La storia dei Templari è da sempre un argomento controverso sia tra gli appassionati che tra gli addetti ai lavori. Storie di Storia, per fornire un quandro più completo possibile, ospita oggi un articolo a cura di Michele Allegri sulle accuse che portarono alla condanna del famoso Ordine e che si muove in maniera diametralmente opposta agli articoli di Sergio Bertoni prededentemente pubblicati.
Per conoscere la vera storia dei Templari non si può prescindere da uno studio rigoroso dei documenti storici.
Ed è proprio analizzando questi incartamenti che risulta chiaro l’esistenza di una dottrina segreta, con ogni probabilità sviluppatasi in contemporanea alla nascita della Milizia nel lontano 1118. Tutto ciò ci deve spingere a pensare che in questa Istituzione cavalleresca la deviazione dall’originale dottrina cattolica, a cui la Regola ufficiale dei Templari si uniformava sin dal 1128, sia stata portata dai nobili fondatori dell’Ordine.
Infatti è bene non dimenticare che in quell’epoca le distinzioni sociali erano di primaria importanza ed erano fondate sul sangue, anche all’interno dell’Ordine templare. C’erano infatti i nobili, principi, duchi, conti e baroni, con le loro casate blasonate, con la loro legittimazione dinastica, e poi c’erano i cavalieri, i combattenti, spesso con un passato burrascoso alle spalle. I capi dell’Ordine furono sempre “di sangue blu”, imparentati con questa o quella casa regnante d’Europa, anche se si può ben dire che i Templari agirono sempre per il loro interesse che non sempre coincideva con quello delle casate europee o della Santa Sede, in quel tempo impegnate in un’aspra lotta contro “gli infedeli” mussulmani. Come non ricordare a proposito le parole di Federico II, imperatore del Sacro Romano Impero e re di Gerusalemme, “ cresciuti tra le delizie dei baroni d’Oriente, I templari, pieni di orgoglio, hanno ricevuto in pompa magna nell’Ordine diversi sultani..”.
In Inghilterra, come in altre parti d’Europa, presso quei popoli, i Templari non godevano di una grande nomea, forse per la loro attività bancaria, in molti casi, usuraia. Alcuni detti popolari, quali “bere come un templare” o “state in guardia dal bacio dei Templari” erano di uso comune e manifestavano questo distacco dalla gente.
Dei processi che si svolsero dopo l’arresto dei Templari nel 1307 in Francia, conosciamo bene quello di Carcassonne e quello di Firenze. Leggendo i verbali degli interrogatori di entrambi i processi, si evidenzia uno stesso tipo di “dottrina segreta”, occultata dietro la religione ufficiale, quella cattolica, e prescritta da alcuni Statuti in vigore all’interno dell’Ordine che non sono mai stati però ritrovati.
E’ bene ricordare che, ad eccezione del documento di Chinon del 1308, ritrovato nell’Archivio Segreto vaticano nel 2001, e del quale si è data un’interpretazione assolutamente fuorviante, presso la Santa Sede non vi sono gli atti del processo ai Templari del 1307 ma solo un’inchiesta fatta dall’arcivescovo di Pisa e da quello di Firenze del 1310 che contiene 26 fogli. Poi ci sono dieci rotoli delle diverse inchieste fatte sui Templari per ordine di Papa Clemente nell’isola di Cipro, nel ducato di Urbino e in diverse città francesi e italiane.
Nelle carte del processo fiorentino, e solo in quello, si trova il nome dell’idolo adorato dai Templari, definito dai cavalieri nelle loro dichiarazioni spontanee con il termine di Magunet.
Molti furono i crimini imputati ai Templari ai quali tentarono di dare una risposta i domenicani della Santa Inquisizione e i commissari speciali voluti da papa Clemente V° il quale, è bene ricordare, nella bolla di scioglimento dell’Ordine, nel 1312, scrisse “alcuni dei Templari hanno confessato altri crimini orribili ed osceni su cui per ora taceremo”. Oltre infatti a quelli noti, di cui parlerò in seguito, non si seppe mai di quali altri “crimini” erano stati imputati i Templari.
A questo punto quindi non rimane che fare un focus sulle confessioni dei Templari, alcune estorte sotto tortura, per esempio a Parigi, come era uso fare per gli eretici, altre, invece, senza l’ausilio di essa, come per esempio avvenne a Poitiers, a Firenze, a Carcassonne, in Sicilia, a Brindisi, a Ravenna, a Pisa, in Inghilterra o in Germania.
La verità storica che emerge nella comparazione di tutti questi verbali ci dimostra che i cavalieri raccontavano quasi le stesse cose sia che fossero stati posti sotto tortura o no. Parlarono delle iniziazioni notturne fatte a porte chiuse dove si svolgevano dei riti dei quali nessuno avrebbe dovuto parlare al di fuori dell’Ordine, pena la morte. I contenuti di quei riti riguardavano l’insulto alla figura di Gesù e alla croce, simbolo del cristianesimo, una serie di “baci osceni”, l’adorazione di un idolo considerato l’immagine del vero Salvatore, l’omissione delle parole sacramentali durante la messa, il diritto del Gran Maestro di concedere l’assoluzione per i peccati (secondo gli articoli 107 e 108 dell’atto di accusa francese, confermato nel processo di Firenze), l’autorizzazione di crimini contro natura.
L’indagine svolta fece emergere che tali pratiche erano contemplate in uno Statuto dell’Ordine che il cavaliere Gèrard De Caus dichiarò “non a disposizione dei fratelli”.
A Firenze il primo testimone affermò che l’adorazione dell’idolo era un rituale osservato nell’intero Ordine e che c’erano idoli in tutte le sale capitolari. In Francia il 104° testimone, Raynal De Bergeron, disse ai commissari pontifici che lo svolgimento di queste pratiche erano comandate dall’alto in quanto precetto. Gerard De La Roche, 106° testimone dichiarò che chi si rifiutava di svolgere queste pratiche di rinnegamento della figura di Gesù o non voleva sputare sulla croce, veniva picchiato o incarcerato, nella migliori delle ipotesi. Il Templare Gervais de Beauvais, rettore della casa del Tempio di Laon, disse che nella sala capitolare c’era una cosa così segreta (quidum punctus adeo secretus) che per sua sfortuna qualcuno l’avesse per caso vista, bisognava ucciderlo, anche se fosse stato il re di Francia. Aggiunse che c’era un libricino segreto che non avrebbe consentito mostrare a nessuno al mondo.
A questo punto appare chiaro che vi era una “dottrina segreta” non divulgabile al di fuori dell’Ordine perché chiaramente “eretica”.
Fulcro di questa “dottrina segreta”, in base a questa testimonianze processuali, è una sorta di rozzo dualismo, la considerazione per i Templari, almeno per i capi dell’Ordine, la cui visione era imposta poi ai subordinati, che vi erano due divinità distinte ma legate tra di loro.
Il Templare Jean de Sarnage a questo proposito, rendendo testimonianza disse che “come recitavano gli Statuti dell’Ordine, non bisognava credere in Gesù perché era stato un falso profeta, senza alcun potere di salvezza ed invece bisognava credere ad un Dio Superiore, quello che sta nei cieli.” La stessa affermazione la fece Foulques de Troyes il quale aggiunse che “non bisognava dare attenzione a Gesù in quanto troppo giovane”.
Contemporaneamente a questa considerazione per il “Dio che sta in cielo” i frati-anziani spiegavano ai giovani l’importanza che un particolare idolo aveva per l’Ordine, definito nella deposizione del cavaliere Raoul De Gisy col termine Maufe, cioè demone. Secondo Pierre de Moncade, “l’idolo era un demone dell’inferno”, mentre per Jean de Cassaignes, il cavaliere che fu interrogato nel processo di Carcassonne, “era il principe del mondo”. Quest’ultimo aggiunse che durante la sua iniziazione gli venne detto che questo idolo di bronzo, di forma umana, rivestito di una sorta di dalmatica “è amico di Dio, che dialoga con Dio e che bisogna rendergli grazie per il bene che fa e per i desideri che esaudisce”. L’idolo infatti veniva considerato come il protettore dell’Ordine, un benefattore che poteva arricchire la Milizia, far “fiorire gli alberi e germogliare la terra”, come disse Bernardo da Parma nel processo di Firenze. Deposizione confermata poi da Jacopo da Pigazzano e da Nicolas Règinus che aggiunsero che all’idolo ci si rivolgeva con rispetto, con la seguente formula “Deus adjuva me”.
La definizione di quale fosse la forma dell’idolo però trova tanti punti discordanti tra le varie deposizione dei cavalieri.
Jean Taillefer de Gene, entrato nel Priorato di Mormant, per esempio disse di aver visto “un idolo posato sull’altare che era di colore rossastro”. Raynier de Larchant della diocesi di Sens lo descrisse come “una testa barbuta terrificante che tutti baciavano e veneravano come loro Salvatore”. Anche per Hugues de Bure l’idolo era una testa, “ la testa veniva tirata fuori da un contenitore che si trovava nella cappella, era una testa molto pallida e scolorita” . Raul De Gisy, precettore della provincia della Champagne, davanti ai commissari del papa, confessò che l’aveva vista in sette capitoli tenuta in mano da Hugues de Pairaud e che veniva da lui mostrata. Tutti i fratelli dovevano gettarsi a terra per adorarla ed aveva un aspetto terribile. Lo stesso Hugues de Pairaud interrogato sull’accaduto confermò che l’idolo lo aveva visto per la prima volta a Montpellier , che l’aveva adorato e toccato e che a sua volta lui l’aveva consegnato nella mani di Pierre Allemandi. In questo caso, l’Idolo aveva quattro piedi due davanti e due dietro.
Durante queste cerimonie di adorazione dell’idolo, la figura di Gesù Cristo e il simbolo della croce venivano entrambi disprezzati ed oltraggiati. Questo dimostra che l’idolo non può essere il mitico sudario in cui fu avvolto il corpo di Gesù, la cosiddetta Sacra Sindone.
Di Gesù si diceva infatti che era un “ladrone, crocifisso per i suoi peccati”, un “falso profeta”, nella deposizione del cavaliere Guido De Ciccica, nel processo di Firenze.
Sempre a Firenze, alcuni cavalieri affermarono che due grandi precettori dell’Ordine, Guglielmo di Novi e Giacomo di Montecucco, durante un capitolo a Bologna, dissero che “Gesù non era Dio, che non era morto per la salvezza delle anime e che bisogna aspettarsi la salvezza solo da una certa testa posta nella sala capitolare dove duecento e passa frati-templari s’inginocchiavano davanti ad esso”.
Nel processo siciliano, il templare francese Galcernd de Teus, davanti ai delegati del Papa, affermò che le parole d’assoluzione che i capi facevano al termine dei Capitoli era “ Prego Dio che perdoni i nostri peccati come li perdonò a Maria Maddalena e al ladrone che fu messo in croce”, aggiungendo “ il ladrone di cui si parla nel capitolo, secondo i nostri statuti è tal Gesù o Cristo che fu crocifisso dagli ebrei perché non era il vero Dio e perché si definiva anche re dei giudei, il che è un oltraggio al vero dio che sta in cielo. Longino gli trafisse il costato e subito dopo Gesù si pentì di essersi definito Dio e chiese perdono”.
In base alle spiegazioni che venivano fornite dai frati-anziani, delle quali non conosciamo le fonti storiche, e in base agli Statuti dell’Ordine, era obbligo poi sputare tre volte sul crocifisso rivolgendo ad esso parole di odio soprattutto durante il Venerdì santo, calpestandolo con acrimonia, come confessarono il cavaliere Gerard De Passage e fra’ Gandulfo da Firenze, detto l’impudico, il quale aggiunse che in seguito a tale atto si sprigionava per il cavaliere una forza fuori dal comune.
Fra’Pierre des Vaux de Cernay riguardo al rito di disprezzo nei confronti di Gesù disse “si diceva che il Cristo, nato a Betlemme e che è stato crocifisso a Gerusalemme, era un malfattore, che Maria Maddalena, sua concubina era stata sorpresa in adulterio…” Nell’articolo 14 dell’inchiesta romana contro i Templari ci si spinse oltre, si affermò che i cavalieri adorassero un gatto durante le loro assemblee e ciò venne confermato nel processo francese dalle deposizioni di Gaufred de Thatan, Beranrd de Selgues, Bertrand de Silva, Jean de Nèriton. Quest’ultimo parlò di un gatto dal pelo grigio e pomellato e i fratelli presenti si tolsero il cappuccio chinando la testa davanti ad esso. Stessa cosa fu ripetuta al processo di Firenze con le seguenti parole latine “ Et dixit quod vidit dictum catum stantem in dicto capitulo per oram, et posteà evanuit”.
Per frate Egidius l’idolo invece aveva un volto cadaverico con capelli crepi e alcune dorature sul collo e su una parte delle spalle.
Solo in alcuni casi si hanno delle deposizioni che riguardano il nome dell’idolo chiamato Bafomett. Gli inquisitori dell’epoca scartarono subito l’ipotesi che quell’enigmatico nome dell’idolo si riferisse ad una storpiatura del nome del profeta Maometto, ragionando sul fatto che i mussulmani non adorano il fondatore della loro religione né lo invocano per ottenere speciali benefici né tantomeno tra loro c’è il culto delle immagini.
Si aggiunse un altro punto controverso: i cavalieri, dopo aver adorato l’idolo, erano usi cingerlo con una cordicella con la quale poi si avvolgevano il corpo nudo, come disse per esempio Pierre de Bonfond. Nel processo fiorentino saltò fuori che le cordicelle venivano custodite in alcuni cofanetti che viaggiavano con i templari. Un deposito venne individuato nella casa del Tempio di Voulaines. C’erano anche idoli bafometici, di piccola dimensione, di rame, sotto forma di ciondolo. I luoghi dove stavano questi depositi vennero chiamati, ancora una volta, stranamente, con i termini di Baphomeria, Mahomeria, Momeria.
A conclusione di questo rito, era obbligo degli iniziati dare alcuni baci al fratello anziano, in bocca, sull’ombelico e sul sedere, sopra o sotto le vesti, a seconda dei casi.
Questi baci era accompagnati anche da l’ordine di “accoppiarsi con i fratelli e di sopportare pazientemente chi volesse farlo”. Veniva poi loro detto che ciò serviva a resistere alle tentazioni di “andare con le donne e per sopportare il calore delle terre oltremarine..”
Due parole finali sul documento di Chinon del 1308. Occorre dire che non smentisce affatto le altri parti documentate dei vari processi che furono fatti ai Templari.
In quel frangente di tempo è vero che papa Clemente V° assolse i capi dell’Ordine ma solo dopo che questi avevano chiesto perdono per aver praticato quei riti blasfemi di cui si parlava nei vari processi, il che ci dice che le accuse non furono create a tavolino dal re francese, tanto più che i beni dell’Ordine, come stabilito dal papa con la Bolla Ad Providam, non andarono nelle casse del Regno di Francia bensì in quelle dell’Ordine di San Giovanni (attuale SMOM).
C’è da aggiungere infine che quattro anni dopo la produzione di quel documento, precisamente nel 1312, anche per il proseguo delle inchieste che apportavano nuove accuse di crimini dei quali non si era ancora parlato, il pontefice, sponte sua, decise di sopprimere l’Ordine, con tanto di Bolla, in maniera perpetua, di autorità e senza una sentenza definitiva, scomunicando quanti avessero ancora indossato l’abito templare.
In quanto relapsi, cioè ricaduti nel reato di eresia, poiché i capi dell’Ordine, primo fra tutti Jacques De Molay, avevano ritratto le loro confessioni, e quindi di fatto si erano rimangiati pure le scuse date al pontefice, vennero bruciati sul rogo in pubblica piazza per ordine del re cristianissimo Filippo IV° il Bello, il 18 marzo del 1314.