« …e l’oscurità, il degrado e la Morte Rossa regnarono incontrastati su tutto.»
(E. A. Poe, la Maschera della Morte Rossa)
L’argomento di cui andremo a trattare risulterà di particolare interesse per chi, come il sottoscritto, ha un particolare legame con il genere horror, sia su pellicola che nella narrazione scritta.
E proprio con un riferimento cinematografico voglio cominciare questo articolo. Prima di iniziare, però, vorrei dedicarlo alla storica Chiara Frugoni, autrice di numerosi saggi sul Medioevo, che ci ha lasciato qualche mese addietro, e che ha curato un documentario proprio sul tema.
Siamo nel 1964, e il regista Roger Corman si appresta a ultimare le riprese di quello che si può considerare uno dei suoi capolavori assoluti. Nelle ampie e sontuose sale del suo castello, il malvagio principe (interpretato da un insuperabile Vincent Price) ammira lo sfarzoso e goliardico ballo dei nobili suoi ospiti. Ad un cenno di un misterioso individuo mascherato di rosso, la danza si trasforma: i movimenti si fanno lenti, i volti dei cavalieri e delle dame si fanno rossi di sangue.
Nell’opera di Edgar Allan Poe, da cui la pellicola di Corman trae la massima ispirazione, il richiamo a un Medioevo fatto di tenebre, di diavoli, di barbarie indicibili è alquanto ricorrente.
Non si può dire che il cinema sia stato immune da certe tematiche, basti pensare all’epilogo del capolavoro di Ingmar Bergman, il Settimo Sigillo.
Anche una scena del Nosferatu di W. Herzog, remake del capolavoro muto di F. Murnau, pare abbia subito il medesimo influsso, e in questo caso la danza si trasforma in un banchetto tra appestati.
In ambito musicale, l’orrore nero ha incarnato molte forme, tra le quali non possiamo evitare di citare la Danse Macabre, masterpiece di Camille Saint-Saëns, e la Totentanz di Franz Liszt, utilizzata quest’utlima come colonna sonora introduttiva del film Shining (1980).
Più di recente il cantautore Angelo Branduardi nella sua Ballo in Fa Diesis Minore fa suo il tema della morte incoronata:
Sono io la morte e porto corona,
Io Son di tutti voi signora e padrona.
Anche nel panorama musicale del rock e del metal, la morte non smette di danzare: possiamo pensare al singolo Dance of Death, del gruppo inglese degli Iron Maiden.
Non si può fare a meno di pensare che i suddetti autori e artisti abbiano attinto a piene mani da un celebre tema iconografico dell’età medievale. Tuttavia anche nell’antichità classica la morte, portatrice di un triste monito, trovava spazio nelle rappresentazioni artistiche: lo dimostrano alcuni affreschi romani, i quali, in sale probabilmente adibite ai banchetti, campeggiava uno scheletro. Lo storico greco Erodoto ci informa inoltre che era uso presso gli antichi egizi, nel corso dei banchetti, esporre ai commensali la scultura di uno scheletro in legno: tutto questo però non come invito a riflessioni etiche, bensì come sollecito a godere del presente.
Secondo pensatori più transigenti a una visione dell’epoca medievale ormai considerata antiquata, vengono detti “bui” quei secoli immediatamente successivi al tracollo dell’Impero romano d’Occidente.
A discapito però di quanto potessero scrivere Poe e gli autori dei romanzi gotici, il tema della Danza Macabra non si afferma nel corso degli “anni bui” dell’Alto Medioevo. Ci troviamo in pieno Quattrocento, nel Medioevo della rifioritura cittadina, delle università e della crescita economica quando la Chiesa, per stimolare una riflessione etica dei fedeli, accetta il dilagare del macabro nell’arte. Si pensò così che il fedele, spaventato dalla prospettiva della morte e dalla futilità delle delizie terrene, avrebbe avuto maggior cura delle cose dell’anima: il memento mori assume dunque un significato nuovo rispetto a quanto attribuitogli nell’Età Classica.
Lo storico Vito Fumagalli fa notare in uno dei suoi saggi come nell’Alto Medioevo vi sia un’inaspettata familiarità tra l’uomo e la foresta. Vi era, sì, il problema dei lupi, ma alla forza delle belve si può ben opporre la forza degli uomini: fu infatti Carlo Magno ad istituire la figura del luparo, ossia quel funzionario delegato a contrastare la minaccia dei lupi. Nelle foreste l’essere umano dell’Alto Medioevo poteva cacciare, nonché raccogliere legna e frutti.
Ma quando, con il progressivo passaggio dall’Alto al Basso Medioevo l’area delle terre incolte viene a scemare sensibilmente, la selva diviene il luogo in cui nessuno vuole andare. Chi vi si trovasse per caso sperduto rischierebbe, suo malgrado, di essere spettatore di manifestazioni soprannaturali, quali raduni di streghe, apparizioni di spiriti e, naturalmente, delle anime tormentate dei defunti.
La morte, a differenza di quanto avvenne in precedenza, viene in un certo senso materializzata e individualizzata, ricondotta a una visione più laica che religiosa. Non si ebbe però, come lecito pensare, l’affermarsi di una prospettiva “atea”: le Totentanz, come vengono chiamate in tedesco, trovano spazio sulle facciate o nei loggiati delle chiese, qualche volta insieme a temi cari all’iconografia dei secoli precedenti, quali il giudizio universale. Talvolta anche il Diavolo, figura propria del contesto religioso, assume le sembianze di un cadavere marcescente.
La diffusione geografica di questi “orrori danzanti” è vastissima: dall’Italia alla Francia, dalla Germania ai paesi dell’est Europa.
Questo tripudio di morti danzanti invaderà non solo i muri degli edifici sacri, ma anche i codici miniati e le xilografie.
Il tema in esame trova i propri natali almeno un secolo prima dell’epoca delle Danze Macabre, non in ambito artistico, ma in ambito letterario: si tratta dell’”incontro dei tre vivi e dei tre morti”.
La storia, con molteplici varianti, mantiene un nucleo identico. Tre cavalieri, si recano a caccia in un bosco, in cui fanno un raccapricciante incontro: tre cadaveri li ammoniscono con il celebre monito:
“Noi eravamo come voi siete, come noi siamo voi sarete”.
Il monito, in una delle versioni, svela assai più marcatamente il suo intento etico:
«Ciò che sarete voi, noi siamo adesso. Chi si scorda di noi, scorda sé stesso.»
Talvolta i cadaveri sono rappresentati in diversi stadi di decomposizione, mentre altrove li ritroviamo tutti come semplici scheletri; inoltre essi vengono in qualche caso raffigurati in posizioni diverse (in piedi, in ginocchio, in una bara, etc). E ancora, in alcune immagini pittoriche, l’incontro, tutto sommato pacifico benché inquietante, si trasforma in uno scontro armato.
Questo racconto, benché compaia sotto nuove spoglie e carico di nuovi significati, non sembra però rappresentare una novità nell’ambito narrativo – iconografico medievale: in alcuni casi l’incontro con le anime purganti, venute a ringraziare i propri parenti per le offerte in suffragio dell’anima, assume le vesti dell’incontro con tre cadaveri.
Nella raffigurazione presentata qui sotto, le tre anime purganti porgono ai vivi dei piatti, simbolo forse, di benessere materiale: da qui possiamo trovare un allaccio con la spiritualità pagana e le sue leggende sui mani, spiriti degli antenati latori di benefici.
Dopo aver collocato, almeno in via indicativa, la materia in esame geograficamente e temporalmente, occorre chiedersi quale sia il fattore scatenante che ha contribuito al diffondersi di una tematica tanto lugubre. Gli storici sono concordi ad attribuire un ruolo di primo piano alla Peste Nera che imperversò in Europa a partire dal 1348.
La pandemia può aver ingenerato negli individui la convinzione di essere preda di una forza sovrannaturale e insoverchiabile, che costringe tutti a ballare al proprio ritmo.
Solitamente con il nome di Danza Macabra si indicano ben tre temi differenti di raffigurazione, spesso e volentieri fusi tra loro: abbiamo, innanzitutto, il già citato tema “dei tre vivi e dei tre morti”, il quale viene stavolta trasposto in immagini.
Troviamo poi il Trionfo della Morte, in cui la morte, proprio come nel racconto di Poe e nel brano di Branduardi, si fa regina indiscussa della terra, obnubilando ogni piacere e delizia terrena.
Infine possiamo citare la Danza dei Morti, propriamente detta, in cui gli individui di ogni classe sociale si ritrovano, loro malgrado, coinvolti in una danza con uno scheletro, che altro non è che il loro doppio: qui il gioco sulle antitesi, a partire dall’opposizione vita-morte, si fa estremo oltre che sottile. Gli uomini e le donne che prendono parte al macabro ballo, mostrano un’espressione riluttante, quasi vi fossero stati trascinati a forza. Gli scheletri, per contro, appaiono tutti sghignazzanti, quasi a sottolineare l’ironia sinistra della morte. Non solo: gli individui appaiono diversi nel viso e nel vestire, mentre gli scheletri sono tutti identici, a significare che la morte è uguale per ogni individuo.
Una delle danze macabre più famose in Italia è certamente quella che si trova sulla parete frontale dell’Oratorio dei Disciplini a Clusone, opera realizzata nel 1484-1485 dal pittore Giacomo Busca, artista originario di Albino e molto attivo nell’area bergamasca.
Notiamo proposti, insieme, il tema della Danza dei Morti (registro mediano), e del Trionfo della Morte (registro superiore).
Nel registro inferiore resta ancora traccia di un’immagine dell’Inferno che accoglie i dannati a bocca spalancata, e di tre penitenti in preghiera.
Come di consueto, la danza presenta vari personaggi, provenienti da ogni ceto sociale. Il primo personaggio che ci viene mostrato per intero è una donna che tiene in mano uno specchio, simbolo di vanità, il cui unico riflesso è però lo scheletro che sta alle spalle della dama.
L’androne più indietro è affollato di vivi e di morti: segno che la danza è destinata a durare, forse per sempre.
Procedendo dalla dama verso destra troviamo, nell’ordine, un disciplino incappucciato munito di flagello, un conciatore di brocche munito di trapano, un oste con una brocca, un pellegrino munito di bastone, un mercante (o usuraio) con una borsa e un portalettere. Gli altri personaggi, tagliati dall’aggiunta di una scala in epoca più tarda, non sono purtroppo ad oggi più visibili.
Secondo una certa interpretazione, non da tutti condivisa, ma comunque suggestiva, il mercante o usuraio (che è l’unico personaggio che guarda fuori dall’affresco) starebbe prendendo dalla borsa del denaro da offrire allo scheletro perché lo lasci libero dalla danza.
L’individualizzazione della morte è raffigurata dal fatto che ciascun individuo ha a fianco a sé il proprio scheletro che fa da barriera invalicabile tra lui e gli altri viventi.
I due cartigli che dividono la fascia centrale dalla parte superiore e da quella inferiore formano una scritta nel volgare del tempo, che può essere così interpretata:
«O tu che servi Dio dal cuore buono, non aver paura di venire a questo ballo, ma vieni allegramente e non temere, poiché chi nasce deve morire.»
Il registro superiore, vede la Morte regina incoronata, con le braccia aperte che sembra condurre le danze: essa sovrasta un catafalco in cui sono adagiati due cadaveri, forse un papa e un imperatore; dal sepolcro fuoriescono rospi, scorpioni e serpenti, animali considerati immondi per l‘iconografia dell’epoca, e che non richiamano, quasi certamente, solo la sporcizia esteriore, ma anche il peccato e la corruzione morale.
All’estrema sinistra del “Trionfo” notiamo una scena in cui tre cavalieri sono impegnati nella caccia al falcone.
Da notare che la caccia al falcone non era affatto comune nei territori di Clusone, dunque perché dipingere questa scena? Si tratta nuovamente di una riproposizione dell’incontro dei tre vivi e dei tre morti, in cui i tre morti sono rappresentati dalla Morte regina e dai due “scheletri” aiutanti sul sarcofago.
Questi ultimi portano delle armi con cui, simili a macabri cecchini, fanno strage dei viventi: vediamo già numerose vittime accatastate sotto il sepolcro. Lo scheletro di sinistra impugna arco e frecce, e ha una faretra in spalla, mentre quello di destra imbraccia un rudimentale archibugio.
Gli stendardi svolazzanti retti dalla Morte regina formano un’unica scritta, sempre in volgare, così traducibile:
«Son per nome chiamata morte, colpisco chi toccherà la sorte, non vi è uomo così forte che da me può scampare.
Sono la morte piena di equanimità, solo voi voglio e non la vostra ricchezza, e degna sono di portare corona, poiché signoreggio su ogni persona.
Ogni uomo muore e questo mondo lascia, chi offende Dio amaramente passa.
Chi si è consolidato nella giustizia e nel bene, e ha per caro il Dio altissimo,
dalla morte non riceve dolore, poiché lo conduce in una vita assai migliore.»
Attorno al lugubre piedistallo della morte, sono accalcati numerosi personaggi, tutti ben vestiti (nobili, ecclesiastici, personalità politiche): tutti costoro cercano di corrompere la morte offrendole le loro ricchezze. Un vescovo, appena a sinistra del sarcofago, porge un vassoio con delle monete.
Oppure vediamo, di fronte al sepolcro, un frate che offre un anello prezioso e un cavaliere che offre una corona.
Un dettaglio molto particolare, sempre in questa parte dell’affresco, proprio accanto al frate, è la figura di un doge, che protende verso la morte un vassoio pieno di fave di zucchero, estremamente rinomate all’epoca.
Prima di concludere l’articolo, vorrei riflettere sul significato psicologico dei temi iconografici che abbiamo esaminato.
Innanzitutto, è perfettamente riconoscibile il tema del doppio che, ancor prima di essere un tema letterario, rappresenta un elemento psicologico: nella danza macabra propriamente detta, ciascun personaggio ha a fianco il proprio scheletro. A rappresentare l’ego della persona non è lo scheletro ma la persona stessa, con le proprie caratteristiche fisiche, il proprio mestiere, le proprie convinzioni e aspirazioni. Lo scheletro rappresenta l’io più profondo o, per la mentalità cristiana in cui l’opera è stata realizzata, l’anima priva di ogni vanità o di preconcetto terreno.
Un altro profilo di lettura fa leva sulle paure inconsce della gente, e sulla lotta per contrastarle. Il morto che ritorna dalla tomba, tema esplorato in molte sfaccettature dalla letteratura gotica e che affonda le proprie radici nel folklore europeo, non è affatto un tema estraneo a ciò.
Il tentativo di segregare la morte, e ogni oggetto che ad essa fa richiamo, in particolare il cadavere, invece che esorcizzarla porta a un ripresentarsi della stessa in forma più orribile e minacciosa. Pampinea, giovane protagonista del Decamerone, racconta che facendo ritorno nella località ove viveva, ormai devastata dalla peste, è impaurita poiché le sembra di vedere le ombre di coloro che conosceva e che sono morti, ma con un aspetto spaventoso e diverso da quello che lei ricordava.
Infine, grazie a un sogno che ho fatto durante il periodo di elaborazione e di maturazione di questo articolo, ho potuto introdurre un ulteriore tema, trasversale ai due che abbiamo appena esaminato; il sogno era grossomodo questo: una lunga fila di persone, in uno stretto corridoio, si fermavano una per volta innanzi a uno specchio sul fondo, specchio che però non rifletteva le figure umane. Una volta davanti allo specchio, le persone svanivano.
Abbiamo già parlato di uno specchio, con riguardo all’affresco di Clusone, lo stesso pare sia ripreso da una danza macabra presente a Basilea, e in cui un vicino cartiglio reca la scritta “i miei tratti mostrano la vita e lo specchio riflette la morte”.
Così, la danza macabra può essere probabilmente interpretata come un simbolo dell’introspezione dell’uomo, che guarda oltre le apparenze e alle realtà instabili della vita, per vedere veramente sé stesso.