Mondo scrittura: La nobile arte della punteggiatura 1.


 

Per la rubrica Mondo scrittura proponiamo il primo degli articoli della nostra collaboratrice e autrice Cristina M. Cavaliere dedicati alla punteggiatura. Oggi si parla di punto e punto e virgola.

Famoso è il detto “Per un punto Martin perse la cappa”. La storiella è nota: i superiori dell’abate Martino gli affidarono l’incombenza di dipingere sul portale della sua abbazia una scritta in latino. Questa recitava così: PORTA PATENS ESTO. NULLI CLAUDUTUR HONESTO, cioè “Questa porta sia sempre aperta. A nessun galantuomo sia mai chiusa in faccia.” Martino dipinse la frase, ma sbagliò ad inserire il punto e la frase divenne: PORTA PATENS ESTO NULLI. CLAUDUTUR HONESTO, cioè “La porta non si apra per nessuno, si chiuda per l’uomo onesto.” Non un bel biglietto da visita per un’abbazia che si rispetti! In questo modo Martino perse la cappa, cioè la possibilità di far carriera, e tutto per colpa di un punto mal collocato. Il detto è usato per far capire che le minuzie, cioè quelle che tendiamo a trascurare, si rivelano spesso decisive e che pagheremo cara la nostra negligenza.

 
Ho chiamato in causa la nota storiella perché l’argomento del post sulle tecniche di scrittura verte sulla punteggiatura, o segni di interpunzione, cioè quel sistema di segnali che indicano una pausa più o meno lunga, o un’intonazione. Siccome non fa mai male ripassare qualche regola di tanto in tanto, li prenderò in considerazione a due per volta. A parte alcune regole fisse, tuttavia, la punteggiatura è una questione del tutto personale e può variare anche molto da scrittore a scrittore. Varia persino da nazione a nazione: rimanendo in ambito europeo, è noto che noi italiani sovrabbondiamo nell’uso delle virgole, mentre gli anglosassoni le utilizzano in modo assai più parsimonioso. Inoltre un certo uso della punteggiatura suggerisce con buona approssimazione anche l’epoca in cui il romanzo o il racconto è stato scritto. 

Ritratto di Enrico VIII di Hans Holbein il Giovane
(1540 circa): un bell’esempio pittorico per il punto fermo!
Il personaggio era un vero e proprio macigno.

Cominciamo dal sovrano indiscusso di questa corte: il punto fermo o semplicemente punto.
Con questo segno si interpunzione si indica che un periodo del discorso è concluso e che bisogna fermarsi prima di riprenderlo. Nel parlare equivale a una pausa più o meno significativa in cui si riprende il fiato, per poi proseguire.

Ci sono autori che usano il punto dopo ogni parola o al massimo due-tre parole, producendo effetti del tipo “Spalancò gli occhi. Sedette. Pianse. Voleva morire. Balzò in piedi. Corse fuori. Scomparve per sempre”, e a questo punto viene da pensare “e meno male”. Si tratta di quello che chiamo “stile singhiozzante”, con l’uso del punto soprattutto per separare tra loro i verbi, che per loro natura sono la parte più dinamica della frase; a me non piace, ma de gustibus non est disputandum, come dicevano gli antichi e per prendere a prestito un’altra frase in latino. Un esempio meno estremo di questo modo di suddividere il periodo, e assai più evocativo e poetico, è questo passaggio di Alfredo Panzini:

Mattino di primavera. Sedile dei giardini pubblici al margine del laghetto romantico dove vanno a spasso le oche bianche. Dolce silenzio, dolce sole. Cespugli di serenelle spandono il loro odorino amaro. Romeo e Giulietta siedono sul sedile. Romeo ricama in silenzio, col bastoncello, segni sconsolati sopra i sassolini. Giulietta si asciuga col fazzolettino una lagrima.

Di contro, ci sono autori che inseriscono pochissimi punti, costringendo il lettore ad una specie di apnea che può durare anche per un’intera pagina in fondo alla quale si riemerge tirando il fiato e con i polmoni in fiamme. Eccovi un esempio tratto da Ho servito il re d’Inghilterra di Bohumil Hrabal edito da e/o:

E poi svegliavamo il domestico, un gigante che dormiva tutto il giorno e mangiava tutti gli avanzi dei banchetti notturni, un numero tale di porzioni da far venire il capogiro, intere zuppiere di insalata, quello che non eravamo riusciti a mangiare né noi, né le cameriere, il domestico se lo finiva tutto intero, tutto quello che avanzava nelle bottiglie se lo scolava lui, e aveva una forza enorme, per cui la notte indossava un grembiule verde e si piazzava a tagliar la legna nel cortile illuminato, non faceva nient’altro che tagliar legna, con melodici colpi di accetta tagliava, ogni giorno sul far della sera stava lì a far legna, tutta la notte a tagliare, naturalmente io avevo capito, e poi lo sentivo anche bene, che lui tagliava la legna sempre quando da noi veniva qualcuno, e da noi arrivavano solo automobili del corpo diplomatico, gruppi di automobili, sempre e soltanto la sera tardi o di notte, e il domestico tagliava la legna…

e siccome a questo punto ho pietà di voi, e non vorrei incorrere in problemi di diritti riproducendo un passaggio troppo lungo, vi dico che il testo prosegue per un’altra ventina di righe prima di incontrare il punto fermo. Con tutto, questo romanzo è delizioso, ma certamente si tratta di una lettura impegnativa.
Ricordo infine che il punto serve nelle abbreviazioni, come ad esempio: on. = onorevole, agg. = aggettivo, femm. = femminile, mentre nei titoli dei libri, dei giornali, nelle didascalie che non comportino una frase intera, il punto solitamente non si mette.



Chevalier d’Eon di Thomas Stewart
National Portrait Gallery, London
http://www.nationalgallery.org.uk/
Il primo audace esempio di “travestito”:
uomo o donna, punto o virgola?

Passiamo ora alla consorte del re, cioè il punto e virgola. Si tratta di una via di mezzo tra il punto e la virgola, una sospensione che è minore del punto, ma maggiore della virgola. Viene usato per separare gli elementi di un periodo, allo stesso tempo collegandoli tra loro. Di tutti i segni di interpunzione, il punto e virgola è forse quello che offre maggiore libertà, il cui uso denota un buon “orecchio” per la pagina scritta e di conseguenza una certa raffinatezza stilistica. Si tratta del segno più affascinante e, oserei dire, artistico del sistema-punteggiatura, con un’ambiguità insita nel suo ‘punto’ (maschile) e nella sua ‘virgola’ (femminile), come se avesse in sé una doppia natura. Oggi se ne fa sempre meno uso e ritengo che sia un vero peccato.
 

Vediamo un esempio famoso, contenuto nel finale de I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni:

Renzo, alla prima, rimase impicciato. Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore. Questa conclusione, benché trovata da povera gente, c’è parsa così giusta, che abbiam pensato di metterla qui, come il sugo di tutta la storia.

In questo estratto il personaggio di Renzo (o l’autore che scrive) esprime una prima conclusione sulle disavventure occorse, e poi, riflettendoci sopra, aggiunge altre considerazioni man mano che gli vengono in mente, arricchendo il suo pensiero. Se Manzoni avesse usato il punto fermo, l’intero sviluppo sarebbe parso più saltellante e scollegato.
 
Un autore che amava particolarmente il punto e virgola è il toscano Federigo Tozzi. Vi propongo qui l’incipit di Con gli occhi chiusi:

Usciti dalla trattoria i cuochi e i camerieri, Domenico Rosi, il padrone, rimase a contare in fretta, al lume di una candela che sgocciolava fitto, il denaro della giornata. Gli si strinsero le dita toccando due biglietti da cinquanta lire; e, prima di metterli nel portafoglio di cuoio giallo, li guardò un’altra volta, piegati; e soffiò su la fiammella avvicinandosi con la bocca. Se la candela non si fosse consumata troppo, avrebbe contato anche l’altro denaro nel cassetto della moglie; ma chiuse la porta, dandoci poi una ginocchiata forte per essere sicuro che aveva girato bene la chiave. Di casa stava dall’altra parte della strada, quasi dirimpetto. Ormai erano trent’anni di questa vita; ma ricordava sempre i primi guadagni, e gli piaceva alla fine d’ogni giorno sentire in fondo all’anima la carezza del passato: era come un bell’incasso.

In questo caso, si tratta di una somma di azioni suddivise e collegate dal punto e virgola che, in alcuni casi, avrebbe potuto essere sostituito dal punto o dalla virgola, ed è comunque un ottimo esempio di cifra stilistica per quanto concerne la punteggiatura.
 
Nel prossimo post relativo alla punteggiatura, mi occuperò dell’indisciplinata principessa di questa corte così variegata, la virgola, e dei vivaci gemelli, i due punti.
 
Spero di non aver dimenticato niente, in merito a questi due primi segni di interpunzione… E a voi che cosa piace trovare nella scrittura di un autore e che cosa vi infastidisce, riguardo alla punteggiatura? E, soprattutto, come la usate quando scrivete un brano letterario: siete ligi alle regole o scrivete in maniera spontanea? 

 

Vai alla seconda parte de “La nobile arte della punteggiatura”



4 commenti

  1. Grazie a te, Cristina. Ti assicuro che effettivemente non è affatto semplice in questo periodo ma mi sto ispirando alla dea Kalì 😀 😉

  2. Renato Mite

    Molti sottovalutano la punteggiatura, io no. Articolo molto bello, anche a me sta a cuore il punto e virgola e lo uso, non solo negli emoticons ;-)

  3. La punteggiatura è fondamentale. Fin troppi si appellano a non meglio definite "licenze poetiche" per giustificare errori e orrori. Devo ammettere però che anche io usavo più spesso il punto e virgola in passato che non attualmente. 🙂

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