L’Islam e Lucera nel XIII secolo

Le origini della cittadina pugliese di Lucera (Foggia) affondano le loro radici nel mito. Abitata fin dal Neolitico, secondo il geografo greco Strabone (58 a.C. – 24 d.C.) fu una delle principali città dei Dauni, antica popolazione autoctona del Tavoliere che, assieme a Peucezi (centro della Regione) e Messapi (Salento) costituivano il principale corredo demografico della Puglia del VII-IV sec. a.C.. Lo stesso Strabone, nel Libro V cap.3 della sua Geografia, narra di come il fiero Diomede, re dell’Etolia, alleato degli Achei e guerriero indomabile (durante un duello con Enea, aveva osato ferire persino gli dei Afrodite e Ares, accorsi in aiuto del troiano), dopo la vittoria su Troia e un cattivo rientro nella sua Argo (Afrodite, a lui invisa, ne fece perdere il ricordo nelle menti dei familiari, che non lo riconobbero) continuò il suo peregrinare per l’intero Adriatico, sbarcando infine sulle coste pugliesi e impreziosendo la regione con la sua ventata civilizzatrice, fondando vari centri tra cui, appunto, Lucera, dove depose le armi e il Palladio (la scultura sacra ritraente Atena con lancia ed elmo corinzio e sottratta a Troia da Ulisse e Diomede) nel tempio di Atena fatto erigere in quella stessa città. E la Puglia, si sa, è sempre stata terra di approdi mitici: basti ricordare Enea, che il verso virgiliano fece sbarcare in Salento.
Anfiteatro di Lucera

Nel IV sec. a.C, con la dominazione romana, Lucera divenne importante Colonia Iuris Latini, dotata di un autonomo organismo giudiziario e fiscale, nonché di una propria zecca, e negli anni assunse crescente rilevanza come avamposto bellico sia nelle Guerre Sannitiche (più volte i Sanniti cercarono di assediarla, invano), sia in seguito durante la Guerra Civile, quando Cesare riuscì a conquistarla sottraendola alle truppe di Pompeo. In età imperiale fu fiorente centro militare e culturale, guadagnandosi lo status di Municipium: vi venne eretto uno splendido anfiteatro (tra i più antichi tuttora conservati in Italia, anteriore allo stesso Colosseo) in onore di Ottaviano Augusto, che spesso vi si recava per assistere ai Ludi Gladiatorii.

Roberto il Guiscardo nominato Duca di Puglia e Calabria da Papa Niccolò II
Oggetto di contesa tra Bizantini e Longobardi durante l’Alto Medioevo (VII – VIII sec.), distrutta, depredata e ricostruita più volte, col nuovo millennio le vicende di Lucera si fusero con quelle della conquista normanna del Meridione, seguendone le sorti. Nell’ambito delle molteplici lotte che logoravano il Mezzogiorno nell’XI sec., e che vedevano contrapporsi Bizantini, Longobardi, Arabi, Papato, i duchi di Napoli, Amalfi e Gaeta nonché i potenti abati di Montecassino, l’impavido popolo dei Normanni, abilissimi uomini d’armi provenienti dal’estremo Nord dell’Europa (Scandinavia e poi Francia), riuscì a farsi strada in loco servendo ora l’uno, ora l’altro fronte come manodopera mercenaria, e come mercenari valorosi riuscirono infatti a guadagnarsi svariate donazioni (tra cui la contea d’Aversa, da parte del duca di Napoli, nel 1030) arrivando, in poco tempo, a conquistare propri territori sottraendoli ai Bizantini e a costituire propri domini, come il ducato di Melfi nell’allora Puglia (1042). La conquista di questa regione, comunque, fu ad opera di Roberto il Guiscardo, della stirpe degli Altavilla (1025 – 1085), uomo d’arme normanno dagli ambiziosi obiettivi, che in poco tempo riuscì a imporre la propria presenza sull’intero Sud Italia, sbaragliando definitivamente i Bizantini e rispedendoli in Oriente. La sua strategia politico-militare, fatta di conquiste e di alleanze (non ultima quella con papa Niccolò II attraverso l’accordo di Melfi del 1059, in virtù del quale il normanno si dichiarava vassallo della Chiesa, ottenendo in cambio l’investitura di Puglia e Calabria) si rivelò vincente e lungimirante, tanto da essere proseguita dal fratello Ruggero I (1031 – 1101) che nel 1061 strappò la Sicilia agli Arabi, e dal figlio di questi, Ruggero II (1095 – 1154), che nel 1130 si fece incoronare, a Palermo, re di Sicilia e di Puglia, assoggettando sotto il proprio scettro tutti i territori del Sud e dando origine a quel vasto dominio che sarebbe sopravvissuto fino all’Unità d’Italia col nome di Regno di Napoli. È facile dedurre come gli Altavilla abbiano cambiato le sorti della storia del Mezzogiorno.
Ceramica saracena – Lucera museo civico. Foto scattata da Alberto Gentile, titolare del sito http://www.stupormundi.it.

E proprio in Sicilia è bene ora concentrare la nostra attenzione. Se è vero che i Normanni, nel termine di appena un secolo, erano riusciti a fondare un regno ed una propria dinastia in Italia, a tanto ardore e valore non sempre corrispose un assoggettamento rassegnato. Specie nell’isola, dove la popolazione araba più volte insorse contro i dominatori del Nord. Al tempo della morte improvvisa del sovrano Guglielmo II il Buono (1153 – 1189) gli Annales Casinenses riportano la notizia di una vasta ribellione musulmana nella Sicilia Occidentale, in particolare a Palermo, dove a seguito dei sanguinosi scontri coi Cristiani, numerosi Saraceni fuggirono sulle montagne attorno alla città, evento riportato anche dal cronista inglese Ruggero di Hoveden, il quale si trovava in Sicilia al seguito di Riccardo I Cuor di Leone. Da tempo stava crescendo il malcontento arabo nell’isola, a testimonianza che i precedenti conquistatori, a dispetto delle apparenze, non si erano piegati serenamente al nuovo dominio normanno. Tra false conversioni, riluttanti assoggettamenti alle leggi cristiane, efficaci ma non durature protezioni accordate dagli stessi sovrani alla comunità araba, in Sicilia si cercò comunque, con estrema fatica e con alterna fortuna, di far convivere due culture, due popoli, due universi diversi in tutto. Mentre, non scordiamolo, il resto d’Europa reclutava i Cristiani di buona volontà contro l’Islam infedele. E in effetti, la tolleranza accordata dal governo normanno alle genti arabe di Sicilia rappresenta, con tutte le difficoltà annesse, un unicum nel quadro geo-politico-militare del Vecchio Continente del XII sec.. Gli stessi cronisti arabi non poterono far a meno di riportare esempi di interessante integrazione quantomeno urbanistica, specie sotto il governo filo-islamico di Guglielmo II. “La più bella città di Sicilia” scrive il viaggiatore arabo Ibn Jubayr (1145 – 1217) “sede del re, è detta dai musulmani Ai Madinah e dai Cristiani Balarmuch (Palermo). Essa è il soggiorno principale dei cittadini musulmani, che vi tengono moschee, mercati propri e molti sobborghi.” E continua: “È singolare il re di Sicilia per la sua buona condotta e perché egli adopera molto i musulmani” riferendosi presumibilmente al vasto impiego di islamici nell’apparato amministrativo-burocratico-militare del regno.

La situazione, di fatto, ebbe un collasso proprio con la morte di Guglielmo II nel 1189: il sovrano aveva accordato ampia protezione ai Saraceni siciliani, protezione che con la sua morte venne meno, dando così spazio ad intolleranze e violenze anti-islamiche in tutta l’isola, rivelando tutta la fragilità di un “coinquilinato geografico” dagli intenti utopistici, seppur ammirevoli. E questa ancor oggi, nel XXI sec., è triste attualità.

Federico II e la sua corte in una antica miniatura

Una situazione che, di fatto, non cambia molto con l’ascesa al trono di Federico II di Svevia (1194 – 1250). Se lo storico belga Henri Pirenne nella sua Storia d’Europa dalle invasioni al XVI sec. (1936) descrive il regno di Sicilia del XIII sec. “ricco” e “apatico”, dove i numerosi abitanti (1 milione e 200mila, più dell’intera Inghilterra dell’epoca) sono abituati ad obbedire e a pagare i tributi, e la forte centralizzazione, accompagnata dal profondo impulso dato allo sviluppo agricolo, al latifondismo, alla cultura, ne fa un esempio di “dispotismo illuminato”, è anche vero che l’inquietudine araba continuò in quegli anni a impensierire le menti nordiche. Approfittando degli scontri tra le forze papali di Innocenzo III, custode del piccolo Federico ma di fatto reggente, e quelle tedesche anti-sveve, i Saraceni si allearono con queste ultime, conquistando varie cittadine della Sicilia Occidentale, tra cui Jato, Entella, Platani e Corleone. Inevitabile, per il Puer Apuliae, prendere in mano la situazione appena raggiunta l’età del comando: a partire dal 1220 rivolse una serie di campagne contro i ribelli, riuscendo a ricollocare sotto la Corona sveva, uno dopo l’altro, diversi centri sottratti dagli Arabi al controllo regio, tra cui anche Trapani e Agrigento. Quale fu il destino riservato ai riottosi, una volta ridotti all’inerzia? Nessuno spargimento di sangue, o per lo meno nessuna carneficina: Federico ordinò l’espulsione dalla Sicilia dei soggetti ritenuti leader delle rivolte e degli interi gruppi più “indomabili”. Molti di essi fuggirono in Africa settentrionale, laddove l’Islam era una realtà ormai solida e dominante, ma diverse migliaia furono deportati nel Meridione continentale d’Italia, e introdotti forzatamente all’interno di comunità urbane già esistenti, nel quadro di una sorta di “reinserimento sociale”. Lucera, nel Tavoliere delle Puglie, fu tra i centri maggiormente destinati all’accoglienza. E pur avendo cercato più volte di fuggire, gli Arabi luceresi furono sempre prontamente assoggettati e ricondotti a Lucera dalle forze sveve, tanto che, dopo aver deciso di rafforzare le difese attorno alla città per scongiurare ulteriori evasioni, nel 1239 con un decreto lo Svevo stabilì che tutti i Musulmani del Meriodione non siciliano sarebbero dovuti essere prelevati da tutte le medine sparse nei vari centri campani, lucani e calabresi e stanziati nella sola Lucera. E ne aveva ben donde: essi avrebbero rappresentato, per il governo imperiale, un’ottima risorsa economica e militare. A partire dal 1223, e fino al 1246 (quando fu soppressa una preoccupante rivolta a Jato, vicino Palermo), il centro dauno accolse in più ondate l’elemento islamico. Lucera sorgeva al centro di uno dei più estesi granai del Sud, e gli Arabi ivi condotti si rivelarono una formidabile fonte di manodopera agricola: si stima che, negli anni 20 del 1200, Federico potesse contare su un numero di braccianti saraceni compreso tra le 15 e le 30 mila unità. Non solo: come testimonia il prezioso Codice diplomatico dei Saraceni di Lucera, curato dallo storico Pietro Egidi nel 1917, moltissimi di loro coltivavano i terreni in qualità di coloni, pagando una regolare tassa d’affitto alla corona detta terragium. E nonostante l’appesantimento demografico subito in quei decenni dalla cittadina, accompagnato da una non sempre accondiscendente accoglienza locale, l’economia regia non fece altro che trarne vantaggio: ai Musulmani fu imposta un’ulteriore tassa, la generalis subventio, che veniva pagata in realtà da tutti i sudditi del Regno ma solo per essi ad un tasso maggiorato. Non dobbiamo pensare che Federico abbia voluto creare dal nulla una comunità agricola espropriando selvaggiamente terreni già esistenti: egli infatti intavolò negoziati immobiliari con monasteri e nobili locali, ripagandone i terreni sottratti con altri in altre località, oppure facendone i beneficiari del terragium pagato dai coloni. Insomma, una gestione agricola piuttosto equilibrata, che portò in pochi anni la comunità araba ad arricchirsi ma anche a promuovere, con la sua laboriosità, lo sviluppo produttivo del Tavoliere. 

Guerrieri saraceni in marcia

Da non trascurare è anche l’impulso dato dai nuovi arrivati all’artigianato, al commercio, ma soprattutto all’arte bellica: leggendaria era l’abilità del soldato islamico con l’arco. Arcieri e frombolieri mori era tra quanto di più temibile potesse trovarsi su un campo di battaglia in quel periodo. E le colonie arabe del Meridione rappresentavano, per la corona, una straordinaria fonte di reclutamento immediato, tanto che sia Federico, che suo figlio Manfredi ne attinsero a piene mani nelle loro guerre. A Cortenuova (1237), per esempio, si stima fossero stati impiegati non meno di 7mila arcieri, e 3mila nella battaglia di Benevento (1266) che vide Manfredi combattere contro le forze in campo di Carlo I d’Angiò e soccombere. Ma facciamo un passo indietro: la tolleranza federiciana, quasi tramutatasi in benevolenza, nei confronti dei confinati arabi di Lucera precipitò con la morte dello Stupor Mundi. Papa Alessandro IV (1199 – 1261), probabilmente scontento del disinteresse mostrato da Federico, nei decenni passati, ai tentativi di conversione degli infedeli, vanamente portati avanti da frati mendicanti inviati nella cittadina, a cui si aggiunsero serie mire di conquista sul Regno svevo, arrivò persino ad emettere la bolla Pia Matris (1255) contro Manfredi e gli stessi Musulmani di Lucera, inneggiando ad una crociata contro di essi. Ciò rappresenta un unicum nella storia medievale: di fatto si era costituita, data la stragrande maggioranza demografica e l’importanza economico-militare assunta con gli anni (si parla addirittura di 20mila mori ivi residenti), un’Enclave islamica nel Regno di Sicilia, in terra cristiana, dotata di moschee, scuole coraniche, propri magistrati autorizzati ad applicare la shariah, persino una propria monetazione. La guerra contro gli infedeli avrebbe dovuto indirizzarsi non solo verso la Terra Santa, ma anche qui in territorio italico: è l’invito che il Papa rivolse al Re d’Inghilterra Enrico III, il quale però, pur condividendone le intenzioni, per mancati appoggi e persistenti problemi economici decise di non intervenire. Con la sconfitta di Manfredi a Benevento e l’avvento al trono di Sicilia di Carlo I d’Angiò, vincitore a Tagliacozzo dell’ultimo discendente della casata Sveva, il giovanissimo nipote di Federico II Corradino (1252 – 1268). In appoggio degli Hohenstaufen, i Musulmani luceresi erano insorti, e la ribellione si protrasse per più di un anno. Contro di essa papa Clemente IV inneggiò a una nuova crociata, risoltasi nel 1269 con la fine dell’assedio e la riconquista angioina. Nonostante la repressione, Carlo mantenne un atteggiamento di accettabile tolleranza nei confronti della comunità islamica: ciò non può dirsi del figlio Carlo II detto lo Scannagiudei, poiché si era prodigato, nel 1289, di sterminare brutalmente la comunità ebraica di Napoli. Nell’apparato giuridico amministrativo angioino, i Musulmani, sebbene sottoposti ad una tassazione più pesante rispetto ai Cristiani, erano comunque considerati “proprietà” della Corona, e quindi meritevoli, come tutti i beni regii, di protezione, essendo previste addirittura pene pecuniarie per chi commettesse crimini contro di essi. Evidentemente gli Angiò tenevano in gran conto la preziosità economica di questa gente. Tuttavia, nel 1300 Carlo II mantenne fede al suo soprannome prendendo una decisione drastica: disperdere, con qualunque mezzo, la colonia araba di Lucera. Ufficialmente, per ripristinare la religiosità cristiana nella città, per quasi 80anni scalzata dalle preghiere rivolte alla Mecca e dai malefici influssi della comunità islamica a danno delle devote anime degli abitanti originari: non dimentichiamo che Carlo II era nipote di Luigi IX di Francia il Santo, che tanto si prodigò nella lotta contro gli infedeli musulmani e gli stessi ebrei, e tale animosità religiosa senza dubbio fu ereditaria. Ma a ciò si aggiunsero anche motivazioni squisitamente economiche: come sottolinea l’Egidi, a Carlo II serviva molta moneta sonante per finanziare la sua lotta contro Federico III d’Aragona per il controllo sulla Sicilia, nell’ambito della famosa guerra dei Vespri Siciliani. Il prezioso e abbondantissimo grano lucerese, sequestrato agli Arabi assieme a tutti i loro beni, sarebbero serviti a pagare uomini d’arme, alleati nonché i ricchi banchieri di Firenze per il sostegno bellico.

Castello di Lucera

L’ordine fu dato nell’agosto del 1300: a capo dell’operazione Giovanni Pipino di Barletta, conte di Altamura, che all’alba del 24 guidò l’assalto a Lucera, con l’ordine di sbaragliare definitivamente l’elemento arabo e restituire la città alla Grazia del Dio dei Cristiani. La maggior parte dei Musulmani fu cacciata dalla città, altri furono massacrati in centinaia ma soprattutto venduti come schiavi. Si calcola che almeno 10mila di essi, nei mesi successivi, furono oggetto di traffici in vari porti del meridione, tra cui Trani e Bari. La sbrigativa e quasi certamente non sentita conversione al Cristianesimo ne salvò ben pochi. L’intervento di Carlo pose fine agli 80 anni di storia della Lucera Saracenorum (o Lugêrah, secondo l’accezione araba) il cui nome fu cambiato, su iniziativa dello stesso angioino, in Civitas Sanctae Mariae. Un tentativo infruttuoso di seppellirne la memoria ai posteri.

BIBLIOGRAFIA

– J. Taylor, Luceria Sarracenorum: una colonia musulmana nell’Europa medievale, tratto da Archivio Storico Pugliese, 52, 1999 pp. 227 – 242
– A. Metcalfe, The Muslim revolts and the colony of Lucera, in The Muslims of Medieval Italy, Edinburgh University Press, 2009 pp 275 – 294
– G. Amatuccio, Saracen Archers in Southern Italy, in Journal of Society of Archer-Antiquaries, vol. 41, London 1998 pp.76-80
– (a cura di) P. Egidi, Codice diplomatico dei Saraceni di Lucera, ed T. Pierro, Napoli 1917
– R. Licinio, Lucera, in Federiciana (2005), Enciclopedia Treccani

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