Le Porte di Anubis – Tim Powers

 

 
Oggi voglio uscire un po’ dal seminato e parlare di un romanzo fantasy storico un po’ particolare, la gran parte della cui vicenda si svolge nella Londra dei primi anni del XIX secolo e coinvolge personaggi realmente esistiti.

 

A onor del vero, Le Porte di Anubis di Tim Powers più che romanzo fantasy sarebbe stato definito steampunk, anzi proprio uno dei precursori del genere. Certo ci sono i viaggi nel tempo e la componente magica. Potete riconoscere le cupe atmosfere dell’Inghilterra vittoriana, ma non troverete in questo libro strani meccanismi a vapore, posta pneumatica e ingranaggi meccanici, improbabili abbigliamenti dark in cuoio e pistoloni e gli onnipresenti occhiali da aviatore in testa.

 

Ma procediamo con ordine.

 

 

La trama in breve: 

Quando a Brendan Doyle venne chiesto di fare uno studio su Samuel Taylor Coleridge, non avrebbe mai pensato che gli sarebbe capitato di incontrarlo di persona, e di trovarsi d’improvviso sbalzato nel lontano anno 1810. Né si sarebbe mai aspettato di trovare Londra letteralmente pullulante di strani e terribili nemici. Dalle fogne di Londra ai palazzi del Cairo, attraverso i secoli, si snoda una vicenda estremamente intricata, affascinante e senza respiro.

Le Porte di Anubis esce nel 1983, vincendo in quello stesso anno il Premio Philip K. Dick. Qualche anno prima Tim Powers, assieme al suo compagno di college nonché anch’egli futuro scrittore James Blaylock, creava per gioco la figura del poeta William Ashbless attribuendogli una certa produzione lettaria. In questo romanzo Ashbless prende vita inserendosi perfettamente nel contesto storico e diventando l’alter ego del protagonista Doyle.
Londra vittoriana
La magia è l’elemento dominante del romanzo, a partire dai due maghi egizi che stanno ordendo un piano per sconfiggere l’impero britannico. Siamo infatti nel periodo colonialista dell’Inghilterra e un misterioso “maestro” al Cairo guida i suoi adepti a Londra per arrivare a uccidere il sovrano, niente meno che per mano di un giovane e inconsapevole Lord Byron.
L’arrivo nel 1810 di una comitiva di americani, giunti con un balzo temporale appositamente per ascoltare una conferenza di Coleridge, scatena le cupidige dei maghi in merito ai viaggi nel tempo e danno inizio all’odissea di Brendan Doyle, unico del gruppo a essere rimasto imprigionato nel passato.
I personaggi presenti nella storia sono molteplici e diversi sia per tipologia che per profondità di caratterizzazione.
Abbiamo figure interessanti e ben costruite come Amenophis Fikee che, con il suo ruolo di Joe Faccia-di-Cane, costituisce, a mio avviso, il filone più interessante del romanzo. Altri come Jacqueline “Jacky” Tichy sono piuttosto scontati nella costruzione e nelle motivazioni, se non ridicolmente improbabili (la ragazza viaggia attraverso tutta la storia nel suo travestimento mascolino dai baffetti posticci).

Il miliardario J.C. Darrow è lo scopritore delle “falle” temporali e, se si escludono le spiegazioni scientifiche “pizza e fichi” date al fenomeno dei viaggi nel tempo, è un personaggio che acquista spessore man mano che si scoprono le sue vere intenzioni.

Londra sotterranea
Tutto intorno si muove un sottobosco lovecrafiano di personaggi come il Dottor Romany e il clown/mendicante/pazzo Horrabin, responsabile con manipolazioni magico-genetiche della serie di crature mostruose che abitano le fogne di Londra.
Naturalmente il protagonista Brendan Doyle è il filo conduttore che lega i numerosi intrecci presenti nel romanzo. Fortunatamente non è un “prescelto” che scopre poteri nascosti, anche se dimostra una sorprendente facilità di adattamento alle situazioni più terrificanti da lasciare quantomeno perplessi. Ma il romanzo non ha poi pretese di essere introspettivo e quindi ci si lascia trasportare dall’avventura.
La storia raccontata è indubbiamente articolata e a suo modo innovativa (siamo nel 1983) nonostante si areni in taluni punti con una pesantezza che rende difficile il proseguimento nella lettura. La parte dell’ulteriore salto temporale per incontrare la Confraternita di Anteo risulta oltremodo ferraginosa e caotica, oltre che totalmente inutile ai fini della storia.
Il pregio maggiore del romanzo è di essere, nel suo complesso, un racconto sull’ineluttabilità del destino, su come le vicende personali e i tentativi volti alla manomissione della Storia finiscano inevitabilmente per essere appianati e incanalati nel corso definito e scritto degli eventi.
 
Tim Powers
Il grande difetto, purtroppo, è lo stile. Pur essendo in parte dovuto certamente alla pessima traduzione in Italiano, rimane il dubbio se la profusione di avverbi e la pesantezza di taluni passaggi siano o meno imputabili all’autore. Non vi è dubbio invece che i numerosi infodump, i PoV ballerini e la discontinuità del livello di narrazione (a volte approssimativa, a volte annoiante nello soffermarsi in sottigliezze) siano farina del sacco di Powers.
Una bella revisione dello Show don’t tell, nonché un alleggerimento di alcune parti inutilmente prolisse, gioverebbero notevolmente al miglioramento del costrutto.

Sono stata tentata più volte di abbandonare la lettura, ma quel retrogusto che lasciava l’avventura mi ha sempre indotta a riprendere in mano la storia. Il finale non delude e resta il piacere di aver letto qualcosa di fuori dagli schemi, che riesce a catturare anche il lettore più tradizionale.

 
Titolo: Le Porte di Anubis
Autore: Tim Powers
Editore: Fanucci
Pagine: 400
 

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