intera trama. Scompare la pergamena che enunciava la segretissima formula del «fuoco greco» e le autorità preposte si mettono alla sua affannosa ricerca e delle persone che l’hanno trafugata. Malerba nella sua opera ha posto tutti i più classici ingredienti di un thriller: l’uccisione del Maestro delle Polveri all’interno della sua Officina, l’inchiesta giudiziaria con l’interrogatorio dei sospettati, le carceri tenebrose e i colpi di scena. 

Raffigurazione impiego del “fuoco greco”

L’autore ha saputo amalgamare tutta l’azione nell’ambiente storico proposto, mescolando elementi d’invenzione con altri rigorosamente accertati dagli storici. Malerba sicuramente si è documentato sul periodo preso in considerazione, sui personaggi proposti e sulla topografia di Costantinopoli e dei sontuosi palazzi imperiali. La figura di Niceforo Foca, uno dei personaggi più tragici della storia bizantina, nel romanzo è sicuramente quella più caratterizzata storicamente, è quasi sempre incombente ma appare poco. Quindi l’attenzione del lettore viene sempre più portata verso il personaggio di Teofano imperatrice, che sarà il perno centrale di tutta la drammatica vicenda. Di Teofano sappiamo che era una donna di grande astuzia e bellezza figlia di un oste e il cui nome era Anastaso. Dopo aver sposato Romano II, cambiò il nome in quello più elegante di Teofano. Alcune cronache danno per certo che avrebbe ucciso, mediante veleno, il suocero Costantino VII e il marito Romano II. Fu determinante nell’ascesa al trono di Niceforo Foca, da cui si fece sposare, e nel suo assassinio ad opera di Giovanni Zimisce, diventato suo amante e complice. Non va dimenticato che fu la madre di due futuri imperatori, Basilio II e Costantino VIII, dei quali fu tutrice e reggente durante la prima minorità. Pertanto Teofano può essere accostata a due personaggi femminili della storia bizantina, famosi per la perfidia e gli scandali. Si pensi a Teodora ed Irene: dell’una Teofano rievoca la lussuria degli anni in cui era stata ballerina e meretrice e dell’altra Teofano richiama alla mente quello sfrenato desiderio di potere che l’aveva indotta ad accecare il figlio, Costantino VI, nella sala in cui era nato. Tutto il romanzo è ricco di personaggi elaborati psicologicamente, ma il personaggio Teofano è ben descritto sia nei suoi incontri d’amore con Giovanni Zimisce sia in quelli, sempre più degradati, con Niceforo Foca. Inoltre Malerba riesce a raccontare l’insaziabile desiderio di potere della donna. Lo scrittore descrive le vicende che si svolgono all’interno dei Sacri Palazzi di Bisanzio, con arte raffinata e coinvolgente. Lascia poco spazio alle immagini e quindi affida ai dialoghi il desiderio degli uomini di conquistare il potere. Ma non parla solo di Bisanzio. Il suo discorso è valido anche per altri tempi ed altri luoghi, dovunque il potere ed una burocrazia corrotta continuino a celebrare i propri riti dietro le mura di un Palazzo impenetrabile. Il mistero del «fuoco greco» può forse essere identificato con il mistero del potere, che riesce ad eliminare ogni traccia di umanità in chi se ne fa possedere. Infatti in questo romanzo il sogno e la malinconia sembrano banditi o sono tutt’al più debolezze concesse a qualche vinto. Così ad esempio Niceforo chiude gli occhi per non vedere la faccia di Zimisce che lo colpisce. Ma è probabile che questi sentimenti sono una estrema illusione, in un tale mondo non rimane altro che le tenebre e l’oblio. Nella lunga serie di personaggi fatali che la letteratura del decadentismo ha creato, quelli «bizantini», soprattutto femminili, sono caratterizzati da un egotismo depravato e lussurioso.

Rivista quindicinale “Cronaca Bizantina”
Tra le donne fatali bizantine sicuramente primeggia l’imperatrice Teodora, grazie alle «Carte Segrete» di Procopio di Cesarea. Vale la pena ricordare che nella rivista quindicinale «Cronaca bizantina», a carattere letterario-sociale-artistico e fondata il 15 giugno 1881 a Roma dall’editore Sommaruga, (la Rivista, composta di quattro fogli in stile liberty, mancava di obiettivi polemici e ideologici ed esprimeva nei suoi scritti gli umori scapigliati di Carlo Dossi, il classicismo barbaro di Giosuè Carducci, le esperienze veriste di Luigi Capuana e Giovanni Verga e l’estetismo decadente del giovane Gabriele D’Annunzio), il 13 dicembre 1885 un trafiletto informava i lettori dell’imminente stampa del romanzo storico «Teodora», scritto da I. Fiorentini. La presentazione evidenziava come la protagonista del romanzo, Teodora, fosse un miscuglio di abiezione e di grandezza, di crudeltà, di magnanimità, mentre la società bizantina del tempo – con le sue dispute teologiche e con una grande turba di eunuchi, vescovi, capitani e cocchieri – le faceva degna corona. 
Anche Gabriele D’Annunzio, poeta e drammaturgo italiano, simbolo del decadentismo, ha creato personaggi bizantini, come la donna fatale ed eroina del «La Nave», Basiliola Faledra. 

La Nave. Tragedia di Gabriele D’Annunzio
Questa tragedia in versi era già composta nel 1907, ma venne pubblicata e rappresentata per la prima volta nel 1908. È risaputo quanto spazio D’Annunzio sempre abbia riservato nella sua opera a Venezia. Qui egli esalta le pugnaci origini della città lagunare, l’unica erede dell’antica Roma. La tragedia viene localizzata nell’anno 552 D.C., agli albori di Venezia. I suoi abitanti erano soltanto dei profughi, inconsapevoli dei propri destini. Molti di essi ricordavano le imprese di Belisario contro i Goti, pertanto avevano una posizione filobizantina, sperando in una valida protezione contro i barbari e nello sviluppo dei traffici. Altri temevano invece l’avidità di Giustiniano. Ad assicurare la libertà dei Veneti lacerati dalle fazioni vi era Marco Gràtico, eletto dal popolo tribuno del mare, mentre suo fratello Sergio diventava vescovo di Venezia. A minacciare la difesa della patria da parte di Marco, si profila la passione sconvolgente ed avvilente che egli concepisce per Basiliola Faledra. È lei la vera protagonista della tragedia. Basiliola vuole usare la propria bellezza per vendicare il supplizio patito dal padre e da quattro dei suoi fratelli, accecati e mutilati dai partigiani dei Gràtici e privati di ogni potere politico. I Faledri, originari di Aquileia, erano alleati dei Bizantini. Ad essi si muoveva l’accusa di vendere la libertà delle isole venete in cambio dell’oro dei Greci. Basiliola saprà soggiogare col suo fascino Marco e lo condurrà alla perdizione. A contrastare il potere nefasto di Basiliola interviene il monaco Traba, un eremita delle lagune. Nella sua invettiva egli paragona la ragazza alle grandi peccatrici della storia, la definisce eretica e meretrice. Marco alla fine, dopo lunghe peripezie e macchiatosi di fratricidio, riesce a liberarsi dalle lusinghe tentatrici e dalla sensualità della donna. La tragedia è piena di simbolismi e di ricercata erudizione, grazie alle letture del D’Annunzio delle più antiche cronache veneziane e delle fonti greche e latine, tra le quali Cassiodoro e Procopio di Cesarea.

Nelle numerose opere dannunziane è possibile riconoscere anche la traccia lasciata da Bisanzio, a volte lievemente impressa, a volte dispiegata in maniera più profonda. Sicuramente prevalgono in D’Annunzio i miti di Roma e della Grecia classica, a cui bisogna aggiungere l’eredità del Medioevo occidentale e del Rinascimento. Di Bisanzio egli seppe quello che la cultura del suo tempo poteva offrirgli, ottenendone in special modo un’immagine di fasto, di torbida lussuria e di esotismo. Il ricordo di Bisanzio richiamava in D’Annunzio la gloria delle città marinare d’Italia, soprattutto di Genova e di Venezia, diventate con i loro mercanti padrone dell’impero bizantino. Per il poeta pescarese i valori positivi della civiltà bizantina furono la perfezione dell’arte e l’eredità classica. Quando era bambino ambiva ad essere chiamato «Il Porfirogenito» e così lo salutava nei loro incontri parigini il conte Robert de Montesquiou-Fèzensac, eccentrico esteta che ispirò a Proust i tratti di alcuni raffinati personaggi: «O Porfirogenito, mio grande amico!» 

BIBLIOGRAFIA

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