Dopo aver affrontato la tematica di Giordano Bruno e del suo indebito innalzamento ad icona della scienza e della libertà di espressione, parleremo oggi di un’altra figura che è stata identificata, più o meno per gli stessi motivi, come una martire della laicità e del libero pensiero.
Lo stesso Umberto Eco scrisse, in prefazione ad un’opera sulla vita della filosofa: “Su Ipazia sono fiorite molte leggende, e si sono sbizzarriti anche i poeti”.
Ipazia, cittadina di Alessandria d’Egitto fu, come mostrato nel film Agora (2009, regia di Alejandro Amenábar), senza dubbio vittima di assassinio. Ella fu altresì libera pensatrice e donna di grande cultura; tuttavia il film – che una leggenda metropolitana vorrebbe censurato dal Vaticano – celebra la morte della filosofa come la conseguenza di un’intolleranza religiosa sia prendendo spunto da fonti storiche la cui attendibilità valuteremo in seguito, sia romanzando con pura licenza narrativa alcuni degli episodi chiave della vicenda.
Come in altre pellicole dello stesso filone, tra cui possiamo citare il celebre “Kingdom of Heaven” di Ridley Scott (“le Crociate” titolo italiano), la componente cristiana viene sempre spacciata come la “gemella malvagia” di altre culture come quella pagana o quella musulmana. Un occhio attento può cogliere come la pellicola di Amenábar rimescoli e stravolga i personaggi storici della vicenda ancor prima dei fatti: alla fine della fiera il personaggio che risulta più snaturato di tutti è proprio quello di Ipazia.
L’IMPERO, IL PRIMO CRISTIANESIMO
In uno scorcio della pellicola “il Codice da Vinci”, ispirata al romanzo di Dan Brown, l’affermazione del cristianesimo è presentata come il frutto di un’improvvisa e violenta repressione dei pagani. Ciò non appare conforme a verità: il dato storico ci dice che a partire dal I secolo i seguaci della nuova religione aumentarono in maniera esponenziale e il culto si diffuse in modo pressoché pacifico in tutto il territorio dell’impero. Vittime delle persecuzioni dei vari regnanti furono proprio i cristiani: si conta che almeno nove imperatori diedero impulso alle persecuzioni, e queste ultime si susseguirono, a fasi alterne, per oltre due secoli, protraendosi persino in un periodo in cui una gran fetta della popolazione aveva aderito al nuovo culto.
L’Imperatore Costantino nel 313 sancì la libertà di religione anche per i cristiani e solo con Teodosio, nel 380, il cristianesimo divenne religione esclusiva dell’impero. Ancora discussa l’effettiva portata della repressione nei confronti dei pagani: il divieto di celebrare pubblicamente il culto era spesso disatteso, e in caso di infrazione era prevista, salvo eccezioni, la sola sanzione pecuniaria, per quanto severa. Per contro, non risultano resoconti di una vera e propria persecuzione dei pagani; non ci è giunta nessuna cronaca di pagani arsi vivi sulle croci o dati in pasto ai leoni: in pratica la “repressione”, se proprio la vogliamo definire tale, consistette al più nella distruzione di qualche luogo di culto pagano, o meglio, nella loro conversione in chiese cristiane.
Parallelamente all’ascesa della nuova religione, si assiste ad un complementare fenomeno di de-paganizzazione: ciò però non va imputato unicamente ad attività repressive nei confronti dei pagani. Per lungo tempo, anche dopo le imposizioni di Teodosio, pagani e cristiani convissero in maniera più o meno pacifica. Non mancarono sicuramente, come vedremo, degli episodi di intolleranza, ma nulla induce a sospettare che tali episodi fossero la regola.
IL DECLINO DEL PAGANESIMO
La sorte del paganesimo va ravvisata in una spontanea scomparsa a seguito di un lento e inesorabile declino; possiamo anche pensare che i decreti teodosiani abbiano incentivato tale declino, ma non può individuarsi in essi la causa prima: il cristianesimo fiorì e si diffuse per almeno tre secoli come religione clandestina in un ambiente apertamente ostile; mentre il paganesimo, nonostante le proibizioni imperiali che vietavano l’esercizio pubblico del culto, continuò ad essere praticato in privato senza condanne da parte delle autorità.
Sebbene il cristianesimo fosse ormai considerato dagli imperatori unica vera religione, non si percepì la necessità da parte dei cristiani di trasformarsi in persecutori, ed anzi si volle con ogni probabilità evitare ciò, nonostante fosse ancora vivo il ricordo delle persecuzioni dagli stessi subite nel corso del breve impero di Giuliano, il quale non le promosse mai attivamente, ma tuttavia tollerò passivamente che esse avessero luogo.
La città di Alessandria, più in particolare, a partire dal 200 d.C. circa, fu il luogo del martirio di numerosi cristiani (Apollonia, Caterina, Basilide, Ciro, Edesio, etc.), uccisi con metodi non meno crudeli rispetto a quello con cui trovò la morte Ipazia. Certi episodi di intolleranza verso i cristiani non furono affatto assenti nemmeno dopo l’emanazione dei decreti teodosiani: nel 450 d.C., trentanove anni dopo la morte di Ipazia, una giovane donna di nome Giulia, fu crocifissa a causa del suo rifiuto di rinnegare il cristianesimo.
La riforma attuata da Teodosio non implicò una conversione forzata delle masse ancora pagane, le quali continuarono a vivere spesso indisturbate nei territori e nelle città dell’impero: l’Alessandria del IV-V secolo, nonostante l’ampio diffondersi del cristianesimo all’interno delle sue mura, continuerà a lungo ad essere una città dalla popolazione molto eterogenea per usi, costumi e convinzioni; si può infatti porre l’accento sul fatto che, mentre gli ebrei e alcuni gruppi cristiani considerati lontani dall’ortodossia subirono la cacciata dalla città, la minoranza pagana non subì mai tale destino. È quindi in questo clima, di contrasto ma anche di convivenza, che matura la vicenda di Ipazia.
IL SAPERE PAGANO E I PADRI DELLA CHIESA
Possiamo dire che la trama del film si sviluppi su due filoni, all’apparenza paralleli e indipendenti l’uno dall’altro. Da un lato vengono mostrate le lotte tra cristiani, ebrei e pagani, che condurranno la prima fazione a prevalere sulle altre. Il secondo filone invece ci mostra le lezioni di Ipazia, le ricerche scientifiche e matematiche della filosofa: tutto ciò pare slegato dal resto della trama, nonché dal tragico epilogo, ma sembra essere stato inserito solo di contorno. In realtà, ad uno sguardo più attento, è possibile notare che l’obiettivo di questo filone è orientato a dipingere un contrasto tra la saggezza dei pagani e l’ignoranza dei cristiani: unico momento della pellicola in cui i due filoni sembrano incontrarsi è, guarda caso, quello in cui la biblioteca di Alessandria si appresta ad essere devastata dai cristiani e in cui i filosofi cercano disperatamente di salvare le opere letterarie ivi conservate.
In un altro punto viene sbandierato il solito cliché della Terra piatta, messo in bocca ad uno dei Parabolani come a simboleggiare un fenomeno di regressione che condurrà dallo splendore classico al Medioevo: in realtà sappiamo trattarsi di un preconcetto facilmente smontabile.
In un altro punto ancora ci viene mostrata un’avanguardistica teorizzazione dell’eliocentrismo: le prime idee eliocentriche maturarono probabilmente in ambito pitagorico (VI secolo a.C.); successivamente altri filosofi come Eraclide, Pontico e Aristarco di Samo tentarono un esplicito allontanamento dal geocentrismo, tuttavia in mancanza di prove certe le teorie vennero presto abbandonate e pressoché ignorate dai posteri. Non abbiamo prova che Ipazia o altri del suo tempo abbiano anche solo tentato di rispolverare le vecchie tesi sull’eliocentrismo.
Ancora una volta, il dettaglio che stona dal punto di vista storico sembra inserito apposta per creare l’antitesi paganesimo-cristianesimo: questa volta si tenta di far passare Ipazia come la promotrice di una rivoluzione scientifica, cosa che in sé non disturba. Ciò che più fa riflettere è il tentativo non tanto celato, di creare un nesso tra Ipazia e Galileo, e quindi di trasporre da un’epoca all’altra quella persecuzione propria del periodo dell’Inquisizione Romana.
Il film, nel costante tentativo di dipingere i cittadini cristiani come riottosi ignoranti, sembra dimenticare che i vertici della gerarchia ecclesiastica erano figure di spicco nel panorama culturale dell’epoca: i Padri della Chiesa erano pressoché imbevuti della stessa cultura classica e neoplatonica di cui Ipazia era un’esponente, e ne condividevano gli ideali. Basti pensare che Agostino di Ippona è, ad oggi, ancora annoverato tra i neoplatonici: egli sviluppò la propria visione teologica proprio a partire dal neoplatonismo. Lo stesso vescovo Cirillo, presentato costantemente nell’atto di impartire ordini di morte o di declamare sermoni d’odio, era un buon conoscitore della cultura classica: nelle proprie opere dà prova di una profonda conoscenza delle opere dei filosofi, dei poeti e degli storici pagani, quanto basta per escludere a priori l’ipotesi della “gelosia” o dell’odio per la sapienza di Ipazia dai possibili moventi.
I decreti teodosiani non sembrarono alterare questo humus culturale: persino le opere d’arte pagane furono salvaguardate dallo stesso “Codex Theodosianus”. Non risultarono prese di mira nemmeno le opere di letteratura, “il sapere pagano” come lo chiamano alcuni: di lì a pochi secoli i monaci cristiani, attraverso una minuziosa e faticosa opera di copiatura, salveranno dalla distruzione gran parte del patrimonio letterario classico giunto sino a noi.
IL MONDO ANTICO
Per contro a quanto detto, non si può sempre difendere il mondo classico-pagano adducendo che si tratti dell’unica culla della libertà e la dignità del genere umano: basti pensare che il sommo Aristotele, che pure fu fonte di ispirazione per la teologia cristiana, concepiva la schiavitù come parte integrante del diritto naturale.
Una delle accuse strettamente correlate alla vicenda di Ipazia mosse nei confronti cristiani fa leva su una presunta misoginia propria del culto cristiano e di cui l’antichità pagana sarebbe stata del tutto priva. La condizione della donna nel mondo pagano, in particolare nel mondo romano, non fu affatto assai migliore, e non fu nemmeno un caso che il primo cristianesimo, oltre agli schiavi, trovasse molti adepti nelle donne, spesso anche di estrazione agiata.
La famiglia romana era un tipo di famiglia allargata, in cui un ascendente maschio, il paterfamilias comandava su tutti i discendenti, uomini e donne che fossero. I maschi erano privilegiati per la loro capacità di diritto pubblico e per la possibilità di intraprendere una carriera politica. Consideriamo poi la condizione dei neonati, che rischiavano la vita fin dai loro primi respiri: il paterfamilias infatti subito dopo la nascita poteva decidere se accettarlo nel gruppo familiare o rifiutarlo; nel secondo caso veniva abbandonato ad una morte quasi certa: i bambini più a rischio di espositio erano i bambini deformi, i figli illegittimi e, per l’appunto, le figlie femmine.
ALCUNE IMPRECISIONI STORICHE
La difficoltà nel ricostruire la vicenda di Ipazia risiede non solo nella scarsità delle fonti, o nelle contraddizioni tra diverse testimonianze, ma anche dalla particolare complessità del contesto in cui essa si colloca. Certo è che i rapporti tra cristiani e pagani nell’Alessandria del IV secolo non erano del tutto buoni, tuttavia su alcuni episodi che vengono presentati nella succitata pellicola, pare regnare la pura invenzione del regista: si citano in particolare la strage degli ebrei e la distruzione della Biblioteca di Alessandria.
La comunità ebraica non fu, come mostrato nel film, aggredita dai cristiani a seguito dell’uccisione di alcuni di questi ultimi, ma solo espulsa dalla città: l’espulsione di una fazione o di una comunità scomoda da una città era ai tempi un provvedimento molto in voga.
All’epoca in cui si svolsero i fatti il Cristianesimo non era più una religione di nicchia, ma era ormai praticata da una buona fetta della popolazione dell’impero: è dunque ben comprensibile che molte delle strutture pagane fossero cadute in disuso: alcune di esse furono trasformate in chiese. Le cronache più antiche non parlano nemmeno di una “distruzione” del Serapeo nel senso tecnico del termine, quanto piuttosto di un suo smantellamento; probabile sorte dell’edificio fu la sua trasformazione in chiesa o in monastero: nessuna devastazione violenta dunque. Al contrario la sollevazione violenta parve provenire dai pagani, che uccisero diversi cittadini cristiani.
Il regista, nel dettare la sorte della Biblioteca di Alessandria trae spunto forse da una teoria minoritaria, ossia che essa sia stata distrutta dai cristiani, odiatori del sapere pagano; si tratta però di una tesi non supportata da prove evidenti: si conta che la Biblioteca di Alessandria, fondata intorno al 300 a.C, sia stata, in tutto o in parte, distrutta da incendi almeno tre volte nella sua storia. La teoria in esame vuole che la seconda distruzione della biblioteca non sia avvenuta durante la guerra contro il regno di Palmira nel 270, bensì nel 400 circa, a seguito dell’emanazione dei decreti Teodoisiani. Vi è da dire anche che i sostenitori di questa ipotesi non indicano un anno preciso, ma si limitano a suggerire che la biblioteca potrebbe essere stata distrutta “intorno al 400 d.C.”, e nemmeno forniscono ipotesi approfondite su una probabile causa della distruzione. Beninteso che di fonti antiche che attestino il grande incendio in questo periodo non ve ne sono: ciò di cui abbiamo testimonianza nel periodo di nostro interesse è solo la distruzione del tempio di Serapide ad Alessandria. Il regista sembra aver volutamente fuso il tempio con la biblioteca; ma tutte le ricostruzioni storiche della città collocano invece i due edifici in due ubicazioni diverse e non adiacenti, e la maggior parte degli storici concorda che la definitiva distruzione di quel grande centro del sapere antico sia avvenuta nel 642, durante la conquista dell’Egitto da parte degli arabi.
IL MITO ILLUMINISTA
Prima che l’illuminismo la elevasse a icona dei propri valori, la figura di Ipazia era pressoché ignorata dalla letteratura. Nelle parole dei pensatori del ‘600 come Voltaire (che la menzionerà nella sua Enciclopedia) e Toland (il quale scriverà il primo libello polemico sulla questione) matura il mito anticlericale della martire Ipazia.
Non sappiamo molto della vita della filosofa, se non che nacque ad Alessandria d’Egitto e ivi morì nel 415 d.C.: al momento della sua morte doveva avere tra i quarantacinque e i sessantacinque anni.
Il suo ruolo di martire del libero pensiero è contestabile sulla base dell’opinione condivisa dalle fonti storiche più antiche, anche alcune fra quelle considerate avverse al vescovo Cirillo (personaggio chiave della vicenda di cui parleremo a breve): si trattò di un omicidio di pura matrice politica, dunque non dogmatica o filosofica.
D’altro canto, possiamo ricordare che Alessandria era ancora al tempo un importante centro culturale, e ospitava numerosi altri intellettuali e filosofi. Inoltre non è possibile ignorare l’effettiva coesistenza pacifica tra esponenti di diversi filoni di pensiero, tra cui anche esponenti del cristianesimo: nel 409/410 nella città di Tolemaide, una città sita in Libia, divenne vescovo Sinesio di Cirene; costui fu a suo tempo uno dei più devoti allievi di Ipazia di Alessandria.
IL MITO FEMMINISTA
Ancor più agevole smontare il “mito femminista” creatosi intorno alla figura della filosofa.
Una recente tradizione cerca di collegare, in maniera del tutto arbitraria, la morte di Ipazia alla data dell’8 marzo: tutto ciò che ci è dato sapere dagli autori antichi è che il delitto si colloca nel periodo del digiuno quaresimale, dunque tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo.
Il film cerca di convincerci che ulteriore affronto per gli odiatori di Ipazia sia da ravvisare nel fatto che fosse per loro intollerabile essere comandati da una donna; in una scena centrale del film vediamo Cirillo leggere in chiesa il celebre passo di San Paolo, del tutto decontestualizzato, più volte rievocato dai critici come emblema del maschilismo e della misoginia cristiana: “La donna impari in silenzio e in piena sottomissione… non permetterò ad alcuna donna di insegnare o di dominare sull’uomo; voglio invece che stia in silenzio”. La società ebraica in cui San paolo è cresciuto era impostata, al pari della società romana, secondo un modello patriarcale: ciò si riflette nel cristianesimo di Paolo soprattutto riguardo all’amministrazione delle funzioni religiose. Tuttavia chi ha una conoscenza abbastanza approfondita degli scritti paolini sa che diversi suoi brani volgono verso l’uguaglianza (tra Giudei e pagani, schiavi e liberi, uomini e donne, etc…) e che in altri non vengono risparmiati elogi alle donne della comunità.
Si ponga ora l’attenzione al racconto di uno dei cronisti, il filosofo pagano Damascio, che narrò la tragedia solo un secolo dopo il suo verificarsi, e accusò il vescovo di essere il mandante dell’omicidio. Nonostante non risparmi parole di ammirazione per Ipazia, Damascio afferma che il proprio maestro (il filosofo Isidoro) era di molto superiore a Ipazia, “non solo come uomo rispetto a una donna”, ma anche quale vero filosofo rispetto a una geometra. Dunque per il cronista pagano Ipazia era da considerarsi a priori inferiore in quanto donna: suona dunque bizzarro che il mito femminista di Ipazia sia stato modulato sul racconto di un maschilista dichiarato.
IPAZIA TRA STORIA, FILOSOFIA E RELIGIONE
Ma per quale motivo nella letteratura dell’epoca, anche d’ambiente pagano, il nome della filosofa compare così poco? In realtà si noti che quasi tutti i filosofi neoplatonici alessandrini, tra cui Sinesio, cristiano e allievo di Ipazia, vengono spesso ignorati da chi scrive in quel periodo o negli anni immediatamente successivi; la motivazione è forse da ricercare in una questione dottrinale: vi era la tendenza a considerare come unici veri eredi del neoplatonismo gli esponenti della scuola di Atene, i quali professavano la cosiddetta “teurgia giamblichea”; detto filone filosofico considerava necessaria, ai fini dell’elevazione dell’anima, la pratica di rituali magici ed esoterici. Tali insegnamenti filosofici, spesso ostili alla religione cristiana, furono rigettati da Ipazia, la quale annoverava tra i propri allievi aderenti alla nuova religione; in relazione a ciò possiamo anche dedurre che il metodo didattico seguito dalla filosofa alessandrina prevedesse un insegnamento rigorosamente pubblico. Da qui è facile pensare che Ipazia venisse per lo più “snobbata” dai propri colleghi ateniesi.
È possibile che la scarsità di fonti antiche abbia portato gli autori medievali a disinteressarsi della figura di Ipazia: di lei infatti non ci sono giunte opere, tuttavia non è assurdo pensare che anche nell’età medievale o rinascimentale la figura della filosofa non fosse fonte di scandalo: Raffaello, nel suo affresco “Scuola di Atene” situato nel Palazzo della Signatura Apostolica, la raffigura in primo piano, al centro di uno stuolo di filosofi; è altresì l’unica figura femminile famosa rappresentata in tutta l’opera. Ciò è comprensibile se non si esclude quello che ormai è un dato di fatto: di donne filosofo, intellettuali o matematiche, o ancora avviate alla professione medica, ve ne furono parecchie anche lungo il Medioevo.
TEOLOGIA CRISTIANA E MONOTEISMO NEOPLATONICO
Mi ha sorpreso non poco, nelle mie ricerche sulla vita e sul pensiero di Cirillo, scoprire che anche quest’ultimo era di formazione platonica (in contrasto con altri vescovi di formazione aristotelica); è dunque possibile auspicare che Cirillo e Ipazia avessero più cose in comune di quel che si è soliti pensare: quel che è certo è che il neoplatonismo condivideva con il cristianesimo un certo bagaglio di valori come la virtù, la verginità, la sobrietà nel vestirsi.
Se consideriamo, alla luce di quanto detto poc’anzi, anche l’aspetto religioso, possiamo del tutto rivalutare il senso che tradizionalmente attribuiamo al fatto che Ipazia fosse pagana.
Si ode spesso dire che il cristianesimo oppose un rigido monoteismo al politeismo sincretico dell’epoca romana, e anche che il monoteismo, per sua natura, sarebbe più incline agli estremismi rispetto all’aperta accettazione di più divinità: tale costruzione non può che crollare su sé stessa se si considera il fatto che Ipazia era a sua volta monoteista. Quando si parla di paganesimo antico, non si suole fare riferimento unicamente al culto tradizionale di Giove, Marte, Venere, e di tutte quelle divinità che componevano l’originario pantheon greco-romano, e nemmeno alle sole divinità di importazione. Già con la filosofia di Aristotele (IV sec. a.C.) prende piede nelle correnti di pensiero una tendenza “monoteizzante”. Fu con tali filoni di pensiero che il cristianesimo ebbe più occasioni di dialogo: il neoplatonismo, similmente alla teoria aristotelica, professava l’esistenza dell’Uno, divinità originaria da cui poi sarebbe derivata per generazione spontanea e necessaria la molteplicità delle cose. Il neoplatonismo cristiano, inaugurato da Agostino, riprende parte di queste idee e le proietta nell’ambito della teologia cristiana: dunque la creazione di tutte le cose non è più l’effetto di un processo spontaneo, ma di un intento deliberato del Creatore.
CIRILLO E ORESTE
Il contesto sociale e politico cui abbiamo fatto cenno alcuni paragrafi sopra vedeva opposti in una diatriba politica il vescovo Cirillo e il prefetto Oreste: non sarà nostro scrupolo determinare chi avesse ragione e chi torto, ma soltanto osservare l’effettiva rilevanza che ebbe tale diatriba sull’omicidio di Ipazia.
La pellicola mostra un fanatico vescovo Cirillo, intenzionato a giustiziare la filosofa, e un tiepido prefetto Oreste che invece non fa nulla per impedirlo.
Oreste era anch’egli cristiano ed era legato da una profonda amicizia con Ipazia: ipotesi oggi assai condivisa vuole che gli assassini, chiunque fossero, avessero visto in Ipazia un ostacolo politico. In particolare secondo Socrate Scolastico i Parabolani avrebbero considerato Ipazia la convitata di pietra della questione, tacciandola come colei che sobillava Oreste affinché non si riconciliasse col vescovo. In realtà proprio questa visione delle cose ci servirà tra poco come elemento per scagionare Cirillo dalle accuse.
Fu l’episodio della cacciata degli ebrei da Alessandria di cui abbiamo parlato poc’anzi a scatenare l’attrito tra il vescovo Cirillo e il prefetto Oreste, ma è necessario fare delle precisazioni: l’agire di Cirillo, ancorché arbitrario e non legittimato dal potere secolare, è stata una reazione proprio all’inerzia di quest’ultimo, incarnato nella persona dello stesso Oreste, che non prese provvedimenti nei confronti degli irruenti ebrei. Nel film viene aggiunta una provocazione da parte dei cristiani, che tentano di lapidare degli ebrei che stavano festeggiando lo shabbath in un teatro.
Il conflitto tra autorità civile e potere religioso proseguirà con l’arresto e la tortura fino alla morte di uno dei cristiani più facinorosi, tale Ammonio, reo di aver scagliato una pietra contro il prefetto: costui nel film viene presentato come uno dei Parabolani, e come uno dei più fanatici seguaci di Cirillo, tuttavia nella realtà era un monaco di Nitria. Inoltre, si consideri che a seguito del ferimento da parte di Ammonio, Oreste non fu difeso dalle sue guardie, ma dalla stessa popolazione di Alessandria, che dispersero i ribelli: cosa difficile da immaginare se la maggior parte della popolazione, oramai cristiana, fosse stata avversa al prefetto.
Si giunge così a quello che può essere considerato, almeno nella fictio cinematografica, il preambolo alla condanna a morte di Ipazia: Cirillo individua nella filosofa la fonte delle resistenze di Oreste; convoca dunque quest’ultimo in chiesa dove chiede a lui e agli altri dignitari di inginocchiarsi, in segno di sottomissione. Nella realtà storica Cirillo chiese a Oreste di riconciliarsi con lui, senza avanzare nessuna richiesta di formale sottomissione.
LE FONTI ANTICHE
Lo storico Filostorgio, seguace del cristianesimo ariano e contemporaneo ai fatti, che secondo alcuni storici assistette di persona ad alcune lezioni di Ipazia, non coinvolge direttamente Cirillo nell’omicidio, ma si limita a indicare gli assassini come “niceani” seguaci della consustanzialità di Cristo. Dunque, lo storico in questione ci dice che l’idea dell’omicidio è maturata in ambiente cattolico, senza però specificare chi ne fosse effettivamente coinvolto. Pare addirittura che Filostorgio distinguesse nettamente tra i seguaci colti dell’ortodossia cattolica (tra questi dovremmo includere per par condicio anche Cirillo), i quali non erano ostili ad Ipazia, ma anzi la ammiravano, da quel substrato più ignorante e fanatico che invece la avversava (i Parabolani di cui parleremo in seguito).
Lo storico cristiano Socrate Scolastico, anch’egli contemporaneo ai fatti, espresse a sua volta ammirazione nei confronti di Ipazia. La sua testimonianza viene spesso utilizzata contro Cirillo, tuttavia nemmeno Socrate sembra implicare direttamente il vescovo nell’assassinio: si limita a dire che l’evento portò non poco sdegno contro il vescovo e la Chiesa di Alessandria, poiché “nulla può essere più estraneo da i seguaci degli (insegnamenti) di Cristo che uccisioni, lotte e cose del genere“.
Un altro storico del V-VI secolo, Esichio di Mileto, riprende la tesi dell’invidia nei confronti della Sapienza di Ipazia, tuttavia pone il coinvolgimento di Cirillo come mera ipotesi, e al contempo racconta una versione alternativa: Ipazia sarebbe stata vittima dell’insolenza e della ribellione degli Alessandrini. A ciò Esichio aggiunge “dal momento che hanno fatto ciò anche ai loro vescovi: si considerino Giorgio e Proterio”. Tralasciando l’assoluta vacuità del termine “Alessandrini”, possiamo notare come Esichio faccia un riferimento abbastanza esplicito ai Parabolani, indicando Cirillo solo in via ipotetica e alternativa.
Il racconto più fanatico dell’omicidio, risalente però al VII secolo, è attribuito al vescovo copto Giovanni di Nikiu: egli è il primo a dipingere Ipazia come una strega ammaliatrice, tuttavia nemmeno lui indica Cirillo come mandante.
Infine lo storico Niceforo Callisto (XIV secolo), probabilmente attingendo a sua volta dalle fonti da noi citate in precedenza, disse solo che gli assassini erano mossi da chierici di Cirillo, per poi concludere con le stesse parole di Socrate Scolastico (“questo portò non poco biasimo verso Cirillo e verso la sua chiesa, infatti ai seguaci di Cristo sono estranei invidie, dissidi, contese, lotte, omicidi di qualunque tipo”).
L’INTERPRETAZIONE DELLE FONTI
Alla luce di quanto detto, i resoconti di Socrate e Niceforo, più che come accusa, paiono valere come difesa a Cirillo, mentre il già citato Damascio risulta l’unico contemporaneo a narrare che fu il vescovo stesso a impartire l‘ordine di assassinio.
Le fonti sono abbastanza vaghe sia per quanto attiene all’identità che per quanto attiene al numero degli esecutori materiali del delitto. Partendo da quest’ultimo punto, possiamo notare che Filostorgio e Socrate Scolastico parlano di “alcuni”. Anche le restanti fonti tralasciano una qualsiasi indicazione sul numero, oppure si limitano ad indicare “alcuni”, lasciando intendere che si trattasse di un gruppo limitato (anche se non sappiamo quanto) di persone e non di una folla o di una moltitudine indeterminata.
Un’altra fonte, considerata però poco attendibile, è Giovanni Malalas (vissuto nel VI secolo): anch’egli come Damascio postumo ai fatti, si riferì in modo generico agli “Alessandrini”, alludendo ad un altrettanto generico permesso di Cirillo di fare da sé.
Soltanto Damascio, pagano avverso al cristianesimo, e Giovanni di Nikiu, vescovo copto fanatico, parlano invece di “molti”. Attingendo con ogni probabilità da questi ultimi, la pellicola di Amenábar trasforma arbitrariamente il delitto, nel senso proprio del termine, in un’esecuzione pubblica (non portata a compimento, perché ad uccidere la filosofa è un servo compassionevole), con tanto di sentenza ed in presenza di un Oreste imbelle, oltre che privo di qualsivoglia ruolo politico.
GLI ESECUTORI DEL DELITTO
L’identità degli assassini, secondo quasi tutti gli storici, è da individuare in un gruppo detto “dei Parabolani”, un gruppo fanatico e violento appartenente solo formalmente all’ortodossia della Chiesa di Roma. Tuttavia ciò che poco si dice è che tale gruppo fosse già in odore di eresia: essi aggredivano in maniera violenta chiunque, pagano o cristiano, non fosse in linea alla loro visione del mondo e ambivano a diventare martiri; il loro nome deriva da un’espressione greca che significa “rischiare la vita”, ed era il nome con cui in passato si indicavano i gladiatori che nelle arene combattevano contro le belve. Le parole di Socrate Scolastico paiono essere una presa di distanza rispetto al fanatismo di tale gruppo. E in effetti si consideri il fatto che la setta dei Parabolani fosse già responsabile di diversi delitti, tra cui l’uccisione di un vescovo, e un altro episcopo subirà la stessa sorte alcuni decenni dopo la morte di Ipazia.
I Parabolani, da quello che possiamo dedurre, erano un gruppo di scalmanati privi di una vera e propria gerarchia interna e, presumibilmente, poco avvezzi a ricevere ordini da autorità esterne. Infatti le cronache non parlano mai di capi dei Parabolani, citando gli stessi solo come gruppo. Nella vicenda di Ipazia ci viene soltanto citato come guida del manipolo di assassini un tale Pietro, a seconda dei resoconti descritto come predicatore, lettore (il lettorato è un ordine minore nella gerarchia ecclesiastica), magistrato. Notare che Damascio, principale accusatore di Cirillo, non menziona nemmeno questo Pietro.
I PARABOLANI E LA SOCIETÀ ALESSANDRINA
A questo punto è indispensabile sottolineare, semmai non lo si fosse già inteso, che l’Alessandria del V secolo rappresentava uno scenario estremamente complesso: solo per comodità e con somma approssimazione possiamo individuare delle fazioni, e certamente non è corretto individuare un’unica fazione cristiana capeggiata da Cirillo: cristiani erano infatti Oreste e molti dei suoi sostenitori. Per questo medesimo motivo l’adesione formale degli assassini di Ipazia alla politica di Cirillo non è assolutamente sufficiente a far intravedere profili di responsabilità dello stesso, nemmeno a titolo di colpa. Un’imputazione a titolo di colpa richiederebbe infatti, quanto meno, che il delitto fosse prevedibile in maniera non generica ed evitabile.
Nessuna fonte storica attesta, come sostenuto da opinione moderne, che i Parabolani svolgessero il ruolo di polizia privata del vescovo: essi non costituivano nemmeno, tra le altre cose, un vero e proprio ordine religioso. I Parabolani balzano all’occhio per l’assoluta irriverenza verso ogni autorità religiosa o civile; è dunque plausibile che operassero come dei cani sciolti e che il loro possibile parteggiare per Cirillo non fosse affatto indice di subordinazione all’autorità del vescovo.
La premessa dell’omicidio nel film è un mai avvenuto battesimo forzato degli alti esponenti della società di Alessandria. Altrettanto falso risulta il naturale epilogo: Oreste che sparisce di scena e Cirillo che prende il potere ad Alessandria. Non sappiamo effettivamente se Oreste si dimise oppure fu sollevato dall’incarico di prefetto (ipotesi quest’ultima ritenuta più probabile), ma sappiamo che i Parabolani furono sottoposti all’autorità prefettizia: il numero degli aderenti a questo gruppo fu inoltre limitato ad un massimo di 500 (pochi se consideriamo che Alessandria era una città assai popolosa, pari ad alcune centinaia di migliaia di abitanti).
Cirillo, dopo il 415 non assunse invece alcun potere o autorità di cui già non disponesse, e a discapito di quanto lasciato intendere nel film, ossia che Ipazia fosse l’ultima filosofa pagana ad Alessandria prima che i cristiani la spazzassero via, possiamo fare diversi nomi di filosofi vissuti dopo di lei: Ierocle, Isidoro, maestro di Damascio, nonché Damascio stesso.
CIRILLO: COLPEVOLE O INNOCENTE?
Una delle frasi in mala fede attribuite a Cirillo, di cui però non vi è traccia in nessuna fonte (lo stesso film non la riporta) è “l’egizia è stata messa a tacere”. Al di là del fatto che una tale frase pronunciata in pubblico avrebbe certamente attirato i sospetti su chi l’avesse pronunciata; ma risulta quanto mai evidente l’assoluta assenza di una qualche congruenza con il contesto: a quale scopo Cirillo avrebbe dovuto utilizzare il termine “egizia” per indicare Ipazia, quando lui stesso e presumibilmente anche i suoi interlocutori erano originari della medesima terra?
Sinesio, cui abbiamo già accennato, viene presentato come una pecora nera tra i discepoli della filosofa, divenendo alla fine il deus ex machina del suo omicidio: costui morì, si ritiene, almeno due anni prima della propria maestra, e sappiamo che nella realtà egli era molto legato a lei, tanto che continuò a lodarla anche dopo molti anni dal loro distacco. Oreste viene presentato a sua volta come allievo di Ipazia: inizialmente pagano, la sua conversione al cristianesimo, anche se non mostrata nella pellicola, appare più come una soluzione di comodo; inoltre il suo ruolo nella trama del film risulta piuttosto marginale e sembra essere inserito solo per fornire il pretesto a Cirillo per accusare Ipazia.
L’analisi delle fonti che abbiamo citato ci offre già un panorama abbastanza dettagliato delle lacune che un’accusa è costretta a fronteggiare.
La saggista Silvia Ronchey, autrice dell’opera elogiata da Umberto Eco (vedasi paragrafo introduttivo all’articolo) esprime la ferma convinzione che Cirillo fosse colpevole oltre ogni dubbio. Anzi, ponendosi da sé la domanda “Cirillo fu colpevole della morte di Ipazia?” risponde “Certo” (S. Ronchey, “Ipazia. La vera storia”, ed. Rizzoli). La stessa autrice biasima il fatto che gli storici, cattolici o laicisti, non abbiano individuato in Cirillo il responsabile del delitto, e anzi muove loro il rimprovero di “aver colto la questione sbagliata”, ossia di essersi incentrati solo sulla compromissione dell’immagine della Chiesa di Alessandria (eppure, come mostrato poc’anzi, questo è il solo dato evidente). Non è dunque prospettabile, per la Ronchey, alcun beneficio del dubbio, nessuna presunzione di innocenza: il giudizio sulla persona di Cirillo dovrebbe partire da un postulato di colpevolezza tra l’altro non sostenuto da alcuna evidenza storica. Secondo alcuni, infatti, Cirillo sarebbe stato condannato da un fantomatico “Tribunale della Storia”, ma se esaminiamo le argomentazioni favorevoli alla condanna sulla base delle fonti antiche, da noi integralmente citate nei paragrafi che precedono, ci rendiamo conto di quanto le prime possano apparire fragili e dubbie.
E ancora, la saggista non manca di puntare il dito su “millenari silenzi e omertà della Chiesa”; ci si ritrova dunque, nostro malgrado, in una situazione simile a quella del ben più recente caso Orlandi: nonostante la completa assenza di prove si ritiene “silenzio colpevole” il semplice tacere di fronte ad un’accusa inconsistente (atteggiamento ben diverso dal rifiuto di fornire risposta).
LA DEMOLIZONE DELLE ACCUSE
Il movente non costituisce prova decisiva di un crimine, tuttavia sappiamo che in alcuni casi la presenza o, al contrario, l’assenza di un valido movente può indirizzare il convincimento del Giudice in una direzione o nell’altra. L’aspetto in assoluto più difficile da ricostruire nella vicenda risulta proprio il movente. Come già accennato in principio si può escludere per tutta una serie di motivi il movente della gelosia per la sapienza o la notorietà di Ipazia, in favore di un più convincente movente politico.
Volendo pure procedere ad una comparazione dei testimoni possiamo considerare le tre testimonianze temporalmente più vicine all’epoca dell’evento: da un lato abbiamo due cristiani, Socrate e Filostorgio (di cui uno ariano), contemporanei ai fatti. Costoro, pur non prendendo una diretta difesa di Cirillo, paiono non annoverarlo, se non addirittura escluderlo dalla cerchia dei sospetti. Dall’altro lato abbiamo un pagano, Damascio, che scrive a distanza di diversi decenni, forse un secolo dal delitto e accusa a testa alta Cirillo, adducendo una pretesa invidia nutrita nei confronti della filosofa. Sostenere che muovere un’accusa al tempo dell’omicidio sarebbe stato rischioso per il fatto che Cirillo era ancora in vita appare un misero esperimento di dietrologia: Alessandria negli anni a venire manterrà la propria maggioranza cristiana; e comunque tutto ciò si concretizzerebbe nell’assurda mossa di tributare piena fede ad un soggetto nato e vissuto parecchio tempo dopo i fatti.
Sappiamo che Cirillo era quasi una “star” dell’epoca, forse più famoso della stessa Ipazia. L’episcopo manifestò un carattere autoritario, anche sul versante politico; tuttavia la sua personalità pare connotata più dalla prudenza e dall’accuratezza piuttosto che da un’ambizione cieca e sfrenata. Egli ad esempio, sconfisse i propri avversari eretici utilizzando la dialettica piuttosto che la spada (chi è scettico può dare uno sguardo alla vasta produzione teologico-letteraria del vescovo): ciò spiega anche perché, a differenza degli ebrei che subirono la cacciata, molti gruppi eterogenei, sia cristiani che pagani, poterono convivere ad Alessandria.
Negli scritti di Cirillo non si trova traccia, purtroppo, della sua opinione personale su Ipazia, e nessun resoconto storico ci parla di una disputa teologica, o men che meno scientifica, tra i due, né di un litigio della filosofa con altri cristiani: tutti questi particolari ci fornirebbero forse un quadro più chiaro della situazione. È possibile che i due si conoscessero, magari anche di persona, ma è pure possibile che i due non si fossero invece mai incontrati. Possiamo anche ipotizzare che Cirillo provasse puro disinteresse nei confronti di Ipazia: principale avversario per il vescovo erano le eresie cristiane, piuttosto che il paganesimo, ormai ridotto a minoranza.
Se, come sostenuto dagli storici odierni, l’omicidio fu solo a sfondo politico, è agevole dubitare del coinvolgimento di Cirillo: sarebbe stato del tutto insensato sperare in una riconciliazione con Oreste tramite tale misfatto. Pare più congruo pensare che ai Parabolani, nella loro infinita brama di lotta abbiano voluto fomentare, tramite l’eliminazione di una delle più care amiche di Oreste, ulteriori e più gravi dissidi.
Risulta invece assai poco credibile che Cirillo, da astuto politico qual era, non abbia potuto prevedere che il delitto avrebbe gettato discredito sulla propria Chiesa, cosa che effettivamente accadde.