Dicembre 218 a.C. La Battaglia del Trebbia.


 

Correva l’anno 218 a.C. Il “Ticino” fu poco più di una schermaglia tra le cavallerie romana e cartaginese. Comportò il ferimento del generale Publio Cornelio Scipione padre e la conseguente ritirata delle legioni a sud di Piacenza, a ridosso degli Appennini. Il “Trebbia” fu invece un confronto campale tra i due eserciti al completo. Tale battaglia mise in risalto tutti gli aspetti del genio militare di Annibale dinanzi alla strategia statica e superata dello schieramento capitolino. I romani andarono incontro alla prima di una lunga serie di disastrose sconfitte. Il “Trebbia” avrebbe dovuto essere un monito per il futuro. Generali e senatori si dimostrarono invece presuntuosi nel valutare il pericolo che incombeva sull’Urbe. Annibale non era un avversario comune. Annibale possedeva il talento militare e il carisma di Alessandro Magno. Se Roma poteva essere conquistata e distrutta, l’unico in grado di farlo era proprio il Barcide.

Gli antefatti


Busto di Annibale

Scipione padre aveva compreso la forza dell’avversario. Lo temeva in quanto Annibale non era uno sprovveduto: la traversata della Alpi testimoniava la determinazione del generale punico. In seguito alla defezione delle reclute celtiche, passate alla controparte, Scipione aveva prontamente provveduto a ritirarsi a sud di Piacenza in una zona collinare e facilmente difendibile. Si fermò in attesa delle legioni del console Tiberio Sempronio Longo che dalla Sicilia erano state trasportate via mare ad Ariminum (Rimini). Da lì con uno sforzo straordinario stavano riunendosi agli “sconfitti” del Ticino. Nel frattempo il Barcide non se ne era stato con le mani in mano. Si era impadronito del presidio romano di Clastidium, utilizzato come base di rifornimento per l’esercito e aveva piantato il campo ad appena sei miglia dal Trebbia. Con l’ausilio della cavalleria era andato più volte in ispezione nel territorio intorno a Piacenza con lo scopo di individuare il terreno adatto ad una battaglia campale che potesse essere “giocata” secondo la sue regole. Il cartaginese sperava che la voglia di rivalsa dei romani, dopo lo scontro perso sul Ticino, spingesse i due consoli ad accettare il confronto. Una vittoria dei suoi uomini, avrebbe spinto le volubili tribù celtiche di quelle zone ad unirsi a lui nella guerra contro Roma. Questo gli avrebbe spianato la strada verso l’Urbe. Annibale era anche consapevole che in campo aperto i romani erano temibili avversari grazie alla forza d’urto della fanteria pesante. I condottieri romani tentavano sempre di costringere il nemico a combattere su terreni che fossero favorevoli alla tattica dirompente della fanteria legionaria. Dunque per “invitare” un romano a combattere, bisognava offrirgli un campo di battaglia di suo gradimento. La spianata posta tra i due accampamenti si trovava tra il fiume Luretta a est e il Trebbia a ovest. Si mostrava priva di alberi e impedimenti. Era idonea allo schieramento degli eserciti e apparentemente sembrava un terreno in grado di rassicurare i romani e spingerli a scendere in campo con la sicurezza di vincere. Tuttavia, a sud-est, quasi a ridosso degli argini del Trebbia, stava una zona caratterizzata da una rigogliosa vegetazione, talmente fitta da occultare alla vista un nutrito contingente di soldati. Annibale pensò di far nascondere in quella fetta di territorio circa duemila uomini al comando del fratello Magone. Al momento concordato, questi sarebbero comparsi sul campo di battaglia per attaccare alle spalle lo schieramento romano. Lo avrebbero chiuso in una morsa mortale, senza via di scampo. Il Barcide si raccomandò ai suoi dei. Temeva che gli esploratori romani potessero accorgersi del movimento di Magone. Questi, giovane ma determinato quanto il consanguineo, si mosse in piena notte. Il mattino dopo, il suo contingente era ben nascosto tra i rovi e le canne palustri nel letto del torrente, pronto ad agire.

Le forze in campo

 

 

Annibale in Italy – Jacopo Ripanda, XVI sec
 
L’umore nel campo romano migliorò di netto quando le legioni del console Sempronio Longo entrarono nell’accampamento. Andarono a formare con gli uomini dell’altro console, Scipione, un esercito di circa 16.000 fanti romani, 20.000 fanti italici ed alleati, 1000 cavalieri romani e 3000 alleati; una forza ragguardevole. Di contro Annibale poteva contare su 28.000 soldati di fanteria tra celti, iberici ed africani, 10.000 cavalieri tra celti e numidi e un contingente di elefanti, una ventina circa dei trentasette che avevano valicato le Alpi. La battaglia del Trebbia fu l’unica insieme a quella di Zama in cui il grande condottiero punico ricorse all’utilizzo degli elefanti. Altra curiosità interessante: secondo lo storico greco Polibio, il malconcio Scipione cercò di evitare la battaglia. Consigliò al collega Sempronio, nota testa calda, di non scendere in campo e lasciare la situazione così come era. Sempre lo stesso Polibio accusò Sempronio di non aver applicato alla situazione il giusto metro di giudizio essendo guidato nelle sue azioni non da motivi contingenti ma da ragioni personali riconducibili al desiderio di emergere e alla conseguente gloria che poteva derivare dallo sconfiggere Annibale sul campo. A parziale difesa di Sempronio, bisogna rammentare che lo stesso aveva conseguito alcune discrete vittorie quando era in Sicilia. E sul Trebbia, la sua cavalleria, rinforzata da alcuni reparti di fanteria era riuscita nei giorni precedenti la grande battaglia, a infliggere molte perdite alla controparte, subendone poche in un attacco azzardato ma alquanto fortunato per i romani. Fu per cortesia che la sera del 17 dicembre, Sempronio si consultò con Scipione circa la possibilità di affrontare il nemico in una battaglia campale. Scipione, dolente per le ferite riportate nello scontro del Ticino, non godeva più del prestigio di un tempo. Cercò di convincere il collega a rimandare il combattimento. Per lui i legionari a disposizione erano poco più che reclute. I mesi invernali erano necessari per addestrarli. Sempronio scosse la testa. Abbozzò un sorriso e congedò il vecchio Scipione. La decisione era presa e la gloria sarebbe stata solamente sua.
Polibio narra del tentativo di Scipione di dissuadere Sempronio dall’ingaggiare battaglia.
“…Publio aveva un’opinione contraria, riteneva infatti che le legioni sarebbero state in migliori condizioni dopo essersi esercitate durante l’inverno, e che i Celti, nella loro incostanza, non sarebbero rimasti fedeli se i cartaginesi fossero rimasti inattivi.”. (Polibio, III, 70, 3-4.). 

La battaglia del Trebbia

La battaglia del Trebbia

218 a.C. 18 dicembre. All’alba di un freddo mattino, Annibale ordinò alla cavalleria numida, circa mille uomini, di attaccare il campo romano dopo aver attraversato il Trebbia. Questi incredibili cavalieri leggeri, esperti nell’arte della schermaglia e del combattimento “mordi e fuggi” riuscirono a provocare la frettolosa reazione del comandante romano Sempronio. Egli giudicò l’attacco come una inaccettabile provocazione. Lanciò addosso ai numidi tutta la cavalleria a sua disposizione più seimila velites, (fanti equipaggiati alla leggera, armati di giavellotti, spade corte e scudo). Ricordo che nottetempo Magone aveva condotto un contingente di mille fanti e mille cavalieri, per la maggior parte numidi, ad sud-est di quello che sarebbe stato il campo di battaglia, imboscando gli uomini nella fitta vegetazione, in attesa. Tornando al campo romano. Mentre i cavalieri numidi iniziavano la manovra di disimpegno, incalzati dalla cavalleria romana e dai veliti, Sempronio Longo ordinò alla fanteria di schierarsi e serrare i ranghi preparandosi a marciare contro il nemico. Ai soldati non era stato concesso di fare colazione né di attrezzarsi per il freddo pungente. Di contro nell’accampamento punico, gli uomini di Annibale, prima di schierarsi, si erano ben nutriti e cosparsi il corpo di olio e grasso animale per proteggersi al meglio dalle gelide folate di vento. Appena i romani si mossero, i numidi dell’avanguardia si ritirarono del tutto andando a costituire con la fanteria leggera uno sbarramento a protezione del grosso dell’esercito del Barcide subito oltre il Trebbia. Il fiume era ingrossato dalle piogge. L’acqua era gelida, la corrente forte. Il vento sferzava i visi. Gli uomini di Sempronio guadarono con estrema fatica, immersi fino al petto. Si presentarono sull’argine opposto in condizioni fisiche e morali penose. I veliti erano esausti. Avevano inseguito i cavalieri numidi, sciupando quasi tutti i giavellotti. I cavalieri si erano dispersi e solo a fatica erano rientrati nei ranghi, schierandosi ai lati delle fanterie. La trappola progettata da Annibale non solo era scattata ma stava funzionando a meraviglia.

Il resoconto dello storico Livio:
“…essendosi tratti fuori così a furia uomini e cavalli, senza che avessero potuto prima prender cibo e senza che nulla fosse stato predisposto per difenderli dal freddo, le membra erano irrigidite […] come poi, inseguendo i Numidi in ritirata, entrarono nell’acqua (che gonfiata dalla pioggia notturna, arrivava loro fino al petto), ne uscirono fuori tanto agghiacciati che a malapena potevano tenere le armi, e venivano meno per la stanchezza e, con l’inoltrarsi del giorno, anche per la fame.” (Tito Livio, Storia di Roma, XXI, 54).
Busto dello storico Tito Livio

Il comandante romano dispose l’esercito secondo tradizione con i legionari al centro su tre linee (hastati, principes, triarii). La fanteria alleata, (italici e cetomani), proteggeva i fianchi destro e sinistro delle legioni. Le cavallerie ai lati con i veliti posti innanzi allo schieramento. Annibale invece presentava al nemico 20.000 soldati di fanteria schierati in un’unica linea, (gli iberici ai lati, i celti al centro, i fanti pesanti africani, più affidabili ed addestrati divisi in due contingenti, posti poco dietro le cavallerie). I pochi elefanti e la fanteria da schermaglia dinanzi alla suddetta linea. Le cavallerie numida e celtica poste, equamente divise, alle ali. La battaglia si aprì sotto una pioggia torrenziale mista a nevischio, (secondo lo storico latino Tito Livio), con il classico confronto di schermaglia tra le fanterie leggere. Scontro in cui i veliti ebbero la peggio essendo già provati dal precedente combattimento con i numidi e a corto di giavellotti. Ritirati tra i ranghi i veliti, Sempronio ordinò alle truppe pesanti di avanzare. Annibale lanciò all’attacco la sua cavalleria contro la controparte romana la quale attirata fuori dal campo di battaglia ebbe la peggio. Gli equiti e gli alleati socii poco poterono contro i dirompenti e riposati cavalieri celtici e iberici. Ripiegarono con disordine verso il Trebbia. Con le cavallerie in rotta, entrambi i fianchi dello schieramento romano rimanevano scoperti. I cavalieri numidi che seguivano i compagni celti ed iberici, con un’abile manovra si sganciarono dall’inseguire i fuggiaschi, attaccando i fianchi esposti della fanteria romana. I temibili frombolieri delle Baleari indirizzarono i loro lanci di pietre verso i settori già vessati dai numidi. I due plotoni di fanti africani, costituiti da veterani addestrati e agguerriti, si mossero. Aggirarono lo schieramento capitolino attaccando alle spalle gli alleati romani. Italici e cenomani si dimostrarono del tutto inappropriati nel difendere i fianchi delle legioni, attaccate e bloccate in prima linea dagli elefanti. Cedettero, sopraffatti dall’assalto. Intuendo che il momento cruciale della battaglia era giunto, Magone mosse i suoi 2000 uomini piombando come un falco alle spalle delle legioni romane. I triari chiudevano la disposizione romana. Tentarono di opporsi con fermezza. Invano. Fu la fine dell’esercito di Sempronio che si sfaldò totalmente. 10.000 uomini del centro, (tutti legionari), guidati dallo stesso console riuscirono a sfondare il centro cartaginese costituito dai celti, trovando la salvezza in un’ordinata ritirata verso Piacenza. Fu l’unica soluzione possibile dato il totale isolamento dal resto dell’esercito romano ormai circondato ed in trappola.

Conclusioni

L’esercito romano di Sempronio perse nella battaglia della Trebbia circa 20.000 effettivi. Quello di Annibale ebbe perdite minori e limitate per di più ai celti che costituivano il centro dello schieramento che subì lo sfondamento da parte dei 10.000 legionari guidati dal console. Questo scontro mise in risalto il genio militare del Barcide, capace di mettere a punto una straordinaria strategia dinamica e innovativa, iniziata dalla “scelta” del campo di battaglia e terminata con l’imboscata di Magone. Polibio tiene ad assolvere Publio Cornelio Scipione da ogni responsabilità inerente questa sconfitta che sembra ricadere in toto sulla miopia del console Sempronio Longo. Egli fu accusato di essere caduto in trappola attaccando battaglia in modo frettoloso e poco organizzato. Per difendersi mandò a dire al Senato che la causa della sconfitta era riconducibile unicamente al maltempo (Polibio). Con l’inverno che imperversava in quel dicembre del 218 a.C. entrambi gli eserciti decisero di fermarsi; i romani di Scipione e Sempronio nei pressi di Piacenza mentre i cartaginesi di Annibale nella valle del Po. Annibale si dedicò al reclutamento di nuovi alleati celtici da unire al proprio esercito. La strada per il sud Italia sembrava aperta e percorribile.

 
Riferimenti bibliografici
– “Fonti per la Storia Romana”, Giovanni Geraci, Arnaldo Marcone, Le Monnier Università
– “Storia romana”, Giovanni Geraci, Arnaldo Marcone, Le Monnier Università
– “Cannae 216 BC: Hannibal smashes Rome’s Army”, Mark Healy, Osprey Publishing
– “Le grandi battaglie di Roma Antica”, Andrea Frediani, Newton Compton Editori
– “The Roman Army of the Punic Wars 264-146 B.C.”, Nic Field, Osprey Publishing

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