Nel 1900 Giacomo Puccini assiste a Londra a uno spettacolo teatrale tratto dalla novella “Madam Butterfly” dell’americano John Luther Long, e ne rimane affascinato. Che magnifica idea per un’opera di successo! Ne commissiona il libretto a Illica e Giacosa, che ha già messo alla prova con Manon Lescaut, la Bohème e Tosca.

Non è solo Puccini a rimanere affascinato: il Giappone è di moda in tutta Europa, soprattutto in Francia. Le stampe ukiyo-e, scene di vita quotidiana a colori piatti senza chiaroscuro, hanno ispirato le opere di Van Gogh, Monet, Degas, Renoir e altri impressionisti. La tappezzeria dei salotti è in stile giapponese, le signore eleganti indossano kimono. Il romanzo di Pierre Loti “Madame Chrysanthème” ha avuto innumerevoli ristampe.

Quel lontano paese, rimasto precluso così a lungo e che da pochi anni si è finalmente aperto agli stranieri, agli occhi dell’occidente ha il fascino di un mondo alieno.

Puccini si appassiona al nuovo lavoro, studia musica giapponese, raccoglie tutte le informazioni che riesce a scovare. Tortura i librettisti con infiniti rifacimenti. Finalmente, il 17 febbraio 1904 la “Madama Butterfly” esordisce alla Scala.

Manifesto dell’opera Madama Butterfly

È un fiasco colossale. Ecco come lo descrive Rosina Storchio, la soprano che interpreta Butterfly:

“È al secondo atto che si aprono le cataratte, che avviene il linciaggio. Ecco Suzuki, accoccolata davanti all’immagine del Buddha, batte il gong e prega che Pinkerton arrivi. Io ritta e immobile presso il paravento la investo, le impongo di aver fede. Sono sicura che egli tornerà, che stringerà al seno la creatura nata dal nostro amore. Porto il piccino a dormire. Nell’uscire un colpo di vento gonfia il kimono. Il pubblico sghignazza. Una voce grida: Butterfly é ancora incinta di Pinkerton. Gli occhi mi si riempiono di lacrime disperate… la romanza ‘Un bel dì vedremo’ viene accolta al finale da proteste. Forse io stessa non ero più padrona della mia voce? Eppure so che non era possibile cantare il brano con maggiore espressione…”

Insomma, un disastro. Il pubblico accoglie il coro a bocca chiusa, accompagnato dal cinguettio degli uccellini, con “latrati di cani, chicchirichì di galli, ragli d’asino, boati di mucche, come se in quell’alba giapponese si risvegliasse l’arca di Noè”.

Sulle ragioni di questo fiasco torneremo in seguito, e sul perché pochi mesi dopo l’opera ottenga a Brescia un successo trionfale. Farà della giovanissima geisha l’emblema dell’amore sbagliato, dove uno prende le decisioni e l’altro non conta nulla: un archetipo che affonda le radici in miti classici come Enea e Didone, o Giasone e Medea.

La Butterfly però è una storia ambientata in un mondo reale. Molti si sono chiesti se si tratti di una storia vera, o quantomeno verosimile nel Giappone di quel periodo. La povera Chocho san (Signorina Farfalla) è una figura di sogno, oppure è esistita davvero?

Il libretto dell’opera, che Puccini sfronda in modo radicale allo scopo di concentrare tutta l’attenzione sui sentimenti della protagonista, non può rispondere a questa domanda. Qualche indizio in più si trova nella novella di John Luther Long, e la chiave in “Madame Chrysanthème“. Ma partiamo per un viaggio verso il Giappone del 19′ secolo!

Proprio come nella Butterfly, tutto ha inizio con una nave americana. Anzi, quattro navi: quelle del  Commodoro Matthew C. Perry, che nel 1853 gettano l’ancora nella baia di Edo (in seguito chiamata Tokyo) e puntato i cannoni contro il palazzo dello Shogun, intimandogli di aprire il paese agli stranieri.

Giovane samurai dell’era Meiji

Ciò provoca sconvolgimenti interni culminati nella guerra Boshin (1868-69) al termine della quale il 122′ imperatore, Mutsuhito, riprende il potere dopo quasi tre secoli di dominio degli Shogun. È l’inizio di una nuova era chiamata Meiji, ossia del “governo illuminato”.

Il giovane imperatore si circonda di un gruppo di consiglieri che avvia riforme radicali. La società viene riorganizzata con l’abolizione dei feudi e delle caste, l’istituzione di una rete ferroviaria, dell’istruzione obbligatoria e di un esercito di leva. Pochi anni dopo ai samurai viene vietato di portare le spade: è loro imposto di tagliare la crocchia di capelli raccolti sulla sommità della testa, simbolo della loro condizione. E tutto questo, per alcuni di loro è troppo. Non è questo il Giappone che volevano costruire.

Alcuni tra i samurai che avevano capeggiato la restaurazione del potere imperiale si ribellano. Il loro capo è Saigo Takamori (il Kusamoto del film ‘L’ultimo samurai’) che capeggia la rivolta di Satsuma, repressa in modo sanguinoso nel 1877.

Qui la novella di Long fornisce una prima traccia della Butterfly “storica” informandoci del fatto che il padre della ragazza ha trovato la morte proprio nella ribellione di Satsuma. Butterfly ha 15 anni quando sposa Pinkerton, per cui il matrimonio (a seconda dell’età che aveva la ragazza quando le è morto il padre) si deve collocare in un periodo compreso tra 1878 e 1892.

Ken Watanabe impersona Kasumoto (Saigo Takamori) nel film L’ultimo samurai

È verosimile che le famiglie di samurai rimasti uccisi, o impoveriti dagli sconvolgimenti dell’epoca Meiji, arrivino a vendere le proprie figlie agli stranieri?

Sembra di sì. Negli stessi anni della Butterfly si svolge la vicenda, del tutto reale, di Madame Chrysanthème (prima edizione 1887).

Il Giappone è già molto cambiato da quando gli Shogun hanno smesso di esercitare il loro rigido controllo sul paese. L’ostilità verso gli stranieri, che all’inizio aveva provocato sanguinose aggressioni, serpeggia ancora ma si mescola alla curiosità. Ormai sta diventando normale incrociare per strada qualche gaijin (gente di fuori): missionari, ufficiali di marina, o civili chiamati dal Governo per mettere le loro capacità tecniche al servizio della modernizzazione.

Uno di questi è l’italiano Edoardo Chiossone, un incisore ligure ingaggiato per realizzare le prime banconote imperiali e i primi francobolli. Portati a termine i suoi incarichi (tra cui c’è quello di eseguire un ritratto dell’imperatore, cosa inaudita in un paese che lo considera un dio!) Chiossone riempie due navi di oggetti antichi e le spedisce a Genova. Statue, oggetti di bronzo, armature da samurai, stampe ukiyo-e, donati alla città alla morte di Chiossone, si possono ammirare oggi nell’omonimo museo.

Ritratto dell’imperatore Meiji eseguito da Edoardo Chiossone

Mettersi in pari con il mondo moderno vuol dire infatti, nell’era Meiji, buttare via il passato. C’è chi arriva ad abbattere i secolari alberi di ciliegio da fiore, considerati simbolo di arretratezza. Quando lo shintō è proclamato religione di stato, antichi templi buddhisti vengono saccheggiati e le preziose statue lignee sono date alle fiamme.

Disfarsi degli oggetti antichi può essere anche una scelta forzata. I samurai che non sono riusciti a inserirsi nelle posizioni chiave del nuovo sistema, per vivere sono costretti a vendere i loro beni più preziosi: spade, oggetti laccati, ventagli, e questi oggetti finiscono sul mercato delle ‘giapponeserie’ per acquirenti stranieri. Porti come Nagasaki che si trasformano in immensi bazaar.

Tra i souvenir in vendita si trova di tutto: non solo oggetti, ma persone.

Il senso dell’onore, per i giapponesi non è legato al sesso come per gli occidentali. Non è molto diverso o più vergognoso vendere una figlia, piuttosto che una spada antica.

Mi sono sempre chiesta come mai Pinkerton, anziché frequentare bordelli come qualunque marinaio, si prenda la briga di sposare una ragazza giapponese, sia pure per finta.

La risposta si trova in “Madame Chrysanthème” di Pierre Loti. Un romanzo sottovalutato (pubblicato in Italia con il titolo di “Kiku san, la moglie giapponese”), ma che fornisce del Giappone era Meiji un’immagine del tutto vivida, per quanto “politicamente scorretta”.

A differenza da Illica o da Long, infatti, il caro Pierre a Nagasaki c’è stato, e si sente.

Il porto di Nagasaki nell’era Meiji

Ecco che cosa scrive riguardo alla sua decisione:

“Per noia, Dio mio, per solitudine, ero arrivato poco a poco a immaginare e desiderare questo matrimonio. Inoltre e soprattutto, l’idea di vivere per un po’ sulla terraferma, in un posto ombreggiato, fra alberi e fiori era molto allettante, dopo i mesi di vita sprecati alle Pescadores che sono isole calde e ostili, senza vegetazione, senza ruscelli, con l’odore della Cina e della morte.”

Detto, fatto. Appena messo piede a terra prende contatti con un sensale, che in mezza giornata gli procura una moglie.

Dapprima gli viene proposta una ragazza giovanissima, poco più che una bambina. A differenza da Pinkerton, tuttavia, Pierre non è pedofilo e la rifiuta. Addita una ragazza che se ne sta in disparte “con il broncio da annoiata e anche un po’ di disdegno, come pentita di essere venuta a uno spettacolo che non è per nulla divertente.” Un po’ più matura, già quasi donna. Voglio quella, dice puntando il dito su di lei. Si chiama Kiku, cioè crisantemo.

Il turismo sessuale non è nato nelle sale da massaggio di Pattaya e Phuket.

Kiku san è una lettura affascinante, che consiglio a chiunque abbia interesse per il Giappone. Malgrado il suo disprezzo colonialista, Pierre finisce infatti per lasciar trasparire dalle pagine un amore negato verso l’ambiente in cui si trova a vivere, un intenerimento che si rifiuta di riconoscere. E anche una briciola di affetto per la sua “bambola”, come chiama Kiku, che dev’essere di famiglia samurai visto che un giorno lo conduce a vederla tirare con l’arco. Perfino il cinico gaijin ne è affascinato.

Alla fine, quando la nave sta per partire e va a salutare Kiku per l’ultima volta, la troverà che fa tintinnare gioiosa le monete con le quali lui l’ha pagata per quei mesi di “matrimonio”.

Pierre ne è contento, gli sarebbe spiaciuto che la ragazza l’avesse presa male. Si separano da amici, e anche se forse lui non rimpiangerà la sua casa e la moglie temporanea, lascia al mondo pagine indimenticabili, colme di emozioni.

È razzista, certo. Come lo sono gli inglesi in India o gli italiani in Africa Orientale. Come il pubblico della Scala, che fischia e sghignazza sulla morte di una piccola giapponese. Cosa che non avrebbe fatto di fronte alla morte di una Manon o una Mimì.

Giovani geisha dell’era Meiji

Il suicidio di Butterfly non è la sola conclusione possibile di una vicenda come quella. Nella versione di Long, alla fine la ragazza non ha il coraggio di premere il pugnale a fondo: la fedele Suzuki si precipita a tamponare la ferita e riesce a salvarla.

Solo Puccini ha l’obbligo di farla fuori, per rimanere in linea con i successi precedenti e con i gusti del pubblico. Per compiacere i quali, nella versione dell’opera presentata a Brescia inserisce l’aria “Addio fiorito asil”, che nella prima non c’era: e il pentimento di Pinkerton, per quanto tardivo, riscuote applausi a scena aperta. Che bravo, s’è perfino degnato di abbracciare la sua sposa bambina con la gola tagliata. Come è umano lei.

In conclusione, i matrimoni temporanei tra ragazze giapponesi e stranieri dovevano essere una realtà nella Nagasaki di fine Ottocento e a seconda del carattere della ragazza oppure dell’età, potevano finire in tragedia o in commedia. Mentre la smaliziata Kiku non crede fin dall’inizio nella profondità dei sentimenti di Pierre, l’ingenua Chocho  ripone in Pinkerton una fiducia cieca.

Uno tra gli aspetti più commoventi della novella di Long è che la ragazza ride quando il marito definisce i suoi parenti “back numbers”: anacronismi, numeri arretrati. Sono anch’io un bag number? gli chiede nel suo inglese approssimativo. No, risponde lui, tu sei “up-to-date”, il perfezionamento americano di un prodotto giapponese. Che bastardo!

Vorrei saperne di più. Mi piacerebbe passeggiare per le stradine di Higashi Yama in cerca della casetta di Butterfly, o arrampicarmi sulle falde della montagna sul sentiero sassoso che Pierre risale nella notte con la sua Kiku, rischiarando il cammino con lanterne di carta acquistate al chioschetto ai piedi della salita.

Non si può più.

Nagasaki dopo l’atomica

Il 9 agosto 1945 l’ordigno chiamato Fat Man, una bomba atomica da 25 chilotoni viene sganciato su Nagasaki da un aereo americano. Il suo bersaglio è la produzione militare della Mitsubishi. Ma fa sparire dalla faccia della terra colline e sentieri, case da the, laghetti con le carpe ornamentali, templi e mercati. Oltre a qualcosa come 60.000 vite umane. Bambini, piccole musume con la chioma nerissima ornata di pendagli a fiore, vecchietti che disegnano cicogne con l’inchiostro di china, guidatori di risciò. Insomma, tutto un mondo.

“Hiroshima, Hiroshima Nagasaki, naku na, naku na” dice il ritornello di una tra le mie canzoni giapponesi preferite. Non piangere, non piangere.

 


2 commenti

  1. Splendido l’articolo di Grazia Maria Francese, che apprezzo anche come autrice di documentatissimi e avvincenti romanzi storici.

    1. Grazie. Grazia Maria è infatti una persona preparatissima in materia di Giappone, oltre che a essere una bravissima autrice, ed è un piacere poter ospitare i suoi approfondimenti.

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