I falsi strumenti di tortura che tutti credono veri

Tenaglie che strappano le unghie o i capelli, lame che lacerano le carni e i tendini, le urla di dolore dei prigionieri in bui sotterranei: questa è, nell’immaginario popolare, la descrizione di ciò che fu l’Inquisizione, il tribunale ecclesiastico deputato a giudicare e condannare streghe ed eretici. È tuttora in voga l‘opinione che detta istituzione sia stata in assoluto il tribunale più crudele nella storia dell’uomo. Grazie al cospicuo impegno e al massiccio contributo degli storici, si è giunti a rivalutare notevolmente fenomeno inquisitorio che colpì streghe ed eretici, oltre che a ribadire i numerosi luoghi comuni inerenti all’argomento.
Sull’Inquisizione circolano numerose leggende e luoghi comuni; tra questi l’idea che si facesse uso di arnesi e marchingegni a dir poco infernali progettati per infliggere dolore ed estorcere confessioni. In questo articolo analizzeremo proprio quest’ultimo luogo comune, fornendo anche una sintesi sul reale impiego dei mezzi di tortura nei tribunali ecclesiastici in età tardo-medievale e nell’età moderna.

 

La sedia chiodata

 

LA TORTURA

La pratica della tortura giudiziaria ha una storia ben più antica di quella dell’Inquisizione: già gli antichi Romani usavano sottoporre a supplizio imputati e testimoni considerati reticenti: tale supplizio però non poteva essere inflitto a cittadini romani, ma solo agli stranieri e agli schiavi.
Prima che i pontefici cattolici istituissero il primo tribunale ecclesiastico deputato a decidere sulle accuse di eresia, il potere secolare faceva già ampio uso della tortura. L’Inquisizione c.d. medievale, ai suoi albori (1200 circa), non era legittimata a fare uso di tali mezzi. Secoli prima, più precisamente nel 886, papa Nicola I aveva dichiarato che la tortura non era ammessa né secondo le leggi dell’uomo, né secondo quelle di Dio. Bisognerà attendere il 1252 prima che Innocenzo IV, con la bolla Ad extirpanda, autorizzi l’uso della tortura giudiziaria. Non si deve ritenere che l‘uso della tortura fosse tuttavia arbitrario: come ogni fase del processo inquisitorio, anche la tortura era sottoposta a severe regole; ad esempio essa non poteva essere usata su anziani, bambini, malati e donne incinte. Il ricorso alla tortura non era nemmeno indiscriminato: la tortura veniva normalmente impiegata quando vi fosse il fondato sospetto che l’inquisito o i testimoni mentissero. Talvolta era sufficiente prospettare al teste o all’inquisito la sola possibilità che egli fosse sottoposto a tortura per indurre ad una confessione che comunque, non aveva un valore effettivo se non veniva poi riconfermata dallo stesso soggetto pubblicamente e senza l’incombenza della medesima minaccia.
Da dove viene dunque la concezione di un’Inquisizione spietata e del tutto priva di un briciolo di assennatezza? Lo storico Alessandro Barbero ci racconta che l’immagine (che lo stesso definisce “pornografica”) di un tribunale ecclesiastico in cui i giudici si divertono a torturare la gente proviene dalla propaganda protestante del ‘500: lungi dal voler fare del revisionismo, possiamo affermare con sicurezza che si tratta di un’immagine, anche solo parzialmente, distorta del dato storico.

 

Inquisitori e avvenenti fanciulle: l’Inquisizione nell’immaginario pornografico del ‘500

 

I FALSI NEI MUSEI

Molto tempo prima di fare ricerche sull’Inquisizione non dubitavo dell’autenticità degli strumenti presenti nei musei, tuttavia facevo scorrere lo sguardo su quegli arnesi e mi domandavo con una certa perplessità “come facevano a sopravvivere una volta sottoposti a quelle torture”. La risposta che oggi ritengo più corretta è anche la più ovvia: non potevano. Nessuno dopo essere stato rinchiuso in una bara il cui interno era irto di punte avrebbe potuto sopravvivere a lungo: se per qualche miracolo non fosse morto sul posto, ci avrebbero pensato le infezioni a dargli la morte a distanza di breve tempo. Eppure un siffatto marchingegno, per quanto efficace nell’infliggere dolore, risulta in totale contraddizione con la finalità stessa della tortura giudiziaria, cioè ottenere una confessione, o anche solo accertarsi seppur con metodi crudi che il soggetto non menta.
Ciò basta ad ingenerare il sospetto che certi arnesi fossero effettivamente utilizzati.
L’unanimità degli storici, ad oggi, conferma l’assoluta fondatezza di detto sospetto: nemmeno nei manuali utilizzati dagli inquisitori si trova il minimo riferimento a quelle macchine di morte che vediamo esposte nei musei.
Lo storico Franco Cardini, nel corso di un’intervista rilasciata per il Corriere Fiorentino ha dichiarato: “Esistono musei della tortura in varie parti d’Italia (…). Ho spesso inoltrato denunzie e segnalazioni agli assessorati cittadini perché li considero autentici baracconi che spesso espongono falsi o che manipolano gravemente la storia.”
I mezzi e sistemi realmente utilizzati all’epoca dell’Inquisizione (il più comune era quello dei c.d. “tratti di corda”), erano certamente efficaci nell’infliggere dolore, tuttavia non prevedevano spargimenti di sangue e se usati con moderazione non ledevano l’integrità corporea della vittima (i casi certificati di decesso sotto tortura sono assai sporadici).
Ma chi e perché avrebbe realizzato la burla? Il già citato Barbero ci informa che i falsi strumenti di tortura sono stati realizzati da falsari del Sette-Ottocento: i collezionisti pagavano fior di denari pur di portarsi a casa cimeli dei “secoli bui” e i falsari li accontentavano.

 

La culla di Giuda

 

ANALISI DEI FALSI

Per concludere, qui di seguito vi propongo un’analisi sintetica dei falsi più diffusi e famosi.

La forcella: una sorta di collare con un’asta che aveva due punte alle estremità e avrebbe costretto l’eretico a tenere il mento sollevato.

La sedia chiodata: immancabile gemella della Vergine di Norimberga; una sedia con lo schienale, il sedile e i braccioli irti di punte.

La vergine di Norimberga
La vergine di Norimberga

La culla di Giuda: attrezzo in legno di forma piramidale che sarebbe servito per penetrare l’orifizio del malcapitato.

La pera: congegno meccanico che, infilato negli orifizi delle vittime, veniva aperto causando gravi strappi e lacerazioni. Pare invece che sia stata inventata da un ladro del Seicento, tale Palioli di Tolosa, per impedire alle vittime di rapina di gridare.

La sega: non so dire, sinceramente, se un’esemplare di questo strumento sia esposto in qualche museo, ma quel che è certo è che si tratta di una delle immagini più presenti sui libri e sugli articoli che trattano di inquisizione: quella dell’uomo segato in due… in realtà non è altro che una raffigurazione del martirio del profeta Isaia!

La cintura di castità: non propriamente uno strumento di tortura, ma comunque uno strumento di oppressione molto noto. Anche questo è un falso; pare però che alcuni esemplari di cintura siano stati effettivamente progettati nell’Ottocento inglese come meccanismi antistupro.

La tortura del topo: il roditore veniva inserito in uno degli orifizi del malcapitato che poi veniva cucito; a quel punto la bestiola cercava di uscire scavandosi un passaggio nel corpo della vittima. Una variante vuole invece che la gabbia con l’animale venisse appoggiata sull’addome della vittima che veniva morsa. Sicuramente si tratta della tortura più fantasiosa.

Ragni spagnoli: arnesi il cui uso è attribuito all’Inquisizione spagnola, si sarebbe trattato di pinze con cui il condannato veniva arpionato per le natiche o per le parti intime e poi sollevato per mezzo di argani.

La Vergine di Norimberga: forse la “regina” degli strumenti di tortura; anch’essa però falsa come tutti gli altri. La prima citazione di tale strumento è di fine Settecento e gli esemplari in nostro possesso sono stati fabbricati tutti successivamente a tale data.

 

Pera rettale

 

ARTICOLI CORRELATI:

“L’inquisizione: tra leggenda nera e realtà storica” di Luca Capovaro Varinelli, disponibile sul sito Storie di Storia (storiedistoria.com)

 

LETTURE CONSIGLIATE:

“Che tortura quei musei!” Articolo del Corriere Fiorentino del 10.10.2012

 

VIDEO CONSIGLIATI:

“Le ragioni del torto: il barbaro e il moderno” conferenza, relatore prof. Alessandro Barbero

“Il mito dell’Inquisizione spagnola”, documentario prodotto ed edito da BBC

 

4 commenti


  1. Buongiorno , ho letto il vostro resoconto ,lo trovo più fantasioso di chi ha inventato le macchine da tortura.
    Secondo voi chi era sottoposto a tortura poi doveva pure sopravvivere ,che film avete visto?

    1. Chiedo scusa, mi era sfuggito il commento, altrimenti avrei risposto prima.
      Sì, alla tortura si doveva sopravvivere perché era un mezzo per ottenere confessioni da presentare poi in tribunale durante il successivo processo.
      Per ulteriori approfondimenti sull’argomento, consiglio i nostri articoli sull’Inquisizione o quelli su Zhistorica.
      Saluti.

  2. per la culla di Giuda ci sono testimonianze scritte di condannati usciti vivi.
    Tommaso Campanella, processato più volte dall’Inquisizione; nell’ultimo processo, tenutosi nel 1600, Campanella subì il tormento della veglia per 40 ore. Come riporta dallo stesso Campanella nel Proemio all’Ateismo trionfato.

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