Noi e gli Antichi. Perché lo studio dei Greci e dei Romani giova all’intelligenza dei moderni – Luciano Canfora


Luciano Canfora, docente universitario a riposo, dirige i Quaderni di storia e scrive sul Corriere della Sera. Per Rizzoli ha dato alle stampe pure La storia falsa (2008), Il viaggio di Artemidoro (2010), Il “Corriere” tra Stalin e Trockij. 1926-1929 (2010), La guerra civile ateniese (2013), Il presente come storia (2014).

 

Luciano Canfora

 

Di particolare importanza per una piena comprensione del testo Noi e gli Antichi: perché lo studio dei Greci e dei Romani giova all’intelligenza dei moderni (pubblicato nel mese di settembre del 2018) è sia la premessa dell’autore che la presentazione dello stesso da parte dell’editore nella quarta di copertina. Nella premessa Luciano Canfora afferma che: «Se si possa fare storia di un evento recente sembra essere la tipica domanda del senso comune. La risposta del senso comune è che no, non si può, o per lo meno non è prudente. Le ragioni addotte o sottintese sono varie: perché, se trascorre molto tempo, si può accertare meglio la verità; o perché, se trascorre molto tempo le passioni si depurano ed è possibile una storia meno faziosa, e così via. Ovviamente non si precisa mai cosa voglia dire molto o poco, e si resta per lo più nel vago in attesa del consolidarsi di una opinio communis, o anche di una vulgata. Le conseguenze di questo pseudo-concetto abbastanza diffuso sono ben note: nei nostri licei ci si arresta, nello studio della storia, più o meno nel primo quarto del secolo XX: il quale, peraltro, è appena finito, ed essendo senza dubbio tra i più ricchi di eventi complessi e tra loro intrecciati, forse meriterebbe il primato, da questo punto di vista, rispetto a tutti i precedenti, nonché, nell’ambito dell’ordinamento scolastico dello studio della storia, un anno di corso tutto per sé. Che però la storia contemporanea, o meglio recente e recentissima, sia materia scivolosa e inadatta al lavoro dello storico, non fu sempre opinione accreditata. Nel mondo antico greco e romano vigeva senz’altro, anzi predominava, la veduta contraria. Il più incline alla metodologia tra gli storici greci, Tucidide, ha dedicato tutto l’inizio della sua opera concentrata sulla storia contemporanea, anzi sulla storia in fieri, a dimostrare la superiorità della storiografia sul presente rispetto alla storiografia sul passato: o meglio, alla dimostrazione della sostanziale impossibilità di quest’ultima.

 

Busto di Tucidide

 

Ma Tucidide non è isolato in questa veduta: mezzo secolo dopo di lui, Eforo sosteneva che la storiografia sul passato, specie se remoto, è in genere falsa, salvo – caso per caso – si possa addurre una prova contraria. E gli storici di epoca romana, quando, nelle loro amplissime opere, finalmente giungono all’epoca loro, manifestano esultanza e quasi si rasserenano perché finalmente la materia è solida e chi scrive può formulare il massimo vanto dello storico (antico): di essere stato presente ai fatti narrati. Un tale vanto è molto sintomatico e ci porta al cuore di una delle ragioni principali della preferenza, dagli storici a lungo manifestata, per la storia contemporanea: il fatto cioè che – nonostante la veste esteriore (in genere quella di una vastissima storia generale) – si trattava in realtà, ogni volta, della storia di gruppi dirigenti e della loro politica: gruppi con i quali questi storici erano in strettissimo rapporto, di cui spesso erano parte e la cui veduta consideravano l’unica possibile e l’unica degna di essere tramandata. Quando questo nesso è entrato in crisi, si è posta sempre più accentuatamente la questione della distanza dello storico dai fatti. Uno dei maggiori vantaggi di tale distanza è sempre stato considerato l’accesso agli archivi: accesso che per lo più, anzi quasi sempre, diviene possibile solo quando è trascorso molto tempo dagli avvenimenti cui i documenti raccolti negli archivi si riferiscono. Sono note le molteplici limitazioni che gravano sulla libera consultazione dei documenti: per gli archivi inglesi il lasso di tempo richiesto è di quaranta anni, ma per gli archivi vaticani l’ultimo anno accessibile resta il 1939; per gli archivi sovietici le regole stesse erano differenziate a seconda degli utenti; e nella nostra democratica repubblica gli atti processuali relativi ai processi-farsa del Tribunale speciale per la difesa dello Stato soggiacciono all’obbligo di segretezza di settanta anni, come se si trattasse di normali processi penali! E così via. Certo, si potrebbe osservare che in fondo è solo questione di pazienza: meglio se passano alcuni anni, le passioni si raffreddano, i documenti ci aspettano ben ordinati in buste e fascicoli destinati al tardivo godimento degli storici. Nulla di più illusorio. In quanto emanazione dello Stato e del potere, l’archivio continua a essere manipolato (o per lo meno può continuare a esserlo). Ma questo è solo un lato della questione: il momento delicato è quello del versamento, quando cioè lo Stato concede a quella parte di se stesso che sono gli archivi la conservazione dei documenti in una condizione di relativa pubblicità, ed il versamento si produce solo dopo un’adeguata scrematura. A grandi linee si può dire insomma che la storia – l’unica degna del nome, quella su documenti – può, finalmente, farsi quando i vincitori hanno scelto quali documenti far sopravvivere. Non si tratta del paradosso mirante a dimostrare che dunque scrivere storia è necessario e impossibile al tempo stesso. Si tratta di prendere nozione della costante e consustanziale relatività del mestiere dello storico. A seconda della distanza dall’evento trattato, gli storici ne daranno un profilo e ne rileveranno delle facce volta a volta differenti: tutte, in fondo, in qualche modo vere, e spesso tra loro complementari: nessuna esaustiva, come esaustiva non sarebbe neanche la meccanica somma di tutte quelle facce.

 

Biblioteca antica latina

 

La Rivoluzione d’ottobre può essere la prima rivoluzione comunista del XX secolo, l’ultima rivoluzione tradizionale (dal punto di vista della tecnica della presa del potere) che conclude la gloriosa serie apertasi nel 1789, può essere il primo risveglio del terzo mondo e il capofila di quel risveglio, può essere lo strumento originale con cui la Russia si è modernizzata e così via. L’Atene democratica del V secolo a.C. è parsa, volta a volta, il regno dell’uguaglianza coniugata con l’eunomia (dall’Epitafio pericleo a George Grote), ovvero una sostanziale aristocrazia ammantata di ordinamenti democratici e appannaggio – in forza della ristrettezza del diritto di cittadinanza – di una piccola cerchia privilegiata di cittadini (Tocqueville), ovvero una sorta di Stato militar-razziale (Wilamowitz), ovvero il luogo geometrico della demagogia più sfrenata (Eduard Meyer), o infine un esempio ante litteram di Stato sociale (Arthur Rosenberg) ecc. Nessuna di queste definizioni è falsa: lo sarebbe se pretendesse di essere l’unica vera. È importante ogni volta stabilire chi esprime un determinato giudizio storico e in quale momento, oltre che con quale fine. In questo senso, e con spirito diverso da quello della originaria formulazione, possiamo dunque concludere che davvero ogni storia è sempre contemporanea, per lo meno finché non possiamo liberarcene. Finora ci siamo liberati non più che della storia degli Ittiti; ma forse, a ben riflettere, neanche di quella».

Invece nella presentazione dell’opera da parte dell’editore il medesimo dichiara che: «Il vincolo che lega la nostra cultura alla lingua, alla storia, al pensiero dei Greci e dei Romani non va ricercato in una presunta identità tra noi e gli antichi. Al contrario, capire le differenze ci consentirà di conoscere il senso che il passato e la sua eredità hanno per noi. È questa la via seguita da Luciano Canfora nei saggi scritti per questo volume, incentrati su alcuni temi cruciali: il metodo degli storici antichi, il rapporto tra storiografia e verità, la visione della storia come fiume grande e lutulento che assimila e trascina le più diverse tradizioni culturali. L’opera propone solidi argomenti per riflettere sulla centralità degli studi classici nella formazione della cultura moderna e spiega come essi rivelino qualcosa di nuovo non solo sul mondo antico, ma anche sul nostro. Il volume, arricchito in questa edizione da una nuova parte sulla tradizione classica, si conclude con una sezione, non priva di spunti polemici, dedicata all’attuale statuto scolastico della cultura classica e riporta in Appendice uno scritto latino del giovane Marx sul principato di Augusto».

Si ritiene che quanto detto sia nella premessa dall’autore sia nella presentazione del libro da parte dell’editore abbia spiegato a sufficienza scopi e finalità del testo preso in esame. Di grande utilità sono l’indice tematico, l’indice dei nomi e l’appendice. Un’opera degna di notevole attenzione che si consiglia di leggere e/o regalare a coloro che sono interessati alla civiltà greca e romana.

      

Titolo: Noi e gli Antichi. Perché lo studio dei Greci e dei Romani giova all’intelligenza dei moderni

Autore: Luciano Canfora

Editore:  BUR Biblioteca Univ. Rizzoli

Pagg. 148

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