Primi resoconti sul Giappone di viaggiatori europei (16° secolo)
Vento divino
Perfino Marco Polo, pur avendo passato quasi vent’anni in Cina, non c’era mai stato: ne aveva solo sentito parlare. “Zipangu è un’isola in levante, ch’è ne l’alto mare 1.500 miglia.” I suoi abitanti sono di pelle chiara, civili e di bell’aspetto, venerano idoli e sono indipendenti da qualsiasi nazione straniera. L’oro vi si trova in abbondanza, ma il paese è chiuso al commercio con l’estero: il palazzo del re ha il tetto coperto d’oro, le camere rivestite d’oro spesso due dita…
Attirato da queste allettanti descrizioni, nel 1281 il Gran Khan parte alla conquista di Zipangu, la sua armata vi approda e ottiene alcuni successi. Ma un giorno comincia a soffiare un forte vento di tramontana e per evitare che le navi cozzino le une contro le altre, la flotta mongola prende il largo.
Quando è lontana quattro miglia dalla costa, il vento aumenta e molte navi sono distrutte. Si tratta del famoso kami-kaze, vento mandato dagli dèi a salvare l’indipendenza del Giappone.
Dopo di che, silenzio. Dovranno passare quasi tre secoli perché i primi europei vi mettano piede. Considerata la storia di quell’epoca, è ovvio che si tratta di portoghesi.
I barbari del sud
Dalla Cina il Giappone antico non ha preso solo la scrittura a ideogrammi, ma anche molte espressioni verbali e modi di pensare.
In giapponese la Cina si chiama Chûgoku 中国,“paese di mezzo”. In effetti gli antichi cinesi (come probabilmente quelli di oggi) vedevano se stessi come il centro del mondo e definivano in relazione a questo gli altri paesi e popoli.
Tutti coloro che vivevano fuori dal Celeste Impero erano considerati barbari. C’erano quindi barbari del nord, dell’est, dell’ovest e del sud: quest’ultima definizione comprendeva i popoli dell’India e del sud est asiatico, che ci vuole una bella presunzione per considerare “barbari”.
La definizione passa tal quale nel linguaggio giapponese, dove Nanbanjin 南蛮人vuole dire appunto “barbari del sud”. I portoghesi sono chiamati così perché le loro navi inizialmente arrivano dall’India o da Malacca, dove essi hanno fondato i primi avamposti commerciali. Macao diventa colonia portoghese solo nel 1552. Perciò viene probabilmente da Malacca la giunca che nel 1542, sospinta da un tifone, approda a Tanegashima, un’isoletta a sud del Kyushu, la più meridionale tra le isole maggiori dell’arcipelago giapponese.
A bordo ci sono anche tre marinai portoghesi. Forse si tratta di avventurieri in cerca di fortuna che si sono aggregati a una banda di pirati malesi o cinesi.
Il bastone di ferro
Un resoconto dello sbarco fortunoso si trova nella Peregrinaçao di Fernão Mendes Pinto, un resoconto pubblicato postumo (1614) delle avventure di questo esploratore portoghese, il quale sostiene di essere uno di quei tre marinai. Con tutta probabilità si tratta di una bugia: Fernão non fa che riferire una storia sentita durante qualche viaggio o magari in una bettola di Lisbona, dove i superstiti raccontano le meraviglie dei primi viaggi oltre gli oceani.
Il racconto è stringato. Fernão scrive che i nativi amano andare a caccia con il falco, a pesca con i cormorani, e descrive l’enorme impressione suscitata dagli archibugi dei tre marinai. I giapponesi riusciranno in seguito a copiarli, producendo i Tanegashima teppô, bastoni di ferro di Tanegashima.
Già quelle prime imitazioni mostrano un’attitudine tipica giapponese: copiare ciò che fanno gli altri adattandolo a se stessi. La nuova arma è più leggera di un archibugio e deve essere ben bilanciata perché si punta senza appoggiarla alla spalla, ma portandola semplicemente all’altezza degli occhi.
Questo modo di prendere la mira è lo stesso usato con lo yumi, l’arco lungo: arma che i giapponesi usano con grande abilità, come viene notato dai primi viaggiatori europei.
Fake news del XVI secolo
La seconda testimonianza di cui disponiamo è un riassunto, scritto in spagnolo da Garcia de Escalante, dei racconti di un marinaio galiziano di nome Pedro Diez. Costui afferma di essere stato in Giappone nel 1544. In quelle poche righe si trova un’affermazione incredibile: i giapponesi non possiedono spade né lance! Poiché viene smentita da tutte le altre fonti, viene da chiedersi se il buon Pedro non abbia scambiato per il Giappone qualche pacifica isoletta dei mari del sud.
Perché vi sia una testimonianza affidabile bisogna arrivare al dicembre 1547, quando il capitano portoghese Jorge Àlvares incontra a Malacca un missionario spagnolo di nome Francisco Xavier e non si lascia sfuggire l’occasione di interrogarlo a proposito di quel paese sconosciuto.
Oltre a fornire un resoconto molto più esteso dei precedenti e ben più attendibile, Àlvares ha con sé Yajirô, un nobile giapponese di Kagoshima (Kyushu) il quale mastica qualche parola di portoghese.
Conversando con lui e leggendo gli appunti del capitano, Xavier si convince che il Giappone è un paese molto più civilizzato di quelli che ha visto finora: una terra di gente amichevole, che offre ai missionari grandi opportunità.
Questa convinzione avrà come conseguenza il viaggio di Xavier, salpato da Goa nell’aprile 1549 approdando a Kagoshima il 15 agosto, con Yajirô come interprete. In meno di due anni, il futuro santo fonderà nel Kyushu la prima comunità cristiana.
Ma torniamo al resoconto di Àlvares, una fonte storica di grande suggestione che vale la pena di leggere.
Si bagnano nude prima del sorgere del sole
Da capitano di vascello, Àlvares esordisce enumerando i porti sulla costa del Kyushu. Quindi passa a descrivere l’interno del paese: una terra fertile, ben coltivata, da cui si ottengono tre raccolti l’anno. Elenca i tipi di frutta, gli ortaggi uguali a quelli che ci sono in Portogallo e quelli che non ha mai visto. Descrive le case con i pavimenti coperti da stuoie di paglia pulitissime, i giardinetti dove sono piantati ortaggi e fiori, nei quali razzola qualche gallina. Parla del cibo così diverso, però gustoso: l’unico che non è proprio riuscito a mandar giù è quello “che all’aspetto sembra formaggio fresco, ma è fatto con i fagioli”, vale a dire il tofu.
Da buon marinaio mette in guardia contro i tifoni del mese di settembre, preceduti da una sottile foschia che ne preannuncia l’arrivo, così violenti da sfracellare contro la costa qualunque vascello.
Racconta di vulcani, terremoti, sorgenti solforose e pozze calde. Di gente che si fa il bagno due volte al giorno. Di kimono e sandali di paglia, uomini con il capo rasato sulla fronte e i capelli raccolti in cima, donne il cui vanto sono i lunghi capelli portati sciolti sulle spalle.
A volte nelle sue descrizioni si può cogliere lo stupore di fronte a scene di una bellezza incomprensibile.
“In estate e in inverno, sia nei fiumi che nel mare, ho veduto molte donne di quel luogo, prima del sorgere del sole, bagnarsi nude nell’acqua. Tre volte esse immergono la testa sott’acqua, ogni volta per un istante o due, perfino se sta nevicando. Poi si vestono, riempiono di quell’acqua recipienti di legno e se ne vanno, spruzzandola con le mani lungo la strada, mormorando preghiere che non potevo comprendere, finché arrivano a casa. Nello stesso modo esse la spruzzano nelle loro case. Mi è sembrato che fosse una pratica devozionale, perché non tutte lo fanno.”
E non sono censurati per questo
I gesuiti, nei decenni seguenti, scriveranno con regolarità resoconti dal Giappone da inviare a Roma, al Generale della Compagnia, per informarlo dei progressi delle missioni.
A differenza da essi, Àlvares non esprime mai un giudizio morale sulle abitudini di vita giapponesi. Il suo è uno sguardo oggettivo, che si limita a cogliere le differenze e gli usi in funzione di una migliore comprensione di quel mondo alieno.
Quando parla dei bonzi, i monaci buddisti, scrive così: “Sono costretti sotto pena di morte a evitare rapporti sessuali con donne. Così essi si dilettano nella sodomia con i giovani ai quali insegnano, e non sono censurati per questo.” In un secolo dove in Spagna e Portogallo l’omosessualità è punita con il rogo, non aggiunge una parola di commento.
In ogni frase si colgono immagini vivide, molto diverse dagli stereotipi che ancora oggi accecano gli stranieri quando si accostano alla tradizione giapponese: come l’immagine di una donna sottomessa, proprietà del marito, o di una società opprimente in modo ineluttabile verso chi sta in basso.
Ecco che cosa scrive a proposito della condizione femminile: “Le buone mogli sono molto riverite dai mariti, i quali sono soggetti ai loro comandi. Queste donne vanno ovunque esse vogliono, senza chiedere il permesso ai mariti.”
E a proposito degli schiavi: “Il paese ha una quantità di schiavi catturati in guerra, e ci sono anche quelli che diventano schiavi per debiti. Gli schiavi godono di una certa libertà nel senso che, se non vogliono stare con il loro padrone, possono chiedere di essere venduti, e il padrone è obbligato a trovare compratori. Se essi scappano, nessuno può fare loro del male.”
Una visione troppo ottimista?
In effetti, parlando del Giappone, Àlvares si riferisce alla sola parte che ha visto, la costa occidentale del Kyushu. Riferisce che i nobili accolgono gli stranieri con grande rispetto, li invitano a mangiare e bere in loro compagnia, pongono mille domande: perfino i daimyô (Àlvares li chiama “re”) sono ben disposti nei loro confronti.
Ben diversa sarebbe stata la sua impressione se si fosse spinto fino a Miyako (Kyoto), la capitale del Giappone, contesa tra gli eserciti dei signori della guerra.
I soli fatti d’armi a cui assiste, sono le spedizioni punitive contro le bande di briganti che infestano le campagne. “Se arriva la notizia che qualche ladro è sulla strada o si nasconde nei boschi, la nobiltà si raduna per dare loro la caccia fino alla morte. Chi li uccide è tenuto in grande stima.”
Sia pure in questi regni bene ordinati, la gente è abituata a combattere. “Tutti gli uomini portano spade, grandi e piccole, che sono abituati a portare fin dall’età di 8 anni. Possiedono molte lance, alabarde e altre armi con punte e lame ben affilate. Tutti loro, come gli inglesi, sono bravi arcieri con l’arco lungo. Cotte di maglia e ferro sono usati per le armature, non molto spesse e colorate. Perfino quando mangiano in casa propria, gli uomini tengono sempre la spada a portata di mano.”
Forse Àlvares, malgrado la sua grande capacità di osservazione, non ha informazioni sufficienti a vedere nell’insieme la realtà giapponese dell’epoca: Sengoku Jidai, l’era in cui tutti sono in guerra contro tutti e che di lì a poco subirà un’accelerazione, con la folgorante ascesa del condottiero Oda Nobunaga. Epoca di grandi opportunità per gli stranieri, è vero, ma anche di instabilità e pericolo.
L’opera di cristianizzazione del paese, avviata da Xavier, dopo un successo iniziale più clamoroso nel Kyushu sarà travolta da questo tifone e andrà a sfracellarsi contro la pace tombale imposta dagli Shogun Tokugawa, con l’espulsione dei missionari e la chiusura del paese agli stranieri.
Fonti:
– Laura Minervini, Il Giappone di Marco Polo, redazioni e redattori a confronto
– George Samson, A History of Japan, ed. Tuttle
– Nihon no Rekishi, Tenka Tôitsu he no Michi, part 1 & 2
– Cleve Willis, Captain Jorge Àlvares and Father Luis Frois, two early Portuguese Description of
Japan and the Japanese, Journal of the Royal Asiatic Society