Per la rubrica Mondo scrittura parliamo oggi della tecnica narrativa Show, don’t tell! a cura di Federica Leva.
Come dice il nome, la tecnica consiste nel mostrare una scena, con l’azione o il dialogo, ponendo in risalto le emozioni dei personaggi, anziché limitarsi a dichiararli. In questo modo, il lettore vive un preciso snodo narrativo insieme ai protagonisti, e non si limita a esserne informato. Questa drammatizzazione è di fondamentale importanza, in un racconto o in un romanzo, perché coinvolge il lettore, lo catapulta nella vicenda, mentre lo stesso concetto, se riferito in modo descrittivo, potrebbe scivolar via nell’indifferenza di un tiepido anonimato.
Per comprendere lo Show don’t tell! pensiamo ai film e ai telefilm che guardiamo abitualmente, dove lo spettatore viene portato dalla storia a formulare un’idea su una determinata situazione o su un determinato personaggio. Capiamo che un personaggio è buono, cattivo, falso, arrabbiato, avvilito ecc… non perché siamo indottrinati da una voce fuori campo, ma perché lo cogliamo dai dialoghi, dalle espressioni del viso e dalla situazione in cui si muove. È esattamente quello che accade nella vita reale: il nostro giudizio su una persona si costruisce sulla conoscenza più o meno diretta, sull’osservazione dei suoi gesti, delle sue parole, dei suoi sottointesi. Anche se un amico carissimo – voce narrante – ci dicesse che Tizio è un vigliacco, la nostra opinione sarebbe differente, se lo vedessimo correre in aiuto di un bambino attaccato da un leone affamato. E per quanto volessimo bene al nostro amico, non potremmo convincerci che Tizio non abbia effettivamente coraggio.
Ritratto di Jane Austen |
L’abbazia di Northanger – Jane Austen
Capitolo primo.
Nessuno, vedendo Catherine Morland da bambina, avrebbe mai immaginato che fosse destinata a diventare un’eroina. La condizione sociale, il carattere del padre e della madre, il suo stesso aspetto e il temperamento: tutto era contro di lei. Il padre era un ecclesiastico, né disprezzato né povero, anzi un uomo grandemente rispettabile, anche se si chiamava Richard, e non era mai stato bello. Aveva di una rendita personale notevole, oltre a quella procuratagli da due parrocchie, e non gli passava neppure per la mente di chiudere a chiave le figliole. La madre era una donna pratica, di buonsenso e di buon carattere, e, cosa particolarmente rimarchevole, aveva un’ottima salute. Prima di Catherine aveva avuto tre figli, e invece di morire nel dare alla luce quest’ultima, come logicamente ci si aspetterebbe, aveva continuato a vivere, abbastanza da avere altri sei figli e da crescerli, sempre godendo di ottima salute. Di una famiglia di dieci figli si dice sempre che è una bella famiglia, purché vi siano teste, braccia e gambe in numero proporzionato, ma i Morland non avevano altri motivi per essere definiti così, perché in generale erano piuttosto bruttini, e Catherine, per molti anni della sua vita, fu bruttina come gli altri. Aveva una figura sottile e impacciata, una carnagione pallida e spenta, capelli scuri e lisci, e lineamenti marcati; questo per ciò che riguarda l’aspetto fisico, ma anche il suo temperamento era ugualmente poco propizio a un destino di eroina. Le piacevano tutti i giochi dei ragazzi, e preferiva di gran lunga il cricket non solo alle bambole, ma ai divertimenti tipici dell’infanzia di ogni eroina, come accudire un ghiro, nutrire un canarino o innaffiare un cespuglio di rose. Per il giardinaggio era proprio negata, e se qualche volta raccoglieva dei fiori, lo faceva soprattutto per il piacere di disobbedire; almeno questo era ciò che si poteva dedurre dal fatto che preferiva sempre quelli che le era stato proibito di cogliere. Questi erano i suoi gusti; la sua intelligenza era ugualmente fuori del comune. Non imparava né capiva mai qualcosa prima che le fosse insegnata, e a volte neppure allora, poiché era spesso distratta e qualche volta un po’ tarda. La madre impiegò tre mesi solo per insegnarle a ripetere la “Preghiera del povero”, e alla fine la sorella minore Sally riusciva a recitarla meglio di lei. Non che Catherine fosse sempre ottusa, no di certo; imparò la favola de “La lepre e i suoi molti amici” con la stessa rapidità di qualsiasi altra ragazzina inglese. La madre voleva che studiasse musica, e Catherine era sicura che le sarebbe piaciuto, visto che adorava pasticciare sui tasti di una vecchia spinetta; così a otto anni cominciò. Prese lezioni per un anno e poi non ne poté più; e la signora Morland, che non insisteva mai perché le figlie fossero istruite a ogni costo, malgrado la loro incapacità o antipatia per quello che avrebbero dovuto imparare, le consentì di smettere. Il giorno in cui il maestro di musica fu congedato fu uno dei più felici nella vita di Catherine.
Ho riportato volutamente il lungo brano introduttivo al romanzo di Jane Austen – che, preciso, prosegue su questo tono fino alla fine del capitolo e parte del secondo. Si tratta di un elenco di nozioni e di fatti che il narratore-autore impone al lettore, senza permettergli di ricavarli da sé attraverso l’osservazione diretta dei personaggi coinvolti. A lungo andare, l’enumerazione diventa piuttosto noiosa, e può capitare che il lettore sposti l’occhio in un altro punto della pagina, in ansiosa ricerca delle virgolette – preferibilmente caporali -, testimoni dell’inizio di un dialogo e quindi di una scena che gli consenta di addentrarsi nella trama. Bisogna sempre ricordare che il lettore desidera affezionarsi ai personaggi – altrimenti non leggerebbe – e la modalità regina consiste proprio nel trascinarlo all’interno di un mondo veritiero, fatto di momenti vissuti, pensieri, azioni ed emozioni.
Riprendiamo l’incipit: Nessuno, vedendo Catherine Morland da bambina, avrebbe mai immaginato che fosse destinata a diventare un’eroina. La condizione sociale, il carattere del padre e della madre, il suo stesso aspetto e il temperamento: tutto era contro di lei.
Come possiamo affezionarci a un personaggio presentato passivamente in questo modo?
Sarebbe più facile provare simpatia, e magari complicità, se vedessimo una bambina bruttina calata in un ambiente semplice, circondata da una famiglia che apparentemente non potrebbe offrirle altro che una vita modesta e senza colpi di scena. Non vi tedierò con l’analisi di tutti i passaggi del brano sopra riportato, ma va da sé che l’autrice ci sta dicendo cosa pensare di Catherine, anziché risvegliare in noi la sensazione che la bambina sia insignificante, un po’ disobbediente, non portata per lo studio della spinetta e dall’intelligenza stravagante.
Spero che Jane Austen non mi lanci una maledizione, se attingo ancora dalla sua produzione per portare un secondo esempio di tecnica descrittiva.
Orgoglio e pregiudizio
Occupata com’era a studiare le attenzioni di Mr Bingley per sua sorella, Elizabeth era ben lontana dal sospettare di essere diventata essa stessa oggetto di un certo interesse agli occhi del suo amico. Sulle prime Mr Darcy aveva addirittura stentato a trovarla graziosa; al ballo l’aveva guardata senza ammirazione; e dopo di allora non l’aveva osservata se non per criticarla. Ma quando fu ben chiaro a lui e a tutti i suoi amici che nel viso di lei i bei lineamenti scarseggiavano, solo allora cominciò ad accorgersi della straordinaria intelligenza di quel viso illuminato da due bellissimi occhi neri. A questa scoperta ne seguirono altre, non meno mortificanti. Benché il suo occhio critico avesse infatti riscontrato in lei più di un difetto di simmetria, non poté non riconoscere che la sua figura era snella e aggraziata; e mentre notava che le sue maniere non erano quelle dell’alta società si sentiva attratto dalla loro briosa spigliatezza. Di tutto questo Elizabeth era completamente all’oscuro; egli restava per lei l’individuo antipatico a tutti, che non l’aveva giudicata abbastanza bella per invitarla a ballare.
In questo passaggio non si avverte la nascita dei sentimenti di Mr. Darcy nei confronti di Elisabeth. L’autrice si limita a raccontarci che all’improvviso l’uomo la trova intelligente, e quindi interessante. Non ci mostra una scena in cui lui la osserva, magari di nascosto, e avverte un inatteso batticuore. Magari potrebbe restarne turbato e cercherebbe di ribellarsi ai sentimenti che stanno prendendo il sopravvento sul suo orgoglio, fino ad ammettere con se stesso di essere intrigato dagli occhi neri di Lizzy e di giudicarla più interessante di tutte le belle dame che ha conosciuto in passato.
Una scena, specialmente se ben costruita, magari con un narratore interno, una scelta raffinata delle parole e il tratteggio di brevi immagini evocative, mi avrebbe fatto battere un po’ il cuore. La descrizione della Austen, invece, mi ha lasciata un po’ spiazzata e delusa.
Termina qui la prima parte di questo viaggio nello Show, don’t tell!. Nella seconda parte, come promesso, riabiliterò la figura di Jane Austen e parlerò anche dei vantaggi dei passaggi descrittivi, di cui non bisogna abusare, ma nemmeno rifuggire come se fossero i portatori sani della Yersinia Pestis.
A presto!
Leggi la seconda parte
Grazie per questo primo post, la questione dello "Show don't tell" mi ha sempre incuriosito senza turbarmi più di tanto, a dire la verità.
Come sempre la verità sta nel mezzo, a mio parere, e probabilmente dipende anche dal genere di romanzi di cui si tratta. In un romanzo giallo un eccesso di "tell" è senz'altro deleterio e controproducente.
Come lettrice e autrice di romanzi storici, invece, preferisco quei brani che offrano un buon mix di "show" e di "tell": che non rallentino l'azione ma che permettano anche, di quando in quando, spunti di riflessione e momenti di approfondimento.
Certo, Cristina! Come si leggerà nella seconda parte dell’articolo, il “tell” ha una sua ragione d’esistere e non deve essere demonizzato. Almeno, questo a mio parere, perché esistono partiti pro “show” e strenuamente avversi al “tell”, nemmeno fosse l’incarnazione del demonio. Laddove serva, per spiegare, creare un background socio-politico, rallentare l’azione, stimolare riflessioni ecc… il “tell” deve essere usato. Un intero romanzo scritto solo con azioni può diventare confusionario, pesante, e perfino superficiale. Il rischio del “tell” è quello di scivolare nell’infodump, se non si amalgama alla voce narrante e interrompe la scena, ma questo è un altro – annoso! 😀 – discorso.
Buona giornata! E grazie per il passaggio!
Bravissima, Federica, non avrei saputo dirlo meglio. Per quanto mi riguarda, sono la prima a seguire le regole quando scrivo, ma ritengo che la scrittura abbia una sua componente istintiva, musicale e del tutto affascinante che va oltre le regole e i tecnicismi. Ed è proprio quella che ci da il piacere di abbandonarci al flusso, salvaguardando, com'è ovvio, la chiarezza per chi legge.
A me sembra che una suddivisione manichea tra "show" e "tell" sia frutto di un'etichettatura – posso dirlo? – americana, di una scuola di pensiero che semplifica molto e nemmeno spiega tutto. Mi sono chiesta, ad esempio, come classificare un tipo di scrittura come quella del flusso di coscienza di Virginia Woolf o James Joyce (di cui peraltro ho letto solo stralci) alla luce dello "show, don't tell". L'argomento è immenso! 🙂
Concordo in tutto, Cristina. Un libro dovrebbe essere scandito dall'armonia delle parti, come se fosse una sinfonia, e l’autore dovrebbe inserire i passaggi opportuni nei punti che li richiedono. Se è necessario spiegare qualcosa, è giusto farlo, possibilmente restando ben inseriti nella matrice narrativa scelta. Ad esempio, se sto scrivendo uno storico o un fantasy, qualche spiegazione devo pur fornirla, altrimenti il lettore non capirà molto di quello che sta leggendo.
Qualcuno non la pensa così, purtroppo. Dal mondo anglosassone stanno arrivando mode e regole – scritte da chi, ancora non l’ho capito – per cui TUTTI gli autori del 2000 dovrebbero scrivere nello stesso modo. Scrivi narrativa di genere? Ah, è un genere inferiore, quindi usa SOLO il narratore focalizzato! Inserisci informazioni? Sono infodump, criminale – d’accordo, a volte lo sono! Scrivi frasi con più di un pensiero? PAZZO! Al massimo, due periodetti veloci, con soggetto, verbo e il complemento oggetto, altrimenti sei pomposo. Usi la narrazione in alcuni momenti di passaggio? È la mano di Satana a guidarti! Ossignur, che è? Ragionando con questo metro, ammettendo che la tecnica corretta sia una, e una soltanto, andando a ritroso dovremmo buttare via tutti i romanzi scritti dal 1980 fino al Gigalmesh. Ma se lo fai notare, scopri che le regole valgono solo per te, scrittore del 2014, e non per gli altri.
A me le modo non piacciono. E sono troppo ribelle per adeguarmi passivamente a regole che non abbiano una loro logicità intrinseca. Si mette male, lo so… 😀 BUONA SERATA!
Ottimo articolo! da lettore posso solo dire che se uno sa scrivere, lo sa fare, punto e basta! Invidio chi lo sa fare! E dubito fortemente che chi lo fa, prima di mettersi a scrivere un romanzo, si riempia la testa con tutte queste paranoie importate dai paesi anglosassoni (e dagli workshop) e che tenderebbero solo ad omologare il mondo letterario e gli autori. Per carità! Si scrive a istinto, si scrive bene e correttamente perchè si legge da decenni, ininterrottamente e non ci si sente mai appagati e non si finisce mai di imparare. Poi, l'esperienza ed il confronto (e una buona dose di umiltà) portano ad una sana e costruttiva autocritica. Io venticinque anni fa leggevo romanzi di fantascienza di Jack Vance e rimanevo incantato dalla sua capacità descrittiva, credo uno Show e un Tell dosati a regola d'arte. Lo definivo un pittore di scene. A leggerlo vedevo tutto, come se fossi davanti allo schermo di un cinematografo. Colori, odori, paesaggi alieni, luci, ombre, umori, emozioni… tutto! Perchè andare a castrare la magia dello scrivere (per chi lo sa fare) con tante paranoie, paletti, definizioni ecc. ecc.?!?
Federica, sei la mia anima gemella… letterariamente parlando. 😉 A me quello che fa paura è questa omologazione generale o appiattimento verso il basso. Non solo si demonizzano i periodi troppo lunghi che vadano al di là di soggetto, verbo, complemento oggetto, ma tutto ciò che vada ad abbellire la frase, ergo: gli aggettivi, gli avverbi… Per non parlare della punteggiatura, che ormai si riduce solamente all'uso del punto fermo. Addirittura ci sono scrittori che sostengono non bisognerebbe nemmeno fornire una descrizione fisica del personaggio (sto giusto preparando un post sul mio blog per la riapertura).
La domanda è: perché abbiamo così paura di essere noi stessi, mostrandoci attraverso la scrittura?
Io sono con te in tutto per tutto, Cristina. Abbiamo una lingua bellissima, ricca di sfumature e di potenzialità, e la stiamo appiattendo per assecondare le regole che giungono da oltre oceano. L'inglese è una lingua diversa dalla nostra e ha esigenze differenti. Io non voglio scrivere in un italiano inglesizzato, voglio raccontare una storia nella mia lingua madre. E la mia lingua madre ha le sue regole ortografiche e grammaticali – da rispettare, senza se e senza ma -, ha una sua musicalità e un potenziale espressivo enorme.
Conosco anch’io pseudo editori di nuova generazione che si credono grandi intenditori solo per aver letto un manualetto di scrittura creativa. I punti e virgola? Sono segni infamanti! Gli avverbi? Non più di uno a pagina – è anche vero, però, che molti giovani scrittori li buttano nel testo a secchiate. Usi “infatti” o “difatti”? È un intercalare delle nostre mamme – sì, a me è stato detto che scrivo come il Manzoni perché uso queste espressioni desuete. Usi una tecnica mista, con narratore plurifocalizzato e stralci di onnisciente? Eh, no, non va bene… e poi, quelle stesse persone ignorano che Martin, sì, il famoso Martin delle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco, non usa un narratore focalizzato puro ma alterna la focalizzazione interna a quella onnisciente…
Insomma, ci si sta adeguando un po’ troppo a mode che non ci appartengono, e se alcune regole mi convincono, perché sono logiche, altre mi lasciano perplessa.
Ah, come lettrice voglio sapere com’è fatto un personaggio. Non voglio leggere la descrizione pura e semplice: “era alto 1.87 mt, aveva gli occhi verdi e i capelli chiarissimi”, ma desidero che i vari dettagli escano dalla narrazione. Ho diritto, come lettore, di vedere il personaggio, esattamente come ho il diritto di vedere la scena in cui è coinvolto.
Buona giornata!