Eccoci giunti alla terza parte della storia a puntate narrata da Cecilio Stazio.
Terminato il concerto ci fu un applauso che mi restituì alla convivialità e, rasserenato per la mia decisione, così ben meditata, mi sentii più sciolto e conversai del più e del meno gironzolando e presentandomi qua e là, con quel tipo di mutamento d’umore che conosco laddove si risolva un nodo fondamentale delle mie riflessioni.
L’uomo affossato in poltrona venne avvicinato dalla signora distinta che per la prima mi aveva teso cordialmente la mano. Mi accostai in modo da udire la conversazione, spinto da un presentimento. L’uomo in poltrona l’accolse così, cito a memoria:
“Ah, la musica, quel che ci è dato sperimentare del trascendente!”
“Com’è vero!”
“Del resto, anche le piante reagiscono alla musica, mia gentile sconosciuta.”
“Sì, rimane da sapere se le piante, oltre a gradirla, abbiano anche delle preferenze”
“Questo non lo credo, amica mia, non lo credo. E lei, se fosse una pianta, che pianta sarebbe?”
“Se fossi una pianta? Orchidee bianche. Credo di aver trascorso anni a fissare le orchidee bianche. Tre vasi quadrati bianchi, ben allineati davanti alla porta che si affaccia al terrazzo d’inverno, e tre vasi quadrati bianchi ben allineati sul terrazzo d’estate. L’emblema della mia vita perfetta. Per avere una vita perfetta è necessario avere cura dei particolari, dei dettagli, essere rigorosi, non lasciarsi sviare o confondere, non lasciare che ciò che di brutto e malato c’è nel mondo possa contagiarci.
Io sono stata fortunata, io ho incontrato la medicina della mia vita: mio marito. Il fatto poi che sia un farmacista è una coincidenza che mi fa sorridere.
La nostra vita è sana e ordinata proprio come gli scaffali della sua farmacia, la nostra vita è perfetta, compiuta.
Lo conobbi ad una festa di studenti universitari. Per me, che avevo studiato alle Orsoline fino al diploma, quello era un mondo nuovo, da un lato esotico ed intrigante, fatto di alcolici e frasi sboccate, ma che in realtà sentivo non appartenermi nella sua superficialità. Chi mai avrebbe pensato di incontrare proprio in quell’ambiente un uomo tanto speciale… Qualche tempo dopo, quando condivisi con lui questo pensiero, con la sua saggezza mi rispose: “Anche Gesù andò a casa del ricco Epulone, come possiamo curare restando lontani dal malato?”
Appena si laureò ci sposammo, io abbandonai gli studi. Dopo qualche anno aprì una sua farmacia e dopo qualche anno ancora comprammo la casa dei nostri sogni: un salone doppio, una cucina grande, due bagni e tre camere da letto. I figli però non arrivarono mai, così una delle camere diventò la stanza degli hobby di mio marito e l’altra la stanza degli ospiti, ma siccome non abbiamo mai avuto ospiti, nell’armadio di quella stanza ho sempre tenuto gli abiti dismessi in attesa di donarli a qualche bisognoso.
Mi ci vollero anni per arredare la casa nel modo adeguato, non si ha idea di quanti dettagli si debbano curare per rendere una casa perfetta: oltre ai mobili, bisogna occuparsi dei quadri, dei vasi, delle lampade, delle tende, dei cuscini per i divani, dei piatti, dei bicchieri, delle posate, dei copriletto, degli asciugamani del bagno, delle piante… Le tre orchidee bianche furono il tocco finale.”
A questo punto l’uomo della poltrona, con maestria da prestigiatore, ma che non poteva sfuggire ai miei occhi puntati, trasse dalla tasca un fazzoletto bianco e finse di soffiarsi il naso, il realtà nascondendo tra le dita due piccoli tappi per orecchie che, con la scusa di grattarsi infilò velocemente in entrambe le orecchie, annuendo subito poi alla signora.
“Fu dopo il loro ingresso in casa che perfezionai la mia routine. La mattina sveglia alle 7,30 per preparare il caffè d’orzo e il pane tostato su cui spalmo un velo di marmellata biologica. Dopo colazione, mio marito si prepara e va in farmacia, io riassetto la cucina, faccio una doccia, mi vesto e mi trucco. Ultimamente mi sono accorta di indugiare un po’ più a lungo davanti allo specchio a fissare quelle linee che si sono formate sul mio viso tra il naso e la bocca, ma anche sulla fronte e sul collo e che sembrano tracciate con precisione da un aratro in miniatura. Poi vado in farmacia, dove cerco di rendermi utile sbrigando qualche piccolo affare burocratico e riordinando i documenti da portare al commercialista.
Per mezzogiorno torno a casa a preparare il pranzo, esco sempre un po’ prima di mio marito in
modo che lui trovi tutto già pronto. Durante il pranzo mi ragguaglia brevemente sullo stato di salute di alcuni clienti che gli stanno particolarmente a cuore, a volte mi accenna alcuni dettagli sulle loro vite personali, le persone si confidano con lui, sanno che si possono fidare e sanno che lui farebbe di tutto per aiutarli.
Dopo pranzo, mentre risistemo la cucina, lui si chiude nella stanza degli hobby, non so cosa faccia lì dentro, ma trovo giusto che abbia uno spazio tutto suo, privato, per tenere tutte quelle cose che probabilmente ad una donna non potrebbero mai interessare. Poi esce.
Due volte alla settimana seguo un corso di yoga che mi impegna gran parte del pomeriggio e nei restanti giorni viene Natasha, la ragazza albanese che mi aiuta nelle pulizie domestiche. Ma tutti i giorni, per le sei del pomeriggio, dopo aver preparato la cena e disposto la tavola con ogni cosa in ordine, prima di accendere le candele che dispongo sempre su un lato del tavolo alla sera, mi siedo sul divano accanto alla finestra e guardo le tre orchidee bianche. I primi tempi era uno sguardo di ammirazione per la bellezza pura e semplice della natura, ma col passare del tempo non guardo più i singoli petali e le singole foglie, non guardo più nemmeno l’armonia dell’insieme, non so di preciso cosa guardo, le guardo e basta.
Ma non vorrei annoiarla…Sa, sono così poche le occasioni per conversare con qualcuno; di solito a questo genere di serate vengo con mio marito, ma questa sera aveva un impegno improrogabile, una serata con dei colleghi credo, mi ha detto qualcosa circa un nuovo farmaco.
Non mi fraintenda, non siamo dei reclusi. Ma il lavoro di mio marito è veramente impegnativo. Quando viene la bella stagione la domenica giochiamo a tennis, è un hobby che abbiamo in comune. In realtà condividiamo tutto, siamo molto uniti, è una vera fortuna!
Ecco, mi scusi, sempre a parlare di me, di mio marito e di quanto sono fortunata.”
Siccome il suo interlocutore aveva chiuso gli occhi in una maniera che mi pareva irrimediabile, intervenni, presentandomi:
“Buonasera signora, io sono M., molto piacere, ha gradito il concerto?”
“Oh moltissimo, e lei?”
“Superlativo, ho passato un momento magico. Se non mi inganno, da quanto ho involontariamente sentito, lei è la moglie di un farmacista”
“Sì sì, è la farmacia in via P.E., qua vicino.”
“Allora ho avuto già il piacere di conoscere suo marito, proprio ieri mi ha servito personalmente”
“Ah, è già stato da noi?”
“Sì, e credo che molto presto ci tornerò. Sa, credo d’essere un poco ipocondriaco.”
“Non dica così, signor M., l’ipocondria non esiste, esiste il bisogno di curare il malessere, e noi farmacisti
facciamo del nostro meglio, ogni giorno, specialmente mio marito.”
“Me ne sono accorto: una persona senz’altro preparata, solerte e gentile”
“La ringrazio a nome suo” diss’ ella mentre osservavo la sua bocca a culo di gallina.
“Per me si è fatto tardi, è meglio che ora rincasi. E’ stato un vero piacere”
“Arrivederci allora” chiocciò il culo di gallina.
Esitai nell’abbandonare non tanto la conversazione, ma la contemplazione del culo di gallina, riccamente pittato, e mentre ne osservavo la fenomenologia avvertii una presenza al mio fianco. Diedi una furtiva occhiata all’individuo che aveva avuto l’ardire di entrare anche solo parzialmente nel mio campo visivo distraendomi dalla mia contemplazione.
“La conosco quella” esordì il disturbatore mentre assaporava una tartina al salmone con vistosa soddisfazione del palato, “ha grossi, grossissimi problemi”, e con questa affermazione catturò la mia attenzione. Infilò tra le fauci un’altra tartina “un porcospino di problemi. Così l’ha descritta un mio amico.”
Aveva parlato senza degnarmi di uno sguardo o così mi era sembrato, poi si voltò verso di me, squadrando per prima cosa i miei vestiti e le mie scarpe e solo dopo guardandomi in viso. “La ragazza, dico, era lei che stava fissando, no? Quell’altra non la conosco, ma accidenti è più rigida di un…” si interruppe e mi squadrò nuovamente.
“Abita nel mio palazzo, la conosco da quando mi sono trasferito”. Guardò il piatto vuoto, sconfortato. “Ha un pessimo gusto nell’arredamento e per quanto possa sembrare impossibile è il minore dei suoi problemi. Attualmente credo stia recitando la parte della santa anoressica che salverà il mondo, con me non parla più perché non avevo bisogno di essere salvato!” Ed esplose in una risata sguaiata. “Scherzo!”, precisò ridendo ancora più forte e appoggiandomi una mano sulla spalla. “Ho commesso il grave errore di dirle la verità su se stessa. Comunque, questo è il suo periodo più noioso.” disse smorfioso. “Il più divertente è stato quello in cui si credeva la protagonista di una soap opera.” Posò il piatto su una sedia poco distante e si appoggiò alla parete con l’espressione di chi sta per confidare il più interessante dei pettegolezzi. “Mi ero appena trasferito e conosco questa dolce ragazza bisognosa di aiuto. Era malata di una qualche non meglio precisata malattia e passava la maggior parte del tempo chiusa in casa, così io le facevo qualche commissione. Lei mi regalò un sacco di suppellettili di pessimo gusto che io ovviamente buttai. Oddio, che orrore! Insomma, mi raccontò delle cose agghiaccianti e all’inizio ovviamente le credetti perché mi faceva pena, la poverina.” Poi, con un risolino, “Certo che con quel vestito rosa confetto fa pena anche adesso… Comunque, per farla breve, mi raccontò di svariate violenze subite durante l’infanzia e ovviamente su questo argomento ebbe tutta la mia compassione, ma poi
cominciò a raccontare di non essere figlia di sua madre, di essere stata adottata, e dopo poco di essere in realtà figlia di sua nonna: non le sembra una cosa assurda? Poi mi raccontò di aver tagliato i ponti con tutti quelli che conosceva perché si trattava di gente che viveva in un mondo malato, cose del tipo che lavorava nello spettacolo ed era un mondo superficiale. Poi, col tempo ho scoperto che in realtà tutti i suoi vecchi amici frequentavano la parrocchia della zona”, e strizzandomi l’occhio si riappoggiò alla mia spalla “ma la più bella è che non voleva avere niente a che fare con gli uomini, per via dei traumi passati e mentre me lo spiegava mi cascò l’occhio sulle sue unghie laccate di rosso. Non le sembra una contraddizione? Una donna che vuole sfuggire agli sguardi degli uomini e si dipinge le unghie di rosso? Comunque, nonostante capissi che aveva dei problemi le rimasi amico. D’altra parte un amico non giudica, no? Poi cominciò a frequentare questi corsi new age e mi sembrò che ne traesse giovamento. Ora come ora credo che semplicemente abbia trovato un personaggio che sia più accettato e applaudito, un po’ santa e un po’ fattucchiera, come se una santa anoressica e un guru da strapazzo sessualmente pervertito avessero scopato e lei ne fosse il risultato. Non mi sono unito alla standig ovation e ora credo che prima di uscire dalla porta di casa si assicuri che io non sia sulle scale. Le rare volte che mi è capitato di incrociarla, e l’ho vista in forte imbarazzo, ne ero intimamente divertito”
concluse, togliendo la mano dalla mia spalla e aprendo la bocca in un sorriso compiaciuto.
“Tu vivi in zona da poco vero?”
Mi limitai a rispondere con un laconico sì.
“Infatti, io noto tutti. Gli uomini specialmente, e non ti avevo mai visto prima. Di cosa ti occupi nella vita?”
“Sono un ispettore della squadra mobile, in aspettativa” risposi, “E questo ti basti” pensai.
“Ah, io mi occupo di moda… Che maleducato, mi chiamo Jerry” Porgendomi la mano destra e con una sorta di smorfia precisò “Ruggero a dire il vero, ma non chiamarmi così se non vuoi che ti odi.”
“Jerry, non odiarmi, ma per me si è fatto tardi, ci incontreremo ancora, buona continuazione.”
“Ciao, buonanotte” disse Ruggero un po’ seccato.
Ruggero, ehm, Jerry, in maniera colorita e non richiesta mi aveva parlato di quella ragazza che vagava fra le stronzate della padrona di casa e che avevo notato appena entrato. Non che non la conoscessi già, anzi, proprio perché l’avevo già abbondantemente intuita decisi di non considerarla come passatempo per i tempi della fame nervosa sessuale che, ciclicamente si affacciano alla mia coscienza. L’incontrai nello stesso negozio dove vidi la poveraccia che mi condusse dal mio nuovo farmaceuta.
Mi piace sostare a conversare con la mia amica Paola, mi piace vederla lavorare, mi tranquillizza. Mi piacciono la sua gentilezza ed i colori del suo negozio. Se non temessi d’essere importuno, qualche volta desidererei di addormentarmi sulla sedia davanti al suo bancone, fino all’orario di chiusura. Osservare i clienti, che vanno e vengono, con le loro stravaganze, esitazioni, seriosità, assorti nel rito dell’acquisto di un qualsiasi “abbellitore” di casa, mi diverte: le loro voci, che non ascolto, gli oggetti che gradiscono, che valutano, sono per me un vero spettacolo. Vorrei essere invisibile, e in qualche modo lo sono, ma lo vorrei del tutto, per poter osservare meglio, indagare più a fondo o, se preferite, spiare. Non è una deformazione professionale, sono stato sempre così, amo l’impresa ardua di provare a distinguere il percepito dal percipiente, l’osservatore dall’osservato, e vi assicuro che quando mi capita, quel che vedo non è bello. Fu in una di queste occasioni che conobbi la ragazza in questione, ricordo abiti allegri, allegri per chi li porta, chiaramente, non certo per chi li vede. Parlò e parlò molto, della sua professione, del suo percorso di autocoscienza, ed aveva occhiali rosa con le lenti a forma di cuoricino. Autocoscienza, come parola, ricorse in quei forsennati minuti di self-representation una quantità maniacale di volte ed oggi mi fa ridere pensare che un giorno addirittura mi interruppe e volle conversare mentre stavo inserendo il codice segreto nel bancomat. Nondimeno, alla fine di quella che gli psichiatri chiamano propriamente “Bouffée delirante” mi porse il suo biglietto da visita ed appresi che la sua professione era: “Facilitatore olistico”.
Presi commiato dai padroni di casa, dimenticai Dolly (nome di battesimo: Addolorata), la facilitatrice olistica, e fui nell’aria frizzante di una notte di primavera incipiente, eccitato e, marciando verso casa, consideravo divertito l’idea che un uomo di tale grandezza, il mio farmaceuta, si accompagnasse ad una signora che aveva probabilmente ucciso l’uomo della poltrona, nonostante i tappi nelle orecchie. Mi ricordai di una storiella orientale in cui un uomo cercava un maestro che lo istruisse sulla via del misticismo. Costui giunse a casa del maestro, il più rinomato della regione, e, poiché il sant’uomo si trovava fuori casa a far legna, lo accolse sull’uscio la moglie, che si rivelò essere una donna orribile, volgare e maleducata. L’aspirante discepolo rimase interdetto:”Com’è possibile che un tale uomo abbia per compagna una donna così spregevole?” Era assorto in questo dilemma quando il santo si presentò rendendogli intelligibile la sua maestà spirituale e, conoscendo i pensieri del questuante, rispose: “E’ proprio perché sono un santo che posso sopportare una moglie del genere.” Corsi a casa, mi misi a letto, e immediatamente mi masturbai pensando alle labbra a culo di gallina succhiare voracemente il mio pene, con il resto del corpo vestito in maniera degradante. Finito il conato, presi una dose tripla di En, e chiesi perdono al farmaceuta per questo piccolo tradimento.”