Tutti conoscevano il bravo dottor Minicucci, il medico condotto. Si può dire che l’intera popolazione giovane e meno giovane del paese fosse passata per le sue mani.
Preparato, onesto, rispettato e sempre disponibile, bastava fargli sapere di aver bisogno delle sue cure e poco dopo ti si presentava in casa con i suoi capelli bianchi e il suo sorriso allegro. Spesso bastava la sua sola presenza per fare scomparire o comunque alleviare qualsiasi malessere.
Dopo aver accuratamente visitato l’ammalato, si sedeva tranquillamente al tavolo, estraeva la sua preistorica stilografica dal pennino d’oro, e tratto un voluminoso ricettario da una vetusta valigetta a soffietto, vergava con calma meticolosa e, cosa strana per un medico, con un’impeccabile calligrafia, lunghe e accurate ricette.
Normalmente, quando era necessario recarsi nel centro del paese per fare delle spese, era incaricato il piccolo Gigio, un ometto di ormai dieci anni, e così avveniva anche quando occorreva comprare delle medicine.
La farmacia si trovava proprio in piazza. Era un locale grande e antico; lungo le pareti correvano delle scansie sulle quali erano disposti, in ordine preciso, vasi e ampolle contenenti sostanze mediche. La professione del farmacista era, in quel tempo, ben diversa da quella moderna. Non esistevano, infatti, le ben note confezioni di medicinali che troviamo oggi. Gli unici medicinali già pronti in apposite fiale, che dovevano essere tranciate con un minuscolo seghetto, erano quelli che dovevano essere iniettati.
L’iniezione era un procedimento alquanto complesso: le siringhe erano di robusto vetro molato e duravano anni e anni fin quando non si rompevano per qualche incidente; anche gli aghi erano usati più e più volte. Questi, poi, erano corredati di un sottilissimo filo d’acciaio che veniva introdotto al loro interno per assicurarne la pervietà e rimuovere eventuali ostruzioni. Ago e siringa dovevano essere preventivamente sterilizzati e ciò si otteneva ponendoli in un apposito contenitore riempito d’acqua e fatto bollire per circa 5/10 minuti.
Poiché era spesso vittima di affezioni bronchiali, Gigio era abitualmente curato con iniezioni di “Creosotina”, particolarmente dolorose quando l’ago era usato troppe volte, perdendo per così dire la sua affilatura.
La farmacista era una giovane donna, alta e prosperosa dai lunghissimi capelli biondi che le scendevano fin quasi alla vita. In paese era considerata una straniera perché proveniva dal Friuli, forse da Udine o da Gorizia. Le donne, in particolare, la guardavano con ostilità e invidia e quando attraversava la strada, dritta e impettita, elegante nel suo camice bianco, chinavano il capo sui loro lavori per evitare di salutarla, mentre gli uomini sogghignavano e si davano di gomito. Normalmente era definita la “speziala” e, talvolta, la “tosa striaca” (la ragazza austriaca).
I giovani bellimbusti del paese oziavano spesso nei pressi della farmacia come tanti galletti, vociando ad alta voce per attirare l’attenzione e talvolta entravano dalla speziala con le motivazioni più sciocche cercando di far colpo. La farmacista, tuttavia, non dava confidenza a nessuno e solo rare volte si intratteneva a parlare in tedesco con un giovane e timido tenente medico della Wehrmacht.
Per Gigio era un piacere portare in farmacia le ricette del dottor Minicucci. L’ambiente, odoroso di cera e di spezie, lo affascinava. Sugli scaffali più alti, grandi vasi di porcellana di vari colori portavano impresse delle scritte in un linguaggio esotico che non riusciva a comprendere.
La farmacista lo accoglieva sempre con gentilezza e con un sorriso. Leggeva la ricetta, prelevava le sostanze necessarie da diversi contenitori, le pesava accuratamente in una piccola bilancia dotata di una serie di minuscoli pesi di ottone, le amalgamava e le triturava in un mortaio e poi le confezionava in diverse bustine monodose.
Col tempo si era creata una sorta di strana muta amicizia tra quel biondo ragazzetto di dieci anni, sfollato dalla città, e quindi a sua volta “straniero” e la “tosa striaca”. Sempre più spesso lei, insieme con il pacchetto contenente i medicinali, gli regalava un bastoncino di liquerizia.
Il 1945 si trascinava lento. La grande guerra era finita ma la piccola guerra, quella civile, anch’essa fatta di orrori, uccisioni e rappresaglie era iniziata.
Il paese, in precedenza tranquillo, era spesso attraversato da piccole bande di uomini armati dal volto truce e sospettoso, alcuni del paese stesso e altri arrivati da chi sa dove. Una sera, sul tardi, un gruppetto di giovinastri del paese, ubriachi di vino e inebriati dall’anarchia conseguente alla sparizione di qualsiasi forza dell’ordine, si raggrupparono davanti al cancello del cortile della casa dove abitava Gigio, sparando qualche colpo di fucile in aria, e cantando a squarciagola, sul motivo di “bandiera rossa”:
– Avanti popolo, che siamo in tanti, vogliamo i campi di Anzoetto Penna.
Angelo Penna, il vecchio contadino proprietario della casa in cui erano sfollati i genitori di Gigio e della quale occupavano due stanzette, chiuse le pesanti imposte di legno delle finestre che bloccò con una sbarra di metallo e fece lo stesso con la porta d’ingresso. Poi, con l’anziana moglie, si sedette accanto al grande camino della cucina poggiando sulle ginocchia il fucile da caccia.
I canti e gli schiamazzi durarono a lungo, poi, a notte fonda, il gruppetto si disperse senza aver fatto alcun tentativo di varcare il cancello.
Durante la notte, Gigio e i suoi genitori, che dormivamo al piano di sopra, furono destati dal chiarore che penetrava dalle finestre e da alcune grida: Il casolare di fronte, quello della famiglia Picciù, era in fiamme e lunghe fila di contadini facevano la spola dal pozzo alla casa tentando di spegnere l’incendio con secchi pieni d’acqua.
Chi aveva appiccato il fuoco? E perché? Quali strane vendette, quali rancori mai sopiti trovavano ora il loro sfogo? Non si sarebbe saputo mai.
Passarono i giorni; le prime avvisaglie di un’estate calda e afosa erano arrivate. La madre di Gigio ebbe un’altra delle sue numerose dolorose crisi, genericamente definite “mal di fegato”, che le facevano passare la notte in bianco, tra lamenti e borse d’acqua bollente applicate sul fianco.
Ancora una volta, come sempre, accorse il buon dottor Minicucci con le sue ricette, e ancora una volta il ragazzo fu spedito in farmacia.
Giunto in piazza la trovò stranamente affollata da uomini vocianti e donne sghignazzanti che si davano grandi manate sui fianchi. La farmacia era chiusa. Incuriosito, s’intrufolò tra la folla e…vide.
Nel centro della piazza era stata costruita una rozza piattaforma di legno sopraelevata. Sulla piattaforma era stata posta una sedia e seduta, con le mani legate dietro la schiena, c’era una donna.
Uno stolido giovinastro barbuto, con un sogghigno stampato sul volto, le stava rasando i capelli a zero e, per ogni ciocca che cadeva sul tavolaccio, dalla folla si alzavano grida di giubilo, insulti e battimani. La donna aveva gli occhi chiusi, il viso pallido e tumefatto, ciondolava lentamente la testa ora a destra ora a sinistra come in preda ad un’immensa sofferenza. Dal collo pendeva un cartello con una scritta: “collaborazionista”.
Gigio non riconosceva quella donna, il suo capo chino e il volto disfatto e sofferente glielo impedivano, e inoltre non comprendeva perché la stessero sottoponendo a quella tortura.
Eppure, eppure, scorgeva qualcosa di familiare; un’ultima, lunghissima ciocca di capelli biondi, brandita in aria come un trofeo di caccia, lo fulminò di un’improvvisa luce di riconoscimento: era la sua amica, la speziala!
Un dolore acuto gli trafisse il petto mentre lacrime roventi cominciavano a scorrergli sul viso, si allontanò in fretta dalla folla ma una mano di ferro gli afferrò un braccio. Alzò gli occhi. Un uomo con un gran cappellaccio nero sulla testa e il solito fazzoletto rosso attorno al collo, del quale ormai si adornava qualsiasi bravaccio, lo apostrofò con rabbia sputacchiando le parole come proiettili:
-Piangi eh? La conosci eh? Sei anche tu un piccolo fascista eh? E magari anche tuo padre è un fascista eh?
Quel ceffo però ignorava una cosa: Gigio non era più il timido, educato ragazzino perbene venuto tre anni prima dalla città. Tre anni di vita nella strada, continuamente aggredito e massacrato da ragazzetti selvaggi e primitivi, gli avevano insegnato a combattere, a difendersi e a massacrare a sua volta con le mani, con i piedi, con i sassi, con le fionde, con i bastoni.
Fissò l’uomo negli occhi e mentre una vampata d’odio e di rabbia gli riscaldava il sangue, gli sferrò un tremendo calcio in uno stinco con i suoi zoccoli di legno. Questi lasciò immediatamente il ragazzo con un urlo di dolore, e si piegò su se stesso. Poi, zoppicando, cercò di inseguirlo. Ma era come se una tartaruga volesse raggiungere una lepre, Gigio lo distanziò con estrema facilità e ben presto scomparve in lontananza.
Preparato, onesto, rispettato e sempre disponibile, bastava fargli sapere di aver bisogno delle sue cure e poco dopo ti si presentava in casa con i suoi capelli bianchi e il suo sorriso allegro. Spesso bastava la sua sola presenza per fare scomparire o comunque alleviare qualsiasi malessere.
Dopo aver accuratamente visitato l’ammalato, si sedeva tranquillamente al tavolo, estraeva la sua preistorica stilografica dal pennino d’oro, e tratto un voluminoso ricettario da una vetusta valigetta a soffietto, vergava con calma meticolosa e, cosa strana per un medico, con un’impeccabile calligrafia, lunghe e accurate ricette.
Normalmente, quando era necessario recarsi nel centro del paese per fare delle spese, era incaricato il piccolo Gigio, un ometto di ormai dieci anni, e così avveniva anche quando occorreva comprare delle medicine.
La farmacia si trovava proprio in piazza. Era un locale grande e antico; lungo le pareti correvano delle scansie sulle quali erano disposti, in ordine preciso, vasi e ampolle contenenti sostanze mediche. La professione del farmacista era, in quel tempo, ben diversa da quella moderna. Non esistevano, infatti, le ben note confezioni di medicinali che troviamo oggi. Gli unici medicinali già pronti in apposite fiale, che dovevano essere tranciate con un minuscolo seghetto, erano quelli che dovevano essere iniettati.
L’iniezione era un procedimento alquanto complesso: le siringhe erano di robusto vetro molato e duravano anni e anni fin quando non si rompevano per qualche incidente; anche gli aghi erano usati più e più volte. Questi, poi, erano corredati di un sottilissimo filo d’acciaio che veniva introdotto al loro interno per assicurarne la pervietà e rimuovere eventuali ostruzioni. Ago e siringa dovevano essere preventivamente sterilizzati e ciò si otteneva ponendoli in un apposito contenitore riempito d’acqua e fatto bollire per circa 5/10 minuti.
Poiché era spesso vittima di affezioni bronchiali, Gigio era abitualmente curato con iniezioni di “Creosotina”, particolarmente dolorose quando l’ago era usato troppe volte, perdendo per così dire la sua affilatura.
La farmacista era una giovane donna, alta e prosperosa dai lunghissimi capelli biondi che le scendevano fin quasi alla vita. In paese era considerata una straniera perché proveniva dal Friuli, forse da Udine o da Gorizia. Le donne, in particolare, la guardavano con ostilità e invidia e quando attraversava la strada, dritta e impettita, elegante nel suo camice bianco, chinavano il capo sui loro lavori per evitare di salutarla, mentre gli uomini sogghignavano e si davano di gomito. Normalmente era definita la “speziala” e, talvolta, la “tosa striaca” (la ragazza austriaca).
I giovani bellimbusti del paese oziavano spesso nei pressi della farmacia come tanti galletti, vociando ad alta voce per attirare l’attenzione e talvolta entravano dalla speziala con le motivazioni più sciocche cercando di far colpo. La farmacista, tuttavia, non dava confidenza a nessuno e solo rare volte si intratteneva a parlare in tedesco con un giovane e timido tenente medico della Wehrmacht.
Per Gigio era un piacere portare in farmacia le ricette del dottor Minicucci. L’ambiente, odoroso di cera e di spezie, lo affascinava. Sugli scaffali più alti, grandi vasi di porcellana di vari colori portavano impresse delle scritte in un linguaggio esotico che non riusciva a comprendere.
La farmacista lo accoglieva sempre con gentilezza e con un sorriso. Leggeva la ricetta, prelevava le sostanze necessarie da diversi contenitori, le pesava accuratamente in una piccola bilancia dotata di una serie di minuscoli pesi di ottone, le amalgamava e le triturava in un mortaio e poi le confezionava in diverse bustine monodose.
Col tempo si era creata una sorta di strana muta amicizia tra quel biondo ragazzetto di dieci anni, sfollato dalla città, e quindi a sua volta “straniero” e la “tosa striaca”. Sempre più spesso lei, insieme con il pacchetto contenente i medicinali, gli regalava un bastoncino di liquerizia.
Il 1945 si trascinava lento. La grande guerra era finita ma la piccola guerra, quella civile, anch’essa fatta di orrori, uccisioni e rappresaglie era iniziata.
Il paese, in precedenza tranquillo, era spesso attraversato da piccole bande di uomini armati dal volto truce e sospettoso, alcuni del paese stesso e altri arrivati da chi sa dove. Una sera, sul tardi, un gruppetto di giovinastri del paese, ubriachi di vino e inebriati dall’anarchia conseguente alla sparizione di qualsiasi forza dell’ordine, si raggrupparono davanti al cancello del cortile della casa dove abitava Gigio, sparando qualche colpo di fucile in aria, e cantando a squarciagola, sul motivo di “bandiera rossa”:
– Avanti popolo, che siamo in tanti, vogliamo i campi di Anzoetto Penna.
Angelo Penna, il vecchio contadino proprietario della casa in cui erano sfollati i genitori di Gigio e della quale occupavano due stanzette, chiuse le pesanti imposte di legno delle finestre che bloccò con una sbarra di metallo e fece lo stesso con la porta d’ingresso. Poi, con l’anziana moglie, si sedette accanto al grande camino della cucina poggiando sulle ginocchia il fucile da caccia.
I canti e gli schiamazzi durarono a lungo, poi, a notte fonda, il gruppetto si disperse senza aver fatto alcun tentativo di varcare il cancello.
Durante la notte, Gigio e i suoi genitori, che dormivamo al piano di sopra, furono destati dal chiarore che penetrava dalle finestre e da alcune grida: Il casolare di fronte, quello della famiglia Picciù, era in fiamme e lunghe fila di contadini facevano la spola dal pozzo alla casa tentando di spegnere l’incendio con secchi pieni d’acqua.
Chi aveva appiccato il fuoco? E perché? Quali strane vendette, quali rancori mai sopiti trovavano ora il loro sfogo? Non si sarebbe saputo mai.
Passarono i giorni; le prime avvisaglie di un’estate calda e afosa erano arrivate. La madre di Gigio ebbe un’altra delle sue numerose dolorose crisi, genericamente definite “mal di fegato”, che le facevano passare la notte in bianco, tra lamenti e borse d’acqua bollente applicate sul fianco.
Ancora una volta, come sempre, accorse il buon dottor Minicucci con le sue ricette, e ancora una volta il ragazzo fu spedito in farmacia.
Giunto in piazza la trovò stranamente affollata da uomini vocianti e donne sghignazzanti che si davano grandi manate sui fianchi. La farmacia era chiusa. Incuriosito, s’intrufolò tra la folla e…vide.
Nel centro della piazza era stata costruita una rozza piattaforma di legno sopraelevata. Sulla piattaforma era stata posta una sedia e seduta, con le mani legate dietro la schiena, c’era una donna.
Uno stolido giovinastro barbuto, con un sogghigno stampato sul volto, le stava rasando i capelli a zero e, per ogni ciocca che cadeva sul tavolaccio, dalla folla si alzavano grida di giubilo, insulti e battimani. La donna aveva gli occhi chiusi, il viso pallido e tumefatto, ciondolava lentamente la testa ora a destra ora a sinistra come in preda ad un’immensa sofferenza. Dal collo pendeva un cartello con una scritta: “collaborazionista”.
Gigio non riconosceva quella donna, il suo capo chino e il volto disfatto e sofferente glielo impedivano, e inoltre non comprendeva perché la stessero sottoponendo a quella tortura.
Eppure, eppure, scorgeva qualcosa di familiare; un’ultima, lunghissima ciocca di capelli biondi, brandita in aria come un trofeo di caccia, lo fulminò di un’improvvisa luce di riconoscimento: era la sua amica, la speziala!
Un dolore acuto gli trafisse il petto mentre lacrime roventi cominciavano a scorrergli sul viso, si allontanò in fretta dalla folla ma una mano di ferro gli afferrò un braccio. Alzò gli occhi. Un uomo con un gran cappellaccio nero sulla testa e il solito fazzoletto rosso attorno al collo, del quale ormai si adornava qualsiasi bravaccio, lo apostrofò con rabbia sputacchiando le parole come proiettili:
-Piangi eh? La conosci eh? Sei anche tu un piccolo fascista eh? E magari anche tuo padre è un fascista eh?
Quel ceffo però ignorava una cosa: Gigio non era più il timido, educato ragazzino perbene venuto tre anni prima dalla città. Tre anni di vita nella strada, continuamente aggredito e massacrato da ragazzetti selvaggi e primitivi, gli avevano insegnato a combattere, a difendersi e a massacrare a sua volta con le mani, con i piedi, con i sassi, con le fionde, con i bastoni.
Fissò l’uomo negli occhi e mentre una vampata d’odio e di rabbia gli riscaldava il sangue, gli sferrò un tremendo calcio in uno stinco con i suoi zoccoli di legno. Questi lasciò immediatamente il ragazzo con un urlo di dolore, e si piegò su se stesso. Poi, zoppicando, cercò di inseguirlo. Ma era come se una tartaruga volesse raggiungere una lepre, Gigio lo distanziò con estrema facilità e ben presto scomparve in lontananza.
Ti potrebbero interessare anche:
Io sono niente - Laura Radiconcini
Un giovane paracadutista americano, Matthew, si ritrova cata...
Il cannone di Orban e la caduta di Costantinopoli
La caduta di Costantinopoli, il 29 maggio 1453, segna la fin...
Linea Gotica. L’attacco. Agosto-ottobre 1944 - Massimo Turchi
«È una storia di piani di guerra ma anche di strategie di ...
L’ozio coatto. Storia sociale del campo di concentramento fascista di Casoli (1940-1944) - Giuseppe ...
Presentazione del libro "L’ozio coatto. Storia sociale del...
THE SECRET - urban game medioevale
THE SECRET è un urban game di ambientazione medioevale, in...
L'ECCIDIO DELLA COLONNA GAMUCCI - Storia dei Carabinieri Reali in Albania comandati dal Colonnello G...
Antonio Magagnino è nato nel 1962 a Matino, un grazioso paes...