Ritto sulla prora della sua galea, Enrico Dandolo, figlio di Vitale, armato dalla testa ai piedi, e con l’insegna di San Marco che sventola innanzi a lui, ordina, illeso, di avanzare fin sotto le mura di Costantinopoli, sotto la pioggia dei dardi imperiali. Pochi istanti dopo il leone di Venezia troneggiava sulla rena.
In breve, Bisanzio cade.
Dandolo era ultra-novantenne, e cieco.
Questo l’evento che accompagnò l’anziano duca veneziano dal regno della Storia a quello del mito. Nella vulgata questo fatto determinò la conquista della capitale dell’Impero Romano d’Oriente per mano dei Crociati. Può darsi che gli eventi si siano svolti realmente in questo modo, può essere invece che la tradizione, tramandata ai posteri soprattutto dagli abitanti della potenza adriatica, abbia accentrato sulla figura del vecchio doge un ruolo decisivo, emblema dell’eroismo con cui si voleva ricordare l’esercito della croce, data anche la straordinarietà dell’episodio e del suo protagonista.
Quel che è certo è che l’episodio senz’altro vi fu. Come senz’altro stiamo trattando del doge più celebre della millenaria storia del dogato venetico, Enrico Dandolo, personaggio chiave della IV crociata, guerra iniziata per liberare Gerusalemme dalle mani degli infedeli, ma finita a conquistare le città cristiane di Zara e, soprattutto, di Costantinopoli. Una crociata che la Terra Santa non la vide nemmeno.
Per comprendere come questo sia potuto accadere, e in quale contesto sia sorta la figura chiave di Dandolo, lo storico dell’Evo Medio prof. Thomas F. Madden, docente presso la Saint Louis University, direttore del Center for Medieval and Renaissance Studies, collaboratore de «The New York Times», «The Washington Post», «The Wall Street Journal» e “The History Channel”, nonché autore di diversi studi sulle crociate e vincitore di diversi premi, tra cui l’“Otto Grundler Prize” e la “Haskins Medal”, compie un viaggio tra i documenti dell’epoca e le fonti storiografiche, cominciando a ricostruire la storia della famiglia Dandolo già dalle generazioni precedenti, con particolare attenzione per gli aspetti sociali ed economici della Venezia di XII e XIII secolo.
Il risultato è Doge di Venezia. Enrico Dandolo e la nascita di un impero sul mare, non un banale enchiridio evenemenziale, ma un magistrale capitolo di Storia, anche sociale, di sette, otto secoli fa.
La IV crociata dura tre anni, dal 1201 al 1204. Con un ruolo preminente, almeno alla pari dei condottieri dei Franchi, generalmente i “padroni” dei crociati, tanto da divenirne sinonimo, Enrico Dandolo rappresenta i Veneziani, ovviamente, sebbene ufficialmente non come doge, avendo delegato l’incarico, al momento della partenza verso la Terra Santa, a cui non arriverà mai, al figlio Ranieri, vicedoge.
Il percorso che ho tentato di seguire in questa relazione non è prettamente cronologico: con una terminologia diacronicamente cinematografica si potrebbe parlare di prolessi, più comunemente flashforward, in inglese, o di flash-future, dalla IV crociata a ritrovo. Non perché il medesimo sia stato lo stile espositivo, narrativo del prof. Th.F. Madden, ma perché questo è tuttavia il percorso di ricerca che l’ha condotto alla stesura del libro in esame, a partire da un lavoro che stava conducendo sulla IV crociata.
Imbattendosi in uno dei protagonisti, se non il protagonista indiscusso di tale evento, ne è nata questa monografia. Per il professore della Saint Luis University, Enrico Dandolo non era un uomo sicuro di sé che abbindolò i cavalieri franchi per dirigere la spedizione contro Costantinopoli per gli interessi della sua città. Al veneziano per nulla interessato alle questioni fede, il prof. Th.F. Madden contrappone l’uomo onesto, prudente, pragmatico e amante della sua patria. Amante della sua patria, ci si permette, senz’altro. Sul tema della fede è interessante l’opera Doge di Venezia nello sfatare questa diceria sugli abitanti dell’attuale capoluogo veneto.
Ci si sofferma infatti nei primi capitoli, a descrivere il clima sociale, le rotte commerciali e i rapporti diplomatici tra Oriente e Occidente, ma anche a trattare il tema della riforma del clero regolare che dalla Francia investe anche il dibattito lagunare. Per questo motivo, un protagonista del libro è un altro Enrico Dandolo, zio paterno dell’omonimo doge, in quanto fratello di Vitale. Figlio di Domenico, il primo Enrico Dandolo ricoprì un ruolo centrale nella scena religiosa, investito della prestigiosa carica di patriarca di Grado.
Nel 1130, questi fu eletto a tale ruolo. Così come poi l’omonimo nipote, Enrico aveva, in precedenza, partecipato, insieme al fratello Vitale, a una crociata, in questo caso quella indetta nel 1122, sotto il ducato di Domenico Michiel. Anche allora i Veneziani si erano scontrati con l’Impero Romano, quando, l’anno seguente, avevano attaccato la bizantina Corfù. Organizzata per andare in soccorso a Baldovino II, Re di Gerusalemme, questa missione era riuscita ad assediare e conquistare Tiro, una delle antiche città fenicie, a quel tempo in mano ai musulmani, nel moderno Libano. Interessante anche in questo caso la “deviazione” contro i possedimenti di Costantinopoli, con cui allora Venezia era in guerra.
L’autore ripercorre la storia dei due partiti veneziani che, sin dall’Alto Medioevo, rappresentavano diverse tendenze politiche nell’ottica internazionale, rispettivamente quello filo-franco e quello filo-bizantino, aventi cioè come punti di riferimento le due potenze dell’Occidente e dell’Oriente.
Se per la Storia di Venezia nell’Alto Medioevo, eccezion fatta più che altro per la parentesi del dogado di Pietro IV Candiano, i rapporti con Bisanzio, inizialmente come territorio sottomesso poi come alleato (sebbene il passaggio tra le due condizioni sembra sfumato e indefinito) furono per lo più buoni, nel Basso Medioevo si alternarono fasi di privilegi finanziari e commerciali, accordati dall’Impero a Venezia, ad altre fasi di aperte ostilità, sino, da un lato, all’arresto di migliaia di ostaggi veneziani da parte dell’imperatore, e, dall’altra, decenni più tardi, addirittura alla conquista di Bisanzio per mano dei Franchi e del doge Enrico.
Ritornando alle alterne fortune della famiglia Dandolo, il succitato Enrico, patriarca gradense, andando contro gli interessi di Venezia e persino della sua stessa famiglia, che aveva importanti commerci con la capitale dell’odierna Turchia, si schierò contro l’alleanza tra Venezia e Costantinopoli, sancita nel 1147. Enrico avrebbe preferito, per ragioni di confessione, rapporti con i Normanni, che erano cattolici come il patriarcato di Grado e la curia di Venezia, naturalmente, a quelli con i Bizantini, che erano ortodossi e, in quanto tali, scomunicati dal pontefice romano.
Nonostante ciò, il suo alto prestigio e le posizioni fortemente cattoliche, fu esiliato, con tutta la famiglia, da Venezia, dove, pur essendo patriarca di Grado, era in realtà insediato. Ciò perché il papato non poteva sostenere tali posizioni, essendo tesi i suoi rapporti con i normanni Altavilla a cagione delle loro tendenze espansionistiche.
Enrico Dandolo si spegneva di lì a poco nella vicina Caorle.
Da questa fase, sicuramente interessante per il clima di alleanze e contrasti politico-religiosi, si appalesa un membro della famiglia Dandolo sinceramente convinto della sua linea in fatto di fede, anche laddove essa andasse a scontrarsi con gli interessi cittadini e addirittura economici propri della famiglia. Tali prodromi delle vicende del nipote, maggiormente noto per la rilevanza della conquista crociata di Costantinopoli, consentono al prof. Th.F. Madden, che dedica a queste ampio spazio e non le relega al ruolo di antefatto, di presentare sotto un’altra luce la fede che potrebbe aver spinto il doge Dandolo a imbarcarsi per la crociata, forse lo stesso sentimento religioso che aveva spinto lo zio ad agire in maniera persino autolesionistica.
In seguito all’esilio della famiglia e alla successiva revoca dello stesso, alcuni anni più tardi, si presenta un altro elemento di straordinarietà dei Dandolo, la determinazione per una nuova scalata sociale che, in una sola generazione, li porterà a governare la città da cui, esuli, erano stati costretti a partire – una forza di cui forse è emblema anche una longevità di sicuro non comune ai giorni nostri, né, tanto meno, allora.
Con l’esilio, le proprietà dei Dandolo erano state devastate. Ribadisco come l’autore dedichi gran parte del libro alle vicende della famiglia del doge, spiegando anche come abbia dovuto scrivere quasi solo degli esponenti maschili della casa, considerata la scarsità di dati relativi alle donne.
Una delle poche informazioni su un membro femminile acquisito del casato patrizio in oggetto si inserisce proprio in questa fase, quando i Dandolo, nel 1151 siglarono una pace con il doge allora in carica, Pietro Polani, a suggello della quale egli diede il moglie Primera Polani ad Andrea, fratello del futuro duca Enrico.
Le sfortune per i Dandolo si erano concluse. Inizia da quivi per loro un quarantennio di commercio, ricchezza e buona reputazione, culminante il 21 giugno 1192, con l’elezione di Enrico Dandolo a Dux Venetiae et Dalmatiae.
Questi era nato in patria nel 1107 circa e aveva vissuto il travagliato periodo dell’esilio familiare in età già matura. Eletto ultraottantenne, viene descritto ormai cieco. Vi è chi ha messo in discussione tale dato, ritenendo che non avrebbe potuto svolgere i suoi compiti, come quello di giudice, sottesi alla carica ducale, con una tale menomazione. L’autore dell’opera tuttavia, dall’analisi dei documenti autografi, evidenzia come l’inclinazione della firma di Enrico, con l’avanzare degli anni, mostri i segni tipici della perdita graduale della vista. È possibile che non la avesse persa proprio completamente, ma, in ogni qual modo, tale informazione riportata risulta confermata.
Come accennato poc’anzi, il XLI ricoprì anche la mansione di giudice – come già il nonno (e gastaldo ducale) Domenico, figlio di Bono, figlio di un altro Domenico Dandolo –, nonché, dal 1170 quella di bailo (funzionario) a Costantinopoli, nominato dall’allora doge Vitale II Michiel.
Il ducato di Enrico fu ricordato come forte e condotto con saggezza nonostante la sua età avanzata. Concluse accordi con il patriarcato di Aquileia, verso la quale i rapporti con Grado e Venezia erano stati movimentati dal tempo dello Scisma dei Tre Capitoli.
Fino al 1201, nella fase precedente alla crociata del suo governo, si riaccese la guerra con Zara, rivale di Venezia nel predominio sulla Dalmazia. A fianco degli Zarantini, vi era però, oltre ai Pisani, Béla III Arpàd, Re d’Ungheria, Croazia e Slavonia, in buoni rapporti con Bisanzio.
Ritengo che da questa fase e dai dati sopra riportati per quanto concerne Zara e la posizione bizantina vicina a quella di re Béla III si possano forse scorgere significativi segni “premonitori” dell’esito della successiva crociata, a differenza però dell’autore, per il quale tale collegamento, se non certo inesistente, fu comunque meno determinante per i successivi sviluppi della missione crociata.
In seguito al fallimento della III, papa Innocenzo III, all’indomani della sua elezione al soglio di San Pietro (1198) indisse una IV crociata a cui aderirono i Franchi, Venezia, i Fiamminghi e altre potenze europee, con più di quattrocento navi e quaranta mila armati. Nonostante le rosee trattative iniziali tra Franchi e Veneziani, già dalle fasi preliminari, dettagliatamente descritte dal prof. Th.F. Madden, la crociata fu un fallimento. Radunato a Lido, l’esercito crociato era costituito prevalentemente da semplici cittadini e solo una minoranza era formata effettivamente da soldati. La carenza di liquidità dei nobili del Sacro Romano Impero, unita alle dimensioni problematiche dell’armata (ci si aspettava molti più volontari) determinarono una permanenza più lunga dell’esercito sull’isola di Lido, con le conseguenti e inevitabili tensioni con la popolazione locale che derivano dalla presenza per mesi e mesi di truppe di decine di migliaia di uomini. Il problema del danaro per il mantenimento e il rifornimento delle milizie fu un elemento sfavorevole che attanagliò tutta la guerra e uno dei motivi per cui si decise di conquistare la ricca capitale bizantina.
Messasi finalmente in rotta a ottobre o a novembre, a seconda delle fonti, la flotta fece tappa a Trieste e a Muggia. Il 10 novembre giunse a Zara, che assalì e saccheggiò dopo cinque giorni di assedio, arrivando a smontare la città, presso cui si fermò per diverso tempo, mattone per mattone. Ne conseguì la scomunica del papa, che aveva proibito di attaccare città cristiane. Tale scomunica non fu tuttavia comunicata dai comandanti alle truppe per evitare che desistessero dal continuare nella crociata.
Ma, come si è detto più volte, l’assalto a fratelli cristiani era solo all’inizio. Il 17 luglio 1203 i crociati, che nel frattempo per le ragioni su esposte avevano dirottato la missione verso la penisola anatolica, aprirono una breccia nelle mura imperiali e sconfissero Alessio III, che aveva usurpato il trono a Isacco II, il cui figlio, Alessio IV, si era unito ai crociati e fu nominato correggente del padre alla sua restaurazione. Alessio V, alleato di Alessio III e cugino di Alessio IV, si mise a capo di una rivolta che uccise il cugino e lo nominò imperatore. Isacco II morì poco dopo, forse assassinato. Il nuovo sovrano tagliò i rifornimenti e i pagamenti promessi da Alessio IV (in realtà nemmeno da questi mantenuti), mentre l’esercito della croce continuava a saccheggiare Costantinopoli.
Il mancato pagamento delle truppe determinò una seconda conquista di Bisanzio, con la conseguente fondazione nel 1204 dell’Impero Latino cattolico con a capo Baldovino I. Nel 1261, con Baldovino II, esso era già crollato e come religione di Stato, al posto del cattolicesimo (di breve durata), tornò il cristianesimo ortodosso. Di fatto, la IV crociata si era conclusa con un nulla di fatto e a Gerusalemme non era nemmeno arrivata. Le potenze coinvolte non avevano conquistato molto nemmeno in termini di ricchezze, limitandosi più che altro a recuperare i soldi anticipati, come nel caso di Venezia, e a pagare i soldati, tra saccheggi e contrasti interni tra i comandanti crociati, sui quali spesso l’anziano, centenario Enrico Dandolo aveva avuto un ruolo preminente.
Per riprendere considerazioni più generali, trovo infine molto interessante l’osservazione del prof. Th.F. Madden secondo cui la Venezia del Medioevo è stata oggetto di un’attenzione relativamente scarsa da parte degli storici, visto che rispetto alle decine di studiosi che si sono occupati della fase repubblicana, solo in pochi hanno approfondito invece il millennio (quasi) precedente, un’epoca per la quale si sono comunque conservate migliaia di documenti dei secoli XI e XII, sebbene il maggior numero sia del XIII e la stragrande maggioranza addirittura posteriore al XIV.
Aggiungo che il ruolo centrale e soprattutto internazionale di Venezia in epoca pre-moderna precede di circa due secoli quell’intessere cosmopolita di relazioni e scambi tra mondi apparentemente in antitesi come l’Europa cristiana cattolica e “gli infedeli”, ma anche l’Impero bizantino con la sua Chiesa ortodossa, antitetica alla concezione di Chiesa e Stato dell’Occidente, come osserva lo storico prof. Paolo Prodi, docente di Storia moderna all’Università di Bologna[1].
Tale respiro internazione, seppur con tutte le dovute differenze (lungi da me cadere in un anacronismo) mi ricorda certe osservazioni proposte da studiosi quali gli storici dell’Età moderna prof. Serge Gruzinski[2] e prof. Sanjay Subrahmanyam[3] per un’epoca iniziata due secoli dopo la morte del doge Dandolo.
Preciso come quest’ultima sia un’opinione personale, non presente nel Doge di Venezia, che si concentra su altri significativi aspetti, né attribuibile al prof. Th.F. Madden.
In una sola osservazione conclusiva, se mi è concessa, ho notato come, nonostante l’autore si prefigga di superare certi pregiudizi e faziosità della storiografia, come quelli di chi ha spesso visto i Veneziani come avidi mercanti scaltri e senza scrupoli, in realtà poi di partigianeria lo si potrebbe egualmente accusare, quando prorompe in tutta una serie di giustificazioni pur di sostenere che il doge e gli altri notabili veneziani non avessero alcuna intenzione di deviare la crociata dal suo obiettivo (i musulmani, con cui essi facevano floridi affari) verso le rivali economiche Zara e Bisanzio, quasi una concatenazione di eventi imprevedibili, e soprattutto non voluti, abbia condotto la IV crociata verso esiti ‘sì favorevoli per la potente Venezia.
Ho scelto di soffermarmi in particolar modo sugli aspetti precedenti e concernenti Enrico Dandolo e la IV crociata sia per rispettare i rapporti del libro (tre capitoli a fronte di ben dieci totali), sia perché ritengo la ricchezza del saggio insita proprio in questo studio massiccio della contestualizzazione, partendo a ritroso nel tempo dall’importanza sociale della longeva famiglia Dandolo, ben rappresentata dall’omonimo zio, che rende tale fatica letteraria, ritengo, unica per questo periodo particolare della storia medievale di Venezia, al di là della semplice e più comune narrativa evenemenziale sulla crociata che conquistò la capitale dell’Impero Romano, Costantinopoli.
[1] Th.F. MADDEN, Doge di Venezia. Enrico Dandolo e la nascita di un impero sul mare, Bruno Mondadori, Bologna 2009 (2003).
[1] M. CACCIARI, P. PRODI, Occidente senza utopie, Il Mulino, Bologna 2016.
[2] S. GRUZINSKI, Abbiamo ancora bisogno della storia? Il senso del passato nel mondo globalizzato, Cortina, Milano 2016.
[3] S. SUBRAHMANYAM, Mondi connessi. La storia oltre l’eurocentrismo (secoli XVI-XVIII), Marcocci, 2014.
Titolo: Doge di Venezia. Enrico Dandolo e la nascita di un impero sul mare
Autore: Thomas F. Madden
Editore: Mondadori
Pagg. 353