Molti credono che il Medioevo sia stato un periodo storico buio e spregevole, all’insegna della bieca violenza e dell’ignoranza. Ma Umberto Eco, che con Il nome della rosa ha contribuito a renderlo suggestivo, ha corretto il tiro. “Il Medioevo non aveva solo una visione cupa della vita. È vero che esso è ricco di timpani di chiese romaniche abitati da diavoli e supplizi infernali, che vi circola l’immagine del Trionfo della Morte; che è un’epoca di processioni penitenziali, spesso di nevrotica attesa della fine, che le campagne e i borghi sono attraversati da torme di mendicanti e di lebbrosi, che la letteratura è spesso allucinata da viaggi infernali. Ma al tempo stesso è l’epoca in cui i goliardi celebrano la gioia di vivere, e soprattutto è l’epoca della luce”.
In effetti, per quanto la vita non fosse facile e la paura dimorasse in molti cuori, così come la miseria fosse la cifra esistenziale della maggioranza della popolazione, nel Medioevo l’umanità ha espresso una straordinaria forza creatrice. È stata un’era di sviluppo e progresso in moltissimi campi. Lo dimostrano la costruzione delle grandi cattedrali, i sommi ragionamenti filosofici che ponevano al centro il cielo e la terra, l’umanesimo e la poesia sublime, la nascita delle università e della stampa, lo sviluppo urbano e del commercio, la rotazione delle coltivazioni, i viaggi e le esplorazioni, le innumerevoli invenzioni: i numeri arabi, la carta, i mulini a vento e ad acqua, l’aratro di ferro, le note musicali, la polvere da sparo, i vetri alle finestre, e via di seguito.

Lo storico Jacques Le Goff, uno dei massimi conoscitori del Medioevo, scrisse: “Il Medioevo mi ha affascinato perché aveva il potere quasi magico di rendermi spaesato, di strapparmi dai problemi e dalle mediocrità del presente e al tempo stesso di rendermelo più vivido e chiaro”. Come dargli torto? La civiltà medievale esercita questo fascino di cui parla Le Goff. È un mondo magico e immaginifico, amante dei simboli e perciò capace di disorientare e insieme guidare la natura umana verso mete più luminose. La luce, per l’appunto. Il consorzio umano era come inondato di fasci di luce spirituale, vocato a tutelare la propria anima anziché barattarla con beni illusori, come avviene nel presente.
Giuseppe Bresciani è un autore che ha colto questa luce. Ama il Medioevo fin da bambino, quando fu incantato dagli ideali cavallereschi e si appassionò alle Crociate, agli assedi ai castelli e all’ingiusta sorte dei templari e dei catari. Ha imparato ad amarlo sempre più grazie alla filosofia Scolastica, alla Divina Commedia, a San Francesco, Giotto e Marco Polo. Parliamo di un autore che dopo avere scritto “Le infinite ragioni”, il diario segreto di Leonardo da Vinci, ha sentito il bisogno di calarsi, quasi fisicamente, in un’epoca che gli è familiare. In particolare nel Basso o Tardo Medioevo. È questa la ragione per cui ha scritto “Il Cavaliere del fiordo”, libro pubblicato da Leone editore. Non è semplicemente un romanzo storico ma un viaggio nel cuore dell’Homo medievalis, nella fattispecie di un cuore nobile che incarna i valori e gli afflati dell’epoca in cui visse.
Il protagonista del romanzo, Rodolfo di Fionia, è un prode e nobile uomo d’armi danese ma anche un lupo solitario, un filosofo disincantato e un monaco-guerriero, sicché il suo cammino sui sentieri della gloria e dell’infamia appare come uno spaccato trasversale del Basso Medioevo. Il lettore, attraverso le sue gesta, ha la possibilità di conoscere gli umori, i sentimenti, le fragilità e le aspirazioni di un uomo medievale la cui modernità può disorientarci (ci rende “spaesati”, direbbe Le Goff) giacché egli vive nel lontano XII secolo ma incarna la nostra stessa inquietudine. Nondimeno è proprio la sua umanità atemporale, la sua sete di risposte che lo rende attuale.

Il Cavaliere del Fiordo è uno di quei personaggi letterari a cui ci si affeziona, con cui e per il quale si palpita. È la sua forte vicenda umana a rendere possibile l’empatia. Il romanzo, infatti, racconta il tormentato viaggio di un’anima verso la luce, che abbraccia solo dopo avere attraversato faticosamente la notte dell’anima. Un viaggio che coinvolge il lettore, stupito di ritrovarsi immerso fin dalle prime pagine nell’apparente foschia di un mondo sconosciuto e incredulo, pagina dopo pagina, di compiere un cammino avventuroso le cui pietre miliari sono l’amore e l’odio, la crudeltà e la fede, la conoscenza e il mistero, l’onore e la redenzione. Un cammino confortato dalla veridicità storica del racconto e dalla qualità della scrittura.
L’epopea di un cuore nobile e impavido che attraversò la notte dell’anima prima di abbracciare la luce.
Trama
Nel 1193, l’abate Guglielmo di Amiens riceve due doni dalla Terrasanta. Uno di essi è un manoscritto che racconta le memorie di Rodolfo di Fionia, cavaliere danese dalla vita segnata da drammi, battaglie e profonde trasformazioni. Cresciuto tra gioie e tragedie, Rodolfo intraprende un lungo viaggio interiore e geografico che lo porta dai fiordi del Nord ai campi di battaglia europei e infine alla Terrasanta. Tra guerre, perdite e redenzione, la sua vicenda riflette le luci e le ombre del Medioevo, attraversando temi di onore, fede, vendetta e spiritualità.

L’autore
Giuseppe Bresciani è un ex imprenditore umanista che dal 2012 si dedica quasi esclusivamente agli studi e alla scrittura. È un autore eclettico e raffinato, educato alla scuola di Atene, come ama dire di sé. È alla sua quinta prova narrativa. Prima de Il cavaliere del fiordo ho pubblicato L’inferno chiamato Afghanistan, il racconto dell’esperienza di “cane sciolto” nell’Afghanistan in guerra, i racconti Il cantico del pesce persico, il romanzo La Frontiera e infine Le infinite ragioni, il romanzo intimistico sugli ultimi di vita alla corte del re di Francia di Leonardo da Vinci.
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