Il farmacista parte seconda

Il farmacista – parte seconda


Eccoci giunti alla seconda parte della storia a puntate narrata da Cecilio Stazio.

LEGGI LA PRIMA PARTE

Il suo naso leggermente adunco mi parlava di una sapienza d’oltreconfine, qabbalistica, mentre il suo portamento era il sogno di tutti gli svizzeri. Proprio per il valore dell’uomo, che già intuivo con buona approssimazione, volli assestargli un doppio colpo, così, in rapida successione, per saggiare la sua resistenza, ed ordinai cupo dell’acido alfa-lipoico e la fialetta del dottor Knapp.

I miei colpi, come speravo, andarono a vuoto: come nulla fosse, il dottore prelevò dal retro un flaconcino di acido alfa-lipoico, un ottimo disintossicante, disse, anche a livello cerebrale in quanto bypassa la barriera ematoencefalica, aggiunsi io senza ottenere un cenno di complicità. Tuttavia, mi informò, non disponeva della fialetta del dottor Knapp, e ci credo, era un farmaco già vecchio durante la mia infanzia, trattandosi di un preparato da inserire tramite una cannula sulla carie dolorante. Un odontalgico topico, insomma, ormai largamente superato da una serqua di antinfiammatori, anche molto potenti, come l’insuperato Synflex forte, ormai 550, ma una volta 1000: un grammaccio di naprossene sodico, che se ne prendevi tre o quattro con un paio di birrette, e magari qualche ansiolitico in sopramercato, vedevi i folletti, verdi e maledetti.

Tra l’altro, la fialetta del dottor Knapp mi riporta alla mente un episodio delizioso della mia infanzia. Vinsi ad un gioco al luna park un criceto. Si trattava di lanciare palline dentro aperture rotonde praticate nelle gabbiette in cui riposavano criceti. Grazie alla mia elevata propriocezione, e ad una finissima capacità di concentrazione, mi portai a casa l’animaletto al primo lancio, lo fornii di una bella gabbia con ruota e vidi che la gradiva moltissimo: passava lunga parte del suo tempo a correre forsennatamente dentro la ruota, ed io lo osservavo. Dopo un po’ mi stancai di osservarlo e capii che con quell’animale non era possibile alcuna forma di rapporto: era pienamente soddisfatto della sua ruota e questo mi metteva a disagio. Poi il disagio si trasformò in irritazione, e l’irritazione divenne presto rabbia.
Ma come, mi dicevo, hai la possibilità di un contatto con una forma di vita infinitamente superiore alla tua e non ne approfitti? Non tutti gli animaletti sono così: non so se costoro abbiano un carattere nel senso umano, tecnico del termine, tuttavia hanno predisposizioni diverse nei confronti dell’umano. Lo so per esperienza, ora, ma allora non avvertivo altro oltre la frustrazione. Non mi sentivo accettato, e per giunta da uno stupido batuffolo di pochi grammi. Decisi di operarlo, per vedere se infine avrebbe messo la testa a partito. Per prima cosa, mi munii della fialetta del dottor Knapp che, come dovreste sapere, ha come applicatore una cannula di due o tre centimetri, molto sottile. Mi infilai dei robusti guanti da giardino, i criceti mordono! Lo presi e non senza difficoltà riuscii a fargli ingerire qualche goccia di fialetta, a modo d’anestesia. Poco dopo il criceto perse i sensi e se ne stette immobile a pancia in su, pur repirando ancora. In questo modo mi facilitò l’amputazione di entrambe le zampette posteriori, i cui moncherini cauterizzai con un accendino. Quest’ultima operazione riscosse il criceto che cominciò ad agitarsi. Lo riposi dunque nel suo lettino, assicurato di cibo ed acqua e per qualche giorno gli resi visita
qualche secondo al giorno, giusto per assicurarmi che fosse ancora in vita. Se ne stava nel suo giaciglio ma, evidentemente, in mia assenza mangiava e beveva.

Non vi dico la delusione, dopo qualche settimana, nel vederlo zampettare, invero molto più lentamente, sulla sua maledetta ruota! Era necessaria un’altra operazione. Usai lo stesso sistema ed amputai le rimanenti zampette. Allora sì che la creatura non poté più usare la ruota, e nemmeno nutrirsi e bere con autonomia. Gli davo da mangiare mettendolo dentro la mangiatoia e lo vedevo sgranocchiare, poi con una siringa ipodermica senza ago gli schizzavo in gola un po’ acqua, due volte al giorno.
Per il resto, lo tenevo in mano, lo carezzavo ma, nonostante la mia pazienza, il criceto non dava segni di affetto o considerazione. Dopo qualche settimana capii che occuparmi in maniera così infermieristica di lui era superiore alle mie forze, ed inoltre il mio intendimento non era apprezzato. Non ricavavo nulla da quell’essere, così presi un martello e lo schiacciai.

“Se desidera la fialetta del dottor Knapp posso vedere se in magazzino sono rimaste delle giacenze, ma si tratta di aspettare un paio di giorni, il dente le duole molto?”
“Moltissimo, non ci dormo la notte.”
“Forse dovrebbe andare da un dentista, ce n’è giusto uno qua vicino.”
“Mi duole dirlo, signore, ma non posso permettermelo questo mese.”
“Allora potremmo provare con un antinfiammatorio.”
“Non prendo antinfiammatori sistemici, ho l’ulcera e non me li posso permettere.”
” Certo, ma in questo caso c’è la clinica odontoiatrica passata dal servizio sanitario: almeno le tolgono il dolore.”
“Sì, mi tolgono il dolore ma poi per la ricostruzione dovrò aspettare chissà quanti mesi, non ho lavoro, ed intanto il dente si spezzerà.”
“Allora potremmo fare così: passi fra due giorni, che farò tutto il possibile per procurarle la fialetta, ma nel frattempo, mi ascolti, metta un chiodo di garofano sul dente, non mi chieda perché funziona ma funziona, sperimentato personalmente.”
“Grazie dottore, ripasserò tra due giorni.”
“S’immagini. Eh, il dolore ai denti è una cosa per eroi…”
“La saluto.”

Come fuori dalla farmacia, ringraziai Iddio per la grazia accordatami: il migliore farmacista che avessi mai incontrato, e tutto così in fretta, e tutto grazie a quella befana. Ebbi anche un pensierucolo per quella donna: del resto, già solo per il fatto di avermi permesso di incontrare così rapidamente il mio farmacista, ella aveva dunque un senso a questo mondo. Ma giudicai futile questa considerazione e mi diressi di buon passo verso casa, buttando l’acido alfa lipoico appena acquistato nel primo cestino. Oh no, non verso casa: mi ero ripromesso di visitare quella libreria quasi di fronte la farmacia, e nonostante l’esaltazione quasi stancante che mi aveva procurato l’incontro col mio nuovo farmacista, decisi di recarmici, e di acquistare un libro, magari di psicologia, con cui prendere sonno.

Ero stato attratto dalla libreria in questione poiché si chiamava con un termine boemo che dà il titolo ad un brevissimo ed inquietante racconto di Franz Kafka. Come entrai, una donna dagli occhioni spalancati, – non è innocenza, sono psicofarmaci – mi accolse con un sorriso fitto, quasi come lo si riserva ad un
amico di vecchia data, mentre una voce dall’alto mi apostrofava con un gaio: “Salve, benvenuto”. La voce
apparteneva ad un uomo seduto ad uno scrittoio ricavato da un soppalco. Salutai entrambi con cortesia e mi cominciai ad ispezionare gli scaffali, pensando che d’acchito costoro mi ricordavano Dario Fo e Franca Rame, non nei corpi, affatto diversi e neppure nell’abbigliamento ma per la stolida fiducia che il tono di voce sonante dell’uomo, e la ostentata disponibilità, chimicamente indotta, della donna, riponevano nel raziocinio e bontà del sentimento umano. Intuii immediatamente un ché di esibito in tutto ciò, sicuro indizio di ben altre verità interiori.

La donna mi seguì, incuriosita dal cappello d’Astrakan che indossavo e mi chiese se fossi nuovo del
quartiere. Di fronte alla mia affermazione sembrò rallegrarsi e mi chiese come mi trovassi. Bene, risposi, ed afferrai un libro che avevo sempre desiderato leggere: “Le nozze chimiche” di Kristian Rosenkreutz, mentre ella mi porse una tavola su cui erano incollati pezzi di tessuto di varia foggia e colore, chiedendo il mio parere. “Quadri materici, io mi esprimo così”, disse. “Bello, molto interessante”, risposi laddove mi sarebbe interessato davvero se avessi avuto in casa un caminetto.

Ciò bastò a far partire un monologo di cui ricordo a malapena gli argomenti: Hugo Pratt, un altro che non ricordo, un altro suo pezzo di legno rivestito di stoffa, fin quando la voce da sopra scese sotto e l’uomo si manifestò nella sua interezza: “Se permette vorrei consigliarle questo libro, si tratta di un filosofo internato nel campo di Mauthausen, di cui io ho curato l’edizione…” e qui la mia attenzione finì poiché stavo osservando con curiosità la testa di quest’uomo, che sicuramente al suo stadio d’evoluzione animale doveva essere stato un pipistrello. Aveva la fronte insolitamente pronunciata, sotto cui s’agitavano due occhietti mobili le cui arcate sopraciliari pareva sopportassero a fatica l’incombere della fronte. La bocca era esangue e priva di tono, viceversa la voce era baritonale.

Insomma, finì che la moglie lo informò che ero un nuovo arrivato nella zona, e con cortesia perfetta m’invitò l’indomani ad un happening a casa sua, in cui si sarebbero mostrati nuovi pezzi di stoffa della moglie, con accompagnamento di una suite per violoncello di Bach eseguita da una qualche nipote. Accettai volentieri, per stemperare l’attenzione verso il farmacista, che stava fermentando entro il mio stomaco e minacciava di darmi alla testa anzitempo. Sembrò lievemente turbato, l’ex professore universitario, seppi poi, dal fatto che avevo rifiutato il suo consiglio su quel tal filosofo. Ma cosa volete che me ne freghi dell’opinione degli uomini, mi bastano già le mie, che spesso mi traggono in inganno. Peggio sarebbe farsi trarre in inganno da altrui, e per giunta pagando.

Salutai cordialmente e questa volta per davvero tornai a casa dove, dopo un frugale pasto, presi sonno grazie ad una dose di En doppia del consueto. Dormii fino a tardi, sognando il farmacista che si radeva sul palco della Scala, seguito da applausi battenti come l’entusiasta pioggia di certi temporali estivi. Nel pomeriggio passai in pasticceria e comprai un abbondante vassoio di paste assortite, e verso l’ora dell’aperitivo mi presentai all’indirizzo dei due librai, che mi accolsero affabilmente. Mi condussero in una taverna, dai soffitti in cotto a botte, in cui erano state posizionate quattro file di sedie di legno, e torno torno i muri, appesi ad una catenella d’argento, c’erano i portenti materici partoriti dalla compagna.

Non ero il primo ad arrivare, consegnai le paste alla moglie, presi un bicchiere di orzata ed accennai un sorriso ai tre ospiti, uno sprofondato in una poltrona laterale, l’altra che s’imponeva una saputa via crucis tra le stoffe incollate, ed una signora in piedi in mezzo alla sala che mi venne incontro e mi salutò con gentilezza. Una bella signora, per l’età, curata nel volto e nell’abbigliamento, non chiassoso ma elegante, di buon portamento e sicuramente sportiva. In fondo alla taverna, poggiato su una spalla del caminetto spento, un bel violoncello.

Sì, non è male il violoncello, ma io preferisco il rebab. Non sapete cosa sia? Informatevi e soprattutto ascoltatene il suono. E’ uno strumento a corda che attraversa tutta l’Asia, con piccole modificazioni. Una volta che con pazienza ne avrete sentito il suono, esso vi catturerà e non potrete più ascoltare altri strumenti a corda, vi darebbero l’impressione di suoni morti, puramente decorativi, come certe stampe e no, non certo come le pezze qui appese che una specie di maleficio moderno sdogana come arte. Non si tratta d’arte, ma di strumenti di diagnosi. Un fine psicologo può trarre parecchie informazioni osservando quegli stracci incollati a un quadrato di compensato.

Il libraio aveva una parola per ognuno e gli invitati, invero eterogenei, si presentavano, sostavano presso di lui che snocciolava questo o quel motteggio, questa o quella battuta, col fine umorismo inglese tipico di chi soffre di stipsi. Arrivò poi la musicista, che mi venne presentata con non so più quale nome esotico. Una bella ragazza, vestita da zingara, con ampia gonnellona di velluto color vinaccia fino alle caviglie e una cascata di capelli nero corvino, riccioli, sani, che parevano aver vita propria.

E così me ne stavo all’impiedi senza un compagno di conversazione: del filosofo libraio temevo la facondia, della moglie l’insensatezza, di colei che prima mi si presentò la banalità. Pensai per un istante di conversare, pregando che il concerto iniziasse presto, con l’uomo sprofondato nel loden verde, sprofondato nella poltrona, ma notai che reggeva un bicchiere da cucina pieno di rum, che mi dava conto dello sguardo liquido, dei lineamenti tendenti al pavimento, e financo di un berretto di tartan ostinatamente calcato fino a mezza fronte. Pareva che nessuno si prendesse cura di lui, benché distribuisse ammiccamenti qua e là.

Gironzolai attorno a qualche pezza appesa, così a caso, tanto per occupare lo sguardo quando, di passaggio, udii alcune spiegazioni che la padrona di casa dava ad un ospite circa il significato delle proprie opere. Non vi riferirò quanto udii, da un canto per una forma di pudore, dall’altro per la presunzione d’esser certo che non possa in alcun modo importarvi, ma anche per un meccanismo della mia mente che, di fronte a fenomeni sgraditi, innesca una sorta di difesa che consiste nel canticchiare mentalmente una canzoncina, o un particolare verso di una qualche canzoncina che la mia memoria seleziona al momento e ripete a lungo: in questo caso fu la salmodia di :”Chi siamo noi, e dove andiamo noi? …A mezzanotte in pieno centro… ad Alessandria!”

Con questo conforto m’aggirai ancora un po’ e come un meteorite di poca consistenza fui captato dall’orbita lunare del pipistrello filosofo di cui feci in tempo ad udire il monito: “Non si confonda il funzionalismo strutturale di Luhmann con lo strutturalismo funzionale di Parsons”. E con questo, come sbriciolato da una bomba atomica, come si vede in un certo film americano, venni respinto da quell’arma impropria e decisi, addentata una patatina o due dal vassoio, di mettermi infine a sedere, tanto più che la bella ragazza musicista stava accordando lo strumento. Mi imitarono presto tutti, tranne l’uomo affogato in poltrona, che intuii dovesse per qualche ragione, forse osteologica, vista la stazza, godere di qualche privilegio.

Il concerto fu introdotto non brevemente dal padrone di casa, mentre la mia mente canticchiava: “Un’estate al maree, stile balnearee…” Cominciò la musica ed io chiusi gli occhi, finalmente solo, e sull’onda delle note cominciai a riflettere in quale lingua “Farmacista” suonasse meglio. Vagliai “The chemist” ma il significante inglese non mi soddisfece per un’assonanza troppo stretta con la parola “chimica” che, come ormai sapete, non è che una, e non la più importante delle qualità di un farmacista. No, troppo riduttivo in inglese. Pensai al francese “Pharmacien” e considerai l’eleganza della parola, tuttavia con un finale un po’ liquido, incerto. Il tedesco “Apotheker” mi affascinò per la sua fonetica stabile, le accentazioni equilibrate, e mi piacque di gigioneggiare pensando all’assonanza con “apoteosi”, e già l’immaginazione correva al mio farmacista vestito da Parzifal. Tempo fa, per impiegare proficuamente una pausa dalle mie riflessioni, cercai con google la traduzione di “farmacista” nelle varie lingue: in lingua basca si traduce “Botikari”, inaccettabile perché squalificante, ricorda troppo la parola “bottegaio”. In finlandese “Apteekkiin”, che la mia mente rilegge come “Attacchino”, in maltese “Ispizjar” che m’infastidisce poiché mi viene in mente “speziale”. Mi soddisfa il polacco “Farmaceuta” ed oggi, con l’ausilio della musica, vi dico solennemente che d’ora in poi userò la parola farmaceuta in luogo di farmacista.

CONTINUA NELLA TERZA PARTE

 

 


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