Ci fu un’epoca in cui il globo terrestre era diviso a metà, come una mela tagliata dall’alto in basso. La spartizione era stata fatta con il Trattato di Tordesillas (7 giugno 1494). Papa Alessandro VI aveva tracciato la raya, una linea immaginaria che dalle isole di Capo Verde faceva il giro del globo fino agli antipodi, benché nessun europeo vi avesse ancora messo piede.
Tutte le terre scoperte e incognite a ovest della raya furono assegnate al re di Spagna, mentre al re del Portogallo andarono quelle in oriente. Agli altri paesi europei fu negato l’accesso alle nuove terre lasciando loro, come unica opzione di fatto, la pirateria.
Le aree d’influenza delle due superpotenze navali di quell’epoca erano conosciute come Indie Occidentali (cioè le Americhe) e Indie Orientali. Mentre la colonizzazione delle prime da parte della Spagna è ben documentata, le fonti storiche sull’impero coloniale portoghese sono piuttosto scarse: la maggior parte dei documenti andò distrutta nel rovinoso terremoto di Lisbona (1755).
La testimonianza più vivida sull’impero dei Portingales, come li chiama lui, è quella di una spia olandese, Jan Huyghen van Linschoten. Veramente all’inizio non è una spia, ma soltanto un ragazzo curioso.
“Non c’è tempo peggio sprecato di quello che un giovane trascorre vagando per la cucina di sua madre come un bambino, senza sapere cosa siano la povertà né il lusso, né cosa viene scoperto al mondo”
scriverà in seguito ai genitori, dopo che la sua sete di avventure l’avrà spinto a lasciare il paese natale per andare in Spagna, Portogallo e da lì sempre più lontano sugli oceani.
Jan ha vent’anni quando una flotta di cinque navi salpa da Lisbona, l’8 aprile 1583. Grazie alla raccomandazione di suo fratello è entrato al servizio di Dom Vincente de Fonseca, neo nominato arcivescovo di Goa. L’arcivescovo e i due fratelli viaggiano sulla stessa nave, la San Salvador.
Il giovane Jan tiene gli occhi ben aperti. Dalla sua relazione apprendiamo che le navi hanno una stazza di 1500 tonnellate, il doppio di una normale nave olandese, e imbarcano da 400 a 500 uomini. Alla partenza si viaggia leggeri: oltre ai viveri e alle riserve d’acqua viene stivata solo una certa quantità di vino e d’olio.
“La merce principale che è mandata in India sono i reali da otto, perché laggiù si può comprare il pepe unicamente pagandolo con denaro.”
Appena usciti dal fiume e spiegate le vele sull’oceano, il tesoriere della nave assegna le suertes: la quota di partecipazione di coloro che si trovano a bordo, fino ai soldati e all’ultimo marinaio. Questi investono nelle suertes le loro paghe future, mentre i mercanti versano denaro. Il tesoriere assicura un profitto minimo del 40%. Sempre che la nave torni in patria sana e salva, con l’aiuto di Dio.
La cosa non è scontata, per niente. Fatto scalo a Madera, ciascuna nave affronta il periplo dell’Africa come può. Il 24 aprile la San Salvador avvista la costa della Guinea: Jan ne annota con cura latitudine e longitudine.
“Sotto la linea equinoziale (l’equatore) avemmo tuoni, lampi, scrosci di pioggia e raffiche di vento: ogni volta eravamo costretti ad ammainare le vele e poi spiegarle, magari dieci o dodici volte al giorno. Quindi trovammo una calura estrema: l’acqua cominciò a puzzare, gli uomini dovevano tapparsi il naso per berla, ma oltrepassata la linea equinoziale tornò buona. Poi un vento da sud est, cioè di lato, ci spinse verso le secche che i Portoghesi chiamano Arashos. Le navi che ci entrano rischiano di restare incagliate o di perdersi, come accadde alla nostra ammiraglia San Felipe che fu in gran pericolo, e arrivò in India due mesi dopo di noi.”
Non è una passeggiata, insomma.
Tra secche e burrasche, Jan dipinge un realistico ritratto della vita a bordo. La razione è uguale per tutti: una libbra e tre quarti di biscotto al giorno, mezza brocca di vino, una brocca d’acqua, 32 libbre di carne salata al mese, pesce secco, cipolle e aglio all’inizio del viaggio. Poi ci sono zucchero, miele, uva passa, prugne secche, riso, che in teoria sono destinati ai malati.
“Però a essi ne arriva ben poco, perché gli ufficiali se li tengono per i loro piaceri e non ne lasciano sfuggire molto dalle loro dita.”
Quanto a condimenti, legna da ardere, vasellame e panni, ciascuno deve avere le proprie provviste.
Il 29 maggio, giorno della Pentecoste, per antica tradizione si tiene sulla nave una grande festa. Durante il banchetto però, per via di qualche parola di troppo, sorge una rissa: le tavole sono rovesciate, un centinaio di daghe sguainate e i marinai si uccidono l’un l’altro, finché l’arcivescovo esce dalla sua camera e si getta in mezzo alla mischia. Sotto minaccia di scomunica, ordina a tutti di portare daghe, pugnali e altre armi nella sua cabina: una volta fatto questo torna la pace.
Il 20 giugno è avvistata un’altra nave della flotta, la San Francisco, che prosegue con la San Salvador fino a doppiare il Capo di Buona Speranza, poi viene ancora persa di vista. Sopravvissuta a un terribile colpo di vento sulla costa di Terradonatal, evitate altre secche tra la costa africana orientale e il Madagascar, la San Salvador approda felicemente a Mossambique il 5 di agosto. Altre tre navi della flotta si trovano già lì, mentre l’ammiraglia è data per dispersa.
“Mossambique è una piccola isola che dista un miglio dalla terraferma: di lato due isolotti disabitati proteggono il porto. Esso è talmente grande che vi possono approdare molte navi, al sicuro come se fossero in un fiume. Le acque sono così profonde che esse si ormeggiano proprio sotto il castello, tanto che si potrebbe gettare una pietra sulla riva. L’isola è pianeggiante, bordata di sabbia bianca. Vi crescono palme da cocco, meli, limoni, aranci e fichidindia, mentre riso e altre granaglie sono portati dall’India. Pecore grasse offrono grande quantità di carne. Ci sono certe galline nere come inchiostro nel piumaggio: anche le loro ossa sono nere e la carne ha sapore dolce.”
Si tratta delle famose silkies già descritte da Marco Polo, con un piumaggio così fine da sembrare il pelo di un gatto d’angora. Difficilmente sarebbero potute sfuggire agli occhi attenti di Jan.
Mossambique è il primo vero scalo nella rotta verso l’India. Le navi vi sostano in genere una decina di giorni per rifornirsi, ma quando arrivano troppo tardi per prendere il vento sono costrette a svernare lì. Sull’isola non c’è acqua dolce, che è portata dalla terraferma e immagazzinata in cisterne. Il castello, ben guarnito, protegge la colonia dalle bellicose popolazioni della regione: Sena, Macuwa, Sofala, Cuama e altri, sempre in guerra tra loro. Alcuni, in particolare i Macuwa, usano mangiare la carne dei nemici uccisi.
L’arrivo dei portoghesi ha dato loro un’altra possibilità: farli prigionieri e venderli come schiavi. La schiavitù, infatti, è all’epoca una delle più lucrose attività dell’impero coloniale portoghese.
Se a Mossambique sorge il castello più forte di tutta la costa africana è anche per un’altra ragione. Sulla terraferma si trovano le ricche miniere d’oro dei Sofala: l’Eldorado dei portoghesi, che però non riusciranno mai a conquistarle.
(segue)