Piero Bevilacqua è docente di Storia contemporanea all’Università di Roma La Sapienza. Nel 1986 ha fondato, insieme ad alcuni studiosi, l’Istituto meridionale di storia e scienze sociali (Imes), del quale è a tutt’oggi presidente. Ha pubblicato numerosi testi, tra i quali è opportuno menzionare Breve storia dell’Italia meridionale (Donzelli, 1993), Miseria dello sviluppo (Laterza, 2008), Il grande saccheggio. L’età del capitalismo distruttivo (Laterza, 2011).
Di particolare importanza per una piena comprensione del volume A che serve la Storia? I saperi umanistici alla prova della modernità (dato alle stampe nel mese di marzo del 2011) è l’introduzione dell’autore dal titolo I saperi nell’età globale. Nella stessa Piero Bevilacqua afferma che: «I saggi che compongono il presente volume costituiscono la rielaborazione, più o meno ampia, delle relazioni che i diversi autori hanno tenuto al convegno internazionale, svoltosi alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma La Sapienza il 24 e 25 novembre del 2009. Il titolo di quell’incontro era fortemente programmatico, e anzi conteneva un’aperta sfida intellettuale: A che serve la storia? I saperi umanistici e le sapienze tramandate alla prova della modernità[1]. Sfida, perché l’ispirazione che era alla base della sua ideazione nasceva innanzi tutto da un’esplicita volontà di rivolta culturale, di attacco deliberato alle strutture ufficiali del sapere, di messa in discussione delle idee dominanti della nostra epoca, diventate ormai istituzioni, pratiche di dominio, soffocante senso comune.
Il primo e immediato impulso a una riflessione critica e pluridisciplinare sulle gerarchie oggi dominanti nell’ordine dei saperi proviene, infatti, dalla constatazione dell’emarginazione sempre più evidente e deliberata che le discipline umanistiche subiscono nelle società del nostro tempo. Non solo esse vengono ormai apertamente private di valore e di significato sociale, a favore dei saperi tecnico-scientifici, portatori di un’ovvia e immediata utilità economica. Ma a queste discipline, per la loro stessa sopravvivenza, per la conservazione di un diritto, sia pur limitato, di cittadinanza nelle istituzioni formative e nella più generale sfera pubblica, viene chiesto di esibire la loro utilità strumentale di ultima istanza. Devono certificare, con solide prove, a che cosa, alla fin fine, servono nella presente società della produzione e del consumo. Nell’ultimo ventennio, e con un’accelerazione evidente, in Europa, negli anni della costituzione dell’Unione europea, l’ideologia della sempre più stretta funzionalità e subordinazione dei saperi alle necessità della macchina economica ha conosciuto un vero e proprio scatenamento. Le riforme introdotte nelle università dei diversi Stati del Vecchio continente, i programmi e i dibattiti che le hanno accompagnate e seguite, a partire dalla Dichiarazione di Bologna (1998), hanno segnato una stagione senza precedenti di esaltazione della funzione deliberatamente strumentale della formazione e della cultura. L’umana conoscenza, la riflessione intellettuale, la ricerca disinteressata, ogni forma di attività culturale doveva disporsi in funzione del supremo fine di rendere competitiva l’economia europea nel grande agone globale. In questa visione quasi bellica della strategia economica dell’Unione – ma che in realtà esprime un passaggio epocale del capitalismo, impegnato a piegare ogni elemento della realtà, dalla natura alla mente umana, ai meccanismi del suo processo di accumulazione – i saperi umanistici, la letteratura, la filosofia, l’arte, la storia, il vasto ambito di ricerca spirituale che riflette disinteressatamente sull’umana condizione è stato esiliato nella soffitta dell’irrilevanza, chiamato a compiti marginali e ancillari. E di questa stagione danno brevemente conto, nel presente testo, Piero Bevilacqua e Laura Marchetti.
Ma la reazione a una stagione di furore ideologico, che certo è sempre viva, operante e dominante, è stata solo l’occasione per una più generale riflessione sulla condizione dei saperi nel nostro tempo. Non c’è dubbio, infatti, che le culture oggi prevalenti, le forme del sapere, l’organizzazione disciplinare delle università e delle strutture formative in genere, appaiono tutte piegate a una logica di specializzazione e segmentazione sempre più spinta. L’intima volontà di dominio che caratterizza il sapere della nostra epoca, orientato alla manipolazione tecnica della natura, lo porta a frammentare il reale in segmenti chiusi e separati. E, come ricorda Franco Cassano, “tutto deve diventare fattibile”, ciò che è nel potere dell’uomo deve realizzarsi, proseguire a ogni costo verso l’illimitato. L’abolizione del limite è il suo cieco imperativo, il suo stesso fine. Ma esso esprime una conoscenza sempre più approfondita ed esatta, che si viene a esercitare su ambiti delimitati, distaccati dai loro contesti più generali e che perde sempre più di vista il sistema delle connessioni che tiene unita la realtà in reti complesse. Mentre le scienze ecologiche vanno scoprendo le trame di interconnessione che reggono i sistemi della vita sulla terra, la tecnoscienza oggi all’opera si chiude in recinti sempre più specialistici, destinati a sicuro successo particolare, tecnico e manipolativo, ma votati al fallimento generale di fronte alla complessa sistemica del mondo.
E drammatiche verifiche di questa incapacità di sguardo globale delle scienze dominanti noi le abbiamo potute effettuare, nitide e inoppugnabili, negli ultimi decenni. Con la scoperta del buco dell’ozono, ad esempio, noi abbiamo avuto la prova di come a un indubbio successo tecnico-scientifico, la costruzione dei gas clorofluorocarburi, ha corrisposto un danno generale imprevisto e di proporzioni potenzialmente catastrofiche per la vita sulla terra. I gas funzionavano a meraviglia in una molteplicità di applicazioni industriali, ma la distruzione dell’ozono negli strati alti dell’atmosfera, che essi provocano, stava esponendo i viventi che popolano la terra alla violenza distruttiva dei raggi ultravioletti. La scienza che aveva permesso la costruzione dei gas non sapeva nulla delle regole complesse che governano l’atmosfera del pianeta. E analoga verifica oggi possiamo effettuarla con il riscaldamento globale in corso. Le nostre società, impegnate, con il loro immenso apparato di tecnoscienze specializzate, a utilizzare tutti i mezzi per accrescere produzione e consumi, non sono state in grado di accorgersi che le loro disparate e innumerevoli attività si svolgevano tutte all’interno di un sistema complesso, il clima, che poteva essere gravemente alterato e compromesso. L’attuale cecità globale delle tecnoscienze appare oggi doppiamente paradossale. Per un verso essa si mostra sempre più inadeguata rispetto al progredire stesso delle conoscenze scientifiche. Infatti, non sono solo i saperi ecologici a mostrare la parzialità degli approcci riduzionistici delle discipline dominanti. Per illustrare tale aspetto, alcuni autori dei testi qui presentati si avvalgono significativamente dei risultati di studi fondamentali, come il grande corpus della ricerca di Edgar Morin, la ricostruzione storica di Fritjof Capra e altri autori e studi che hanno messo in luce l’esaurimento del paradigma delle scienze classiche dominanti sin dall’età moderna. Ma alcuni contributi mostrano come anche dall’interno delle discipline tradizionali avanzano spinte al dialogo fra i saperi, ricerche delle interconnessioni, sforzi volti al superamento degli antichi recinti specialistici per affrontare l’esplorazione di un mondo che appare sempre più profondamente interrelato. Le conquiste della genetica, ad esempio, la straordinaria scoperta che la materia vivente – come ricorda Mario Alcaro nel suo saggio – possiede e si evolve secondo informazioni, dischiude un mondo ignoto ai nostri occhi, e chiude per sempre un’intera epoca del pensiero scientifico che aveva nettamente separato oggetto e soggetto, uomo e natura, materia e conoscenza. L’altro paradosso non è oggi meno evidente e meno significativo. Mentre il mondo, con velocità crescente, tende a unificarsi sotto il profilo economico e culturale, imponendo, sia agli ambiti della ricerca che agli uomini di governo, visioni all’altezza della nuova dimensione mondiale dei problemi, la scienza ufficiale e gli stessi saperi ufficiali rimangono chiusi nei loro specialismi. Essi appaiono impegnati a governare frammenti separati di realtà per renderli funzionali al fine unico che oggi sembra dominare le attività umane: lo sviluppo. Tra questi le scienze economiche, divenute ormai tecnologie della crescita, costituiscono la manifestazione più esemplare di un sapere che il capitalismo ha interamente assoggettato ai suoi famelici appetiti di breve periodo, rendendolo incapace di visione sistemica e globale. Queste scienze hanno oggi i loro sacri ed esclusivi templi, le business schools, vere e proprie scuole della guerra economica, come le definisce Latouche, dove tra l’altro si insegna che l’avidità è una buona cosa e s’iniziano i giovani alla banalità del male. Ma non è solo la morale bellica la grande falla in cui esse sono cadute. La crisi economica e finanziaria esplosa nel 2008 e tuttora in corso mostra esemplarmente come – a dispetto dei sofisticatissimi sistemi di calcolo e di previsione di cui dispongono gli economisti – essa, risultato di complesse interconnessioni economiche, sociali, finanziarie, politiche ecc. non sia stata prevista, né tanto meno neutralizzata da alcuna istituzione, potendosi manifestare liberamente come una vera e propria tempesta. Di fronte a tali scenari, tanto le scienze sociali, non asservite ai bisogni strumentali del capitale, che i saperi umanistici in senso stretto mostrano oggi ben altra condizione di quella che la propaganda dominante vorrebbe mostrare. Essi non costituiscono affatto le sbandate retrovie di discipline residuali, sempre meno servibili. Al contrario, si pongono oggi come l’avanguardia di una nuova cultura delle connessioni, che sfugge all’asservimento strumentale della tecnoscienza, e invita al dialogo tra le discipline come strumento per affrontare l’esplorazione, libera da ossessioni economicistiche, del mondo interconnesso che abbiamo di fronte. Nel volume che qui si presenta, tale ambizione, lo sforzo di uscire dalla frammentazione disciplinare e di mettere a disposizione gli stessi saperi specialistici per un progetto di lettura non strumentale, si manifesta apertamente nei contributi che riguardano l’urbanistica (Edoardo Salzano), la filosofia (Mario Alcaro), la letteratura (Raffaele Perrelli), la politica (Giuseppe Cantarano), oltre che ovviamente nelle riflessioni più libere di Pietro Barcellona, Piero Bevilacqua, Franco Cassano, Serge Latouche e di Vandana Shiva. Ma questo insieme di analisi e di riflessioni, tutt’altro che allineato su un fronte di disperata resistenza, è oggi all’attacco del grande edificio dei saperi tecnici e scientifici che hanno plasmato le società occidentali e le loro colonie in età contemporanea.
È questa nuova frontiera olistica della scienza che chiede conto, a chi ha orchestrato il dominio sino a oggi, dei risultati fallimentari che abbiamo sotto gli occhi. Com’è stato possibile che le scienze e le tecniche che hanno guidato lo sviluppo economico, che hanno cancellato il ruolo della natura nel processo di produzione della ricchezza, abbiano portato il pianeta in cui viviamo sull’orlo del collasso? Com’è stato possibile che l’economia, le scienze sociali, tutte le solerti ancelle impegnate a esortare e a cantare le lodi dello sviluppo non si siano accorte che esso divorava le relazioni tra gli individui, decretava il “trionfo dell’individualismo solitario” (Cantarano), dissolveva dunque la società? Questa nuova frontiera, tuttavia, non pone solo domande, non mette solo in stato di accusa i dominatori, ma avanza le sue proposte, muovendosi tra l’altro all’interno di alcune tendenze profonde che attraversano non poche discipline scientifiche nel nostro tempo. I saperi della complessità oggi non solo propugnano e praticano il dialogo fra le diverse aree disciplinari, ma invitano a interrogare e interrogano i saperi tradizionali: ad esempio i saperi millenari che i contadini del Sud del mondo ancora si tramandano, e in cui si conservano conoscenze della natura e pratiche sapienti che la scienza attuale può potenziare. Saperi di cui oggi – come ci ricorda Vandana Shiva – le scienze occidentali si vanno appropriando con brevetti monopolistici. Ma non c’è dubbio che uno dei compiti fondamentali che le culture umanistiche hanno oggi di fronte è quello di risvegliare l’umanità dal sonno dogmatico dell’economicismo in cui essa è sprofondata. Esse devono redistribuire alle donne e agli uomini del nostro tempo le carte dei molteplici fini della vita che le tendenze del capitalismo contemporaneo hanno ridotto all’unica dimensionalità dell’arricchimento individuale. Occorre che il regno dell’utile torni a occupare l’ambito delimitato che gli spetta, cessando di dominare l’intera scena sociale e culturale, di porsi come l’unico mondo possibile, di schiacciare l’umanità sotto vincoli di necessità artificiali e fasulle. Le società odierne grondano opulenza, oltre a godere di un parco senza precedenti di mezzi tecnici. Le classi dirigenti dovrebbero ubbidire a un solo imperativo: redistribuire equamente tanta ricchezza e indirizzare le tecnologie al perseguimento del benessere collettivo, alla cura e protezione degli equilibri ambientali. Questo devono rammentare i saperi liberi del nostro tempo e farsi portatori di una cultura che torni a guardare alla stella polare della giustizia sociale, della solidarietà fra i popoli e fra gli uomini, del dialogo tra le culture, di un rapporto nuovo di cura e rispetto per tutto il mondo vivente di cui costituiamo una parte, diventata ormai distruttivamente dominante. Appare davvero necessario rivendicare oggi un nuovo umanesimo, “un umanesimo che – come scrive Laura Marchetti – sancendo il primato dell’etica sull’economia, deve rivendicare, fra i diritti umani, una sorta di nuovo diritto: un diritto alla infunzionalità, diritto nuovo e nello stesso tempo antichissimo che mira a conservare il valore intrinseco, il valore in sé della vita, della cultura, dell’umano”. Occorre dare cittadinanza ai saperi altri, come scrive Pietro Barcellona. Le forme di conoscenza dei sentimenti, dell’inconscio, della memoria, del desiderio, in una parola dello spettro ricco e multiforme dell’umana spiritualità oggi mortificato dall’economicismo individualistico dominante».
Si ritiene che quanto detto nell’introduzione dall’autore abbia spiegato a sufficienza scopi e finalità dell’opera presa in esame. Di grande utilità risulta l’indice dei nomi. Un libro meritevole di notevole attenzione che si consiglia di leggere e regalare a coloro che sono interessati a comprendere quale possa essere il ruolo e la funzione della Storia, e più in generale delle discipline umanistiche, nel mondo contemporaneo.
[1] Il convegno è stato organizzato dal Dipartimento di Storia moderna e contemporanea dell’Università di Roma La Sapienza, dalla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università della Calabria e da AMIGI, Associazione di storia e scienze sociali. Debbo un ringraziamento particolare all’amico Giuseppe Cantarano, per l’aiuto prezioso fornitomi nell’organizzazione del convegno, all’amico e collega Francesco Pitocco e a Elisabetta Mariotti e Manuela Militi per l’intelligente supporto nella sua realizzazione.
Titolo: A che serve la Storia? I saperi umanistici alla prova della modernità
Autore: Piero Bevilacqua
Editore: Donzelli Editore
Pagg. 176