Sandro Matteoni, studioso di storia militare, analizza accuratamente i problemi sociali e culturali derivanti dalle guerre. Ha dato alle stampe svariati testi, fra i quali è opportuno menzionare Ribelli e briganti di Toscana (Le Lettere), Italia: l’impresa di Roma nella penisola (Mondadori) e Storia illustrata delle armi bianche (Giunti).
Di particolare importanza per una piena comprensione del volume Sul confine dell’impero: imprese militari e vita quotidiana dei soldati di Roma (editato nel mese di giugno del 2016) risulta l’introduzione dell’autore. Nella stessa Sandro Matteoni afferma che: «… Soprattutto occupandosi di periodi molto lontani, come quegli anni a cavallo tra il I e il II secolo d.C. quando vissero e scrissero le loro lettere Ceriale[1] e Adiutore[2], è rarissimo avere la possibilità di avvalersi di documenti diretti, di lettere o di atti amministrativi scritti da uomini o donne comuni. I grandi della terra lasciano tracce per i biografi del futuro, i piccoli no; e anche lo studioso di microstoria che indaga le vicende di comunità locali su lunghi periodi deve spesso rinunciare ai singoli e limitarsi alla collettività. I nomi, le vite, i problemi, le speranze degli uomini e delle donne comuni difficilmente vengono registrati. E ancor più difficilmente eventuali registrazioni sopravvivono al trascorrere del tempo. Per disporre di un materiale simile occorre un vero e proprio miracolo. Per fortuna però, almeno in archeologia, qualche volta i miracoli accadono; e uno di questi miracoli archeologici è avvenuto proprio nel remoto e secondario forte ausiliario di Vindolanda. Cosa è successo a Vindolanda che ha portato alla scoperta miracolosa? Proviamo a ricostruirlo. Anzi, proviamo a raccontarlo. Non possiamo essere sicuri che i fatti si siano svolti esattamente come li esporremo, ma è molto probabile che le cose siano andate più o meno così.
VINDOLANDA, 105 D.C.
In un giorno della primavera del 105 un cavaliere si presentò alla porta del forte (anche una macchina efficiente come l’esercito romano si fermava o quasi nel corso dell’inverno, a maggior ragione nelle zone più a nord, come la parte settentrionale della già nordica provincia di Britannia, per riprendere a pieno regime con il sopraggiungere della bella stagione). Il cavaliere era un messaggero, e probabilmente arrivava dal comando legionario di York (Eboracum), sede della IX legio Hispana da cui dipendevano i reparti ausiliari dislocati sulla frontiera. O forse proveniva addirittura da Londra (Londinium), dove risiedeva il governatore provinciale. Il messaggio che il cavaliere portava era destinato a sconvolgere la relativamente tranquilla vita di guarnigione della IX cohors Batavorum. Indirettamente, avrebbe provocato quel miracolo archeologico del quale abbiamo parlato. Il messaggero fu scortato dagli uomini di guardia lungo la via principalis fino all’incrocio con la via praetoria, dove sorgevano i principia, l’edificio, allora probabilmente ancora in legno, che ospitava il comando del reparto. In realtà il nostro messaggero non avrebbe avuto alcun bisogno di essere accompagnato. Le installazioni militari romane, che fossero i forti legionari, quelli ausiliari o i semplici campi di marcia, variavano per dimensione, adattandosi al tipo di unità che componeva la guarnigione, ma erano per il resto assolutamente identici nella struttura e nella configurazione, tanto che un soldato o un ufficiale si sarebbe trovato perfettamente a suo agio in un forte del limes renano, in uno della frontiera siriaca o a Vindolanda, nella Britannia settentrionale. Anche in questa omogeneità di costruzione risiedeva parte della grandezza di Roma e del suo esercito. Comunque il messaggero raggiunse i principia, fu ammesso al cospetto di Flavio Ceriale e gli consegnò il plico con gli ordini per i Batavi. Ovviamente non sappiamo come Flavio reagì alla lettura del messaggio; ma non ci pare improbabile che al praefectus sia sfuggita una smorfia, nonostante la rigida disciplina alla quale era abituato. Quegli ordini infatti avrebbero per sempre cambiato la sua vita, quella della sua famiglia, che viveva nel praetorium del forte, giusto dall’altra parte della via principalis, e quelle di tutti i suoi uomini: i Batavi, infatti, dovevano quanto prima lasciare Vindolanda, attraversare praticamente l’intero impero e unirsi all’esercito che Traiano stava radunando sul basso corso del Danubio per condurre la sua seconda campagna in Dacia. Flavio era in ogni caso un soldato, anzi un ufficiale romano, e sapeva obbedire agli ordini. Ci piace pensare che per prima cosa si sia recato dalla giovane moglie, Sulpicia Lepidina, per darle la notizia e fare in modo che iniziasse a preparare per il lungo viaggio la familia, i figli e gli schiavi domestici. Subito dopo deve aver riunito i centurioni, a cominciare dal suo primipilo (primus pilus), il centurione anziano al comando della prima centuria, di fatto il vicecomandante della coorte. Molto lavoro attendeva i soldati e gli ufficiali: si dovevano preparare le scorte di vettovaglie per il viaggio e c’era da imballare tutto quello che sarebbe stato necessario portare con sé: le armi, le tende, gli attrezzi per la costruzione dei campi di marcia, i signa (le sacre insegne della coorte) e non ultimo il denaro della cassa del reparto. C’erano anche cose che non sarebbe stato possibile portarsi dietro: certo una parte dei possedimenti dei soldati, beni accumulati nel corso degli anni e che avevano reso un poco più comoda la vita negli spartani contubernia che formavano gli accasermamenti della truppa. Il viaggio che li attendeva era lunghissimo. Svariate migliaia di chilometri separavano Vindolanda dal forte di Buridava, nell’attuale Romania, dove si è ritrovata una piastrella con l’iscrizione CIXB (coorte nona dei Batavi), allo stesso tempo conferma che il reparto giunse a destinazione e ultima menzione sopravvissuta della coorte. Un viaggio lunghissimo, dicevamo, e Flavio sapeva che i suoi uomini avrebbero dovuto marciare il più leggeri possibile. Sicuramente non si poteva portare nemmeno l’archivio della coorte. Un archivio che conteneva non solo il resoconto delle attività militari e amministrative dei Batavi nei loro quasi dodici anni di permanenza a Vindolanda e, in parte, della coorte dei Tungri che li aveva preceduti, ma anche un numero importante di lettere private, notazioni personali e comunicazioni informali lasciate dagli uomini e dalle donne che in quel periodo avevano vissuto nel forte; il tutto scritto, con inchiostri naturali o tramite incisioni su cera, sopra sottili tavolette di legno. Ceriale quindi ordinò che ci si disfacesse dell’ingombrante e ormai poco utile archivio. Le tavolette avrebbero potuto essere eliminate facilmente, avrebbero potuto ad esempio essere bruciate; ma i soldati sono sempre simili a sé stessi, e oggi come allora detestano distruggere le cose che per anni hanno accudito con attenzione. Per decisione di qualcuno, forse di uno dei centurioni o forse dell’actuarius, una sorta di capo furiere responsabile degli uffici amministrativi della coorte, il materiale fu gettato nel fossato che circondava il campo, per la precisione a sud-ovest della fortificazione, non lontano da una delle porte. Ed è qui che inizia il nostro miracolo archeologico. In realtà, vari fattori in qualche modo contribuirono al miracolo. Il forte era costruito in un’area gessosa: Vindolanda nella lingua celtica significa paese bianco, territorio bianco. Inoltre il terreno su cui sorgeva la struttura era in pendenza verso una stretta valle in cui scorreva un piccolo torrente, oggi chiamato Brackies Burn, per cui ogni volta che si metteva mano alla ristrutturazione o addirittura alla ricostruzione della fortezza i genieri romani tendevano ad ammassare i detriti verso la parte più bassa del pendio per diminuirne l’inclinazione. Questi due elementi hanno fatto sì che i vari strati si siano fortemente compattati quasi sigillando i reperti che contenevano. Quando gettarono il loro archivio nel fossato, subito prima di lasciare Vindolanda, i soldati coprirono il materiale con un deposito di terra gessosa, cosa che diede alle tavolette una prima protezione; e la fortuna ha voluto che all’arrivo della coorte dei Tungri, pochi mesi o poche settimane dopo la partenza dei Batavi, si decidesse di rivedere la struttura del forte (a differenza dei Batavi i Tungri formavano una coorte peditata, cioè di sola fanteria, meno numerosa e che non aveva bisogno delle stalle per i cavalli). I vecchi bastioni in terra battuta furono rimpiazzati da una struttura difensiva permanente in pietra, e proprio sul luogo dove erano stati sepolti i documenti venne gettata una massicciata, forse le fondamenta di una parte del sistema viario della fortezza. Così fin da subito si creò quello che gli archeologi definiscono un pozzo umido, cioè un ambiente nel quale è molto difficile la formazione e la crescita di batteri aerobi, che sono tra i principali responsabili del degrado dei materiali organici come il legno delle tavolette sepolte dagli ausiliari della IX cohors Batavorum. Furono queste le condizioni di base che consentirono il miracolo archeologico della conservazione delle tavole. Ora occorreva che qualcuno le ritrovasse, perché potessero essere preservate, lette e tradotte, e perché il loro contenuto giungesse alla conoscenza di noi moderni. Questo accadde alla fine dell’agosto del 1972.
VINDOLANDA, 1972-1973
Al termine della campagna di scavo di quell’anno, che si era concentrata sul forte di età severiana, posteriore a quello dei Batavi di più di un secolo, il direttore degli scavi Robin Birley decise di affrontare un problema che da sempre affliggeva le attività archeologiche sul sito del forte. La pendenza del terreno e l’impermeabilità degli strati gessosi, infatti, se contribuivano alla preservazione dei materiali organici (che nel corso degli scavi avevano da subito iniziato a emergere), portavano però a continui allagamenti delle trincee di scavo, con i conseguenti rallentamenti nel lavoro e gravi problemi nella conservazione dei reperti. Birley e i suoi collaboratori pensarono quindi di installare una tubazione di drenaggio al di fuori dell’angolo sudoccidentale del forte in pietra del III secolo. Era una zona in cui gli archeologi non pensavano di trovare resti importanti di edifici antichi: decisero di effettuare un profondo scavo rettilineo nel quale poi si sarebbe inserita la tubazione di scarico delle acque. Nel corso dello scavo ci si imbatté dapprima in uno strato di scorie metalliche, provenienti da una antica fonderia che era sorta nei pressi; poi, a meno di novanta centimetri dalla superficie, gli scavatori trovarono una massa di materiale organico nerastro. Messa in funzione una pompa che salvaguardava la trincea appena scavata dall’allagamento, gli archeologi individuarono anche pezzi di ceramica samia, la cosiddetta terra sigillata, di chiara origine gallo-romana. Fu l’insieme di questi ritrovamenti a far capire a Birley di aver scoperto qualcosa di importante, risalente alla prima fase della vita di Vindolanda, quella del forte in terra e legno del I secolo. Con l’avvicinarsi dell’autunno, notoriamente piovoso nelle campagne del Northumberland, Birley decise di rimandare alla primavera successiva ulteriori esplorazioni e fece richiudere la trincea per preservare gli strati contenenti il materiale individuato. Nel marzo del 1973, ripresi gli scavi nell’area, Birley comprese di aver trovato una delle fosse di scarico utilizzate dalle guarnigioni del primo periodo di attività del forte. Lentamente vennero alla luce, accanto ai fori su cui si innestava una struttura lignea (una delle porte della fortificazione di età traianea), molti altri oggetti di varia natura. L’archeologo iniziò a esaminare una gran massa di materiale: in gran parte tessuti e cuoiami mescolati con resti di paglia e schegge di materiale ligneo. Proprio una di queste schegge attirò l’attenzione di un assistente di Birley, che gliela passò perché la osservasse meglio. Ma lasciamo parlare lo stesso Birley: “Me ne restituì una, dicendo che gli sembrava che portasse degli strani segni. La guardai meglio, e all’improvviso mi parve di sognare: quei segni sembravano proprio parole e frasi scritte con un qualche tipo di inchiostro”. Birley si era imbattuto proprio nel luogo dove, prima di lasciare il forte, gli uomini di Ceriale avevano seppellito il loro archivio. L’importanza del ritrovamento fu subito chiara: le tavolette lignee, alla fine se ne contarono quasi trecento, furono inviate a Londra, al British Museum. Lì, con un lavoro destinato a durare anni, furono separate – molte erano diventate oramai un unico conglomerato -, stabilizzate, trattate per la conservazione e finalmente lette e decifrate. Erano i primi testi (altre tavole scritte sarebbero venute alla luce nel corso degli anni, le ultime nel 2013) di quell’eccezionale corpo di documenti che oggi va sotto il nome di tavolette di Vindolanda. Anche in altre aree del sito si sono potuti rinvenire oggetti deperibili, di legno o di cuoio, che di solito non sopravvivono al passare dei secoli. Tra questi reperti vi sono altre tavolette scritte, meno organiche di quelle dell’archivio dei Batavi, appartenenti anche a periodi successivi a quello dell’occupazione del forte da parte della IX coorte. Fra le altre cose, si sono ritrovate anche delle piccole scarpe da bambino. Per posizione e collocazione stratigrafica, potrebbero essere appartenute proprio a uno dei figli di Ceriale. In ogni caso, i documenti ritrovati formano una raccolta di testi davvero straordinaria, nella quale ai documenti amministrativi e agli ordini relativi alla vita militare del reparto si affiancano lettere personali, notazioni e appunti stesi dagli uomini della guarnigione (soldati, sottufficiali e ufficiali) e dalle loro donne, la cui presenza e il cui ruolo all’interno di un’installazione militare romana vengono così per la prima volta dimostrati con chiarezza. Questo libro si occuperà delle tavolette di Vindolanda. O meglio: si occuperà soprattutto delle persone che hanno scritto i testi presenti sulle tavolette di Vindolanda. Nella prima parte del volume cercheremo di offrire un’inquadratura generale: quali erano i rapporti tra la Britannia e il mondo classico, quello romano in particolare; in che modo Roma giunse a dominare l’isola; come e perché, alla fine, si arrivò a stabilire una frontiera proprio sulla linea che oggi va da Carlisle a Newcastle. Nell’ultima parte del libro ci occuperemo della storia di Vindolanda dalla partenza della IX coorte dei Batavi, che lasciò l’isola per seguire il proprio destino (del quale del resto non sappiamo praticamente nulla) e per svolgere il proprio dovere agli ordini dell’impero, fino praticamente alla fine del dominio romano sulla Britannia; racconteremo anche delle numerose modificazioni strutturali e funzionali che il sito subì nel corso della sua storia, durata più di tre secoli; infine, scorreremo le vicende della riscoperta di Vindolanda. Ma la parte più importante, il cuore del libro, sarà quella centrale, in cui, partendo dalle loro stesse parole, arrivateci fortunosamente attraverso le tavolette di legno, cercheremo di raccontare come questi uomini e donne del tardo I secolo d.C. vivevano, lavoravano e talvolta combattevano in un remoto avamposto della frontiera romana. Vedremo anche come era strutturato, a quei tempi, un forte romano come quello di Vindolanda, e proveremo a ricostruire chi fossero, come venissero reclutati, che funzione militare svolgessero gli uomini delle coorti ausiliarie, in particolare i Batavi della nona, e quale fosse il loro rango nel quadro della macchina militare romana. Cercheremo infine di capire quali fossero i loro rapporti personali, come fossero organizzati, a quali regole obbedissero e quali opinioni avessero del luogo dove vivevano e delle popolazioni locali che li circondavano. A tutti loro è dedicato questo libro».
Si ritiene che quanto detto nell’introduzione dall’autore abbia spiegato a sufficienza scopi e finalità dell’opera presa in esame. Di grande utilità sono la bibliografia essenziale, l’indice dei nomi, dei luoghi, dei popoli e l’appendice. Un libro meritevole di notevole attenzione che si consiglia di leggere e regalare a coloro che sono interessati alla storia romana ed in particolare a quella militare.
[1] Praefectus della coorte batava.
[2] Aquilifer (porta aquila) di una legione, la II Augusta.
Titolo: Sul confine dell’Impero. Imprese militari e vita quotidiana dei soldati di Roma
Autore: Sandro Matteoni
Editore: Giunti Editore
Pagg. 320