Presso il Museo del Cairo è conservato un sarcofago in miniatura appartenuto a una defunta un po’ speciale, una gatta di nome Tamit.

L’animale fu curiosamente sepolto con onori degni di una principessa e le decorazioni sulla bara permettono di intuire l’alta considerazione di cui dovette godere sia in vita che dopo la morte. La gatta, infatti, è raffigurata con tutti gli attributi tipici di un defunto di alto lignaggio: è seduta di fronte ad una tavola d’offerta riccamente imbandita, le didascalie la identificano esplicitamente col dio Osiride e le è attribuito il titolo di “defunto venerabile” (imakhy).

 

Sebbene sia nota la predilezione che gli Egizi ebbero per i gatti e si conoscano numerosi esempi di mummie di felini o altri animali, quello di Tamit è un caso assolutamente particolare. Non si tratta di una delle tante mummie ex-voto frequentemente deposte nei pressi dei templi a partire dall’Età Tarda; non è neppure possibile identificarla con uno dei tradizionali animali sacri egizi – si pensi ai tori Apis e Mnevis – i quali erano individuati fra più esemplari grazie a speciali caratteristiche fisiche e, una volta morti, imbalsamati con cura perché ritenuti la manifestazione terrena di una divinità. Le speciali attenzioni riservate al destino oltremondano di Tamit, infatti, vanno probabilmente spiegate con la volontà di far continuare anche dopo la morte un rapporto con un animale particolarmente amato e che, solo in via del tutto eccezionale, fu sottoposto agli stessi rituali e alle stesse procedure d’imbalsamazione riservate agli esponenti delle più importanti élite.

Ciò costituisce un fatto assolutamente straordinario: solo una piccolissima parte della popolazione poteva aver accesso alla mummificazione e ai riti ad essa connessa. Il lusso di poter garantire un simile trattamento anche ad un animale domestico doveva dunque costituire un privilegio decisamente esclusivo. Il padrone di Tamit, infatti, non era un uomo qualsiasi, ma un principe di sangue reale destinato a divenire faraone. Il suo nome era Tuthmose, primogenito di Amenhotep III e fratello maggiore del famoso Akhenaton.

 

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Sarcofago della gatta Tamit
Si possiedono pochissime notizie sul suo conto, tuttavia, nella prima metà del secolo scorso il padre della psicanalisi, Sigmund Freud, ipotizzò che il principe Tuthmose, una volta divenuto adulto, avesse abbandonato il credo dei suoi padri e, eliminata la componente divina presente nel suo nome teoforo (Tuth= Toth; mose= generato da), si sarebbe posto alla guida del popolo eletto in cerca della terra promessa. Seguendo questa interpretazione, dunque, Tamit potrebbe essere stata nientemeno che la gatta di Mosè. Tuttavia, per quanto l’identificazione tra il principe ereditario Tuthmose e il personaggio biblico sia stata ripresa in tempi più recenti anche da uno dei maggiori egittologi viventi, Jan Assman, la gran parte degli studiosi sostiene che il principe sia in realtà morto intorno al trentesimo anno di regno del padre.

 

 


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