Luciano Canfora, docente universitario a riposo, dirige i Quaderni di storia e scrive sul Corriere della Sera. Per Rizzoli ha dato alle stampe pure Noi e gli antichi (2002), La storia falsa (2008), Il viaggio di Artemidoro (2010), Il “Corriere” tra Stalin e Trockij. 1926-1929 (2010), La guerra civile ateniese (2013).
Di particolare importanza per una piena comprensione del testo Il presente come storia: perché il passato ci chiarisce le idee è sia l’introduzione dell’autore che la presentazione dello stesso da parte dell’editore nella quarta di copertina. Nell’introduzione Luciano Canfora afferma che: «… Si potrebbe stabilire una antinomia della ragione storica tra chi considera le masse e più in generale le classi sociali come il fattore che muove la storia e chi invece ravvisa nelle oligarchie il vero detentore, nel corso del tempo, del motore che guida e governa le società, in ogni tempo e a ogni latitudine, vero motore dunque dello sviluppo storico. Analoghe antinomie si possono ipotizzare assumendo come fattore determinante per esempio le grandi personalità, i capi carismatici, oppure le formazioni politiche organizzate (i giacobini, i fascisti e così via): che è altra cosa rispetto al più generico riferimento alle classi sociali, e si avvicina in certo senso all’opinione di coloro che privilegiano il ruolo delle élites come determinante fattore di storia. Va subito detto che una discussione intorno alla priorità dell’uno o dell’altro fattore può risultare vana e senza costrutto se non si tien conto di un criterio di lettura della storia, che – una volta formulato – è parso, come spesso accade, fin troppo ovvio, ma che può invece considerarsi un originale contributo del pensiero novecentesco: la differenziata velocità del movimento storico teorizzata da Braudel nell’importante suo libro sul Mediterraneo (1949). Egli distinse le increspature superficiali, quelle per noi immediatamente percepibili nella quotidianità, quelle che si manifestano nei conflitti visibili (per esempio i conflitti politici), ben diverse dai movimenti più lenti, quelli che avvengono in profondità e danno, dopo molto, i loro frutti. Per esempio le trasformazioni economiche e dei modi di produzione, ma anche l’affermarsi di nuove correnti capaci di coinvolgere il sentire stesso delle masse, per esempio le grandi religioni. E si potrebbe dire, ulteriormente esemplificando, che anche lo sviluppo tecnico e le rivoluzioni scientifiche rientrano in questi fattori profondi e decisivi (la scoperta del ferro, della stampa e così via), mentre ancora più in profondo operano le lentissime, ma non per questo meno efficaci, trasformazioni dell’ambiente naturale in cui l’uomo si aggira e alle cui modifiche ben poco può opporre e che anzi provoca, accelerandone i processi degenerativi. Braudel distingueva, dunque, i diversi tempi della storia: dei quali il primo chiama in causa una storia quasi immobile, una storia quasi fuori del tempo, la storia dell’uomo nel suo rapporto con la realtà fisica, mentre il terzo corrisponde a quella che tradizionalmente si intende per storia, caratterizzata da un movimento rapido e incessante, ma di superficie. A metà strada tra le due – precisava Braudel – vi è una storia lentamente ritmata, una storia sociale dei vari raggruppamenti umani. Braudel metteva in guardia dalla storia del terzo tipo: diffidiamo di questa storia ancora bruciante, quale i contemporanei l’hanno descritta e vissuta, al ritmo della loro vita, breve come la nostra, essa ha la dimensione delle loro collere, dei loro sogni e delle loro illusioni.
Una delle questioni che si vorrebbe qui affrontare è quella del ruolo storico delle cosiddette oligarchie. Ma è la stessa parola oligarchie che va interpretata. Chi sono gli oligarchi? O per usare il linguaggio delle antiche città greche, chi sono i pochi (oligoi)? Pericle, Nicia, lo stesso Alcibiade a rigore non lo sono, in quanto non propugnano l’oligarchia, ma sono percepiti come dominanti dai loro avversari. Per un personaggio di età demostenica, il poco noto ma molto rumoroso Aristogitone, che accettava tutto sommato compiaciuto la definizione di cane del popolo, anche Demostene rientra tra gli oligoi. A rigore però, stricto sensu, oligarchi sono coloro che tramano incessantemente per abbattere il sistema politico democratico, nel quale peraltro l’egemonia spetta ai loro affini dal punto di vista sociale, quelli che accettano la sfida dell’assemblea convinti di poterla egemonizzare. Il carattere sostanzialmente fragile delle democrazie nelle città greche è dato dal fatto che gli opposti gruppi politici, e persino gli oligarchi radicali, in ultima analisi puntano al consenso: al consenso del medesimo demo. In tale realtà la qualifica di oligarca si adopera dunque per indicare figure tra loro piuttosto diverse, ma accomunate dal fatto di essere comunque al comando. Il fenomeno ci diviene più chiaro se assumiamo il concetto che la cosiddetta democrazia delle città greche, e ateniese in particolare, è comunque il regime politico in cui il governo è stabilmente nelle mani di un ceto non molto esteso numericamente, possidente, preparato, e capace di ottenere in un modo o nell’altro l’avallo necessario per governare. Di questa materia trattano alcuni degli interventi raccolti in questo volume.
Qui invece vorrei concentrarmi su un fenomeno storico che ha interessato il XX secolo: il rapporto tra oligarchie capitalistiche e fascismi. Esso si raccoglie intorno alla domanda: chi guida e chi è guidato? Ed è comunque un esempio concreto della lunga durata, della continuità fisica e personale delle oligarchie, della loro capacità di dominio sull’empirico susseguirsi dei regimi politici, assimilabili dunque – questi ultimi – alle increspature superficiali del movimento storico per dirla con Braudel. …. In tema di tempi della storia, una riflessione speciale meriterebbe il concetto di Rivoluzione. È il punto di incontro tra due grandi vettori della storia, la continuità e la rottura. L’esperienza lunga ormai di oltre due secoli sembra confermare l’intuizione tocquevilliana, secondo cui, per quanto profonda sia la rottura determinata da un evento rivoluzionario di grandi proporzioni, tuttavia la continuità si ripropone e si ripristina. Le rivoluzioni appaiono, considerate a posteriori, una tappa importantissima della storia nazionale del Paese in cui si producono, quale che sia la loro pretesa di parlare un linguaggio universale e di rivolgersi ben oltre i confini nazionali. Questo non significa che non si determini anche un effetto collaterale più o meno conforme ai presupposti di partenza di ciascuna di queste rivoluzioni, ma – anche in questo secondo caso – gli effetti del sommovimento si mescolano e si intrecciano con altre singole storie nazionali. L’esempio della Francia di Bonaparte o, nel Novecento, della Russia e della Cina, se considerato oggi, conferma la prevalenza della continuità. Fino a che punto è retorica il mantenimento in vita delle esteriorità inerenti alla rottura rivoluzionaria? Emblematico il fenomeno per cui, nei giorni anniversari della vittoria nella Seconda guerra mondiale, e solo in essi, la città di Volgograd torna per pochi giorni a chiamarsi Stalingrado. Non vi può essere prova più evidente di quanto la vicenda sovietica, culminata nella tappa fondamentale della guerra patriottica contro l’invasione italo-tedesca, sia definitivamente recuperata, per l’appunto nel suo valore nazionale, nella storia della Russia contemporanea. Qual è il costo umano di simili rotture? Le storie personali di chi sopravvisse alla bufera sono altrettante facce di un unico problema: che cosa è in concreto e nella vita dei singoli il fenomeno racchiuso dentro la parola rivoluzione. Il tema non è nuovo. Balzac nel celebre racconto Un episodio sotto il Terrore, Hugo nel dialogo tra Gauvain e Cimourdain posto al termine del Novantatré (1874), e Anatole France nel più noto forse dei suoi romanzi, Gli dei hanno sete (1912), possono ritenersi i pionieri di questa necessaria indagine. Essa tocca il problema doloroso e insolubile: come può un singolo, individualmente non colpevole di alcunché, rassegnarsi a capire la necessità generale onde l’ondata rivoluzionaria (che falcidia per generi e per tipologie umane) travolge anche lui, la sua individuale esistenza? C’è chi ne rimane schiacciato, chi non ha neanche il tempo di riflettere sulle scelte da compiere, e c’è chi si adatta: non semplicemente per opportunismo ma in forza di ragionamenti, che a taluno possono apparire sofismi.
Anatole France scelse di polarizzare i modi di essere possibili sotto il Terrore (robespierrista) nei due personaggi di Gamelin e di Brotteaux (l’osservatore disincantato, che non giustifica quanto gli accade intorno e porta sempre con sé il poema di Lucrezio in edizione tascabile). Jean Jaurès, che fu ucciso (luglio 1914) da un fanatico di destra perché cercava di impedire lo scivolamento dei socialisti europei nel gorgo dello sciovinismo e della follia bellica, nella sua Storia socialista della rivoluzione francese approdò a una tesi, che merita attenzione ma può non convincere affatto: per lui, Condorcet (ghigliottinato nel ’94) e Robespierre mirarono al medesimo scopo e anzi la lama della ghigliottina non bastò a troncare l’inestricabile legame ideale che li unì. È una trovata che guarda in avanti, nel presupposto che la storia vada verso qualcosa, e che riduce a incidente di percorso il destino individuale. Jaurès era un socialista moderato, convinto riformista e pacifista: e colpisce molto l’audacia con cui ha affrontato e risolto la questione perché il Terrore, alla cui base c’è il concetto, tipologico e non giuridico, di nemico del popolo, creato appunto nel 1793-1794. France, che nel romanzo sta piuttosto dalla parte di Brotteaux e che dunque non simpatizzava ormai più con la Rivoluzione, dopo il 1917 guardò invece con favore alla nuova tempesta rivoluzionaria, quella bolscevica esplosa all’altro capo dell’Europa. Quando morì (nel 1924) una selva di bandiere rosse scortò il suo funerale e in Italia l’Ordine Nuovo di Gramsci gli dedicò pagine di grande simpatia. Dopo quasi un secolo la voce ultrapessimistica (quando non interessata) di chi predica da sempre che la rivoluzione in quanto tale è una via errata si è fatta daccapo molto forte. È l’approdo politico principale del revisionismo storiografico: proprio in questi anni è uscito a Parigi un grosso, e grossolano, Libro nero della Rivoluzione francese. Non è detto che siffatto revisionismo riesca ad aver ragione. Oltre tutto la ragione, nella valutazione storica, è essa stessa un elemento storico, cioè soggetto al mutamento».
Invece nella presentazione dell’opera da parte dell’editore il medesimo dichiara che: «Qual è il vero motore della storia? L’oligarchia al potere o la massa dei molti? E quali criteri sono validi per interpretare gli eventi? Sono queste alcune delle domande alla base della ricerca storiografica secondo Luciano Canfora, che in questo libro si muove tra documenti e falsificazioni per comprendere quanto la narrazione storica rifletta, o mistifichi, la realtà. Passando in rassegna momenti e temi cruciali del passato antico e recente – dall’Atene di Pericle alle conquiste di Roma, dal rapporto tra Chiesa e impero nel Medioevo all’affermazione delle dittature nel Novecento – l’autore spiega perché scrivere storia significhi lottare contro gli effetti del progressivo allontanamento dai fatti. Attento nel cogliere ciò che le fonti esagerano o non dicono, Canfora interroga l’antichità sulla costante tensione tra gli eventi e la loro rappresentazione e ci mostra come partire dal passato per affrontare le questioni vitali per la società contemporanea: la giustizia, la cittadinanza, la libertà, la verità».
Si ritiene che quanto detto sia nell’introduzione dall’autore sia nella presentazione del saggio da parte dell’editore abbia spiegato a sufficienza scopi e finalità dell’opera presa in esame. Di grande utilità risultano la nota e l’indice dei nomi. Un volume meritevole di notevole attenzione che si consiglia di leggere e/o regalare a coloro che sono interessati a comprendere quale sia il ruolo e la funzione della Storia nel mondo contemporaneo.
Titolo: Il presente come storia: perché il passato ci chiarisce le idee
Autore: Luciano Canfora
Editore: BUR Biblioteca Univ. Rizzoli
Pagg. 266