Mi chiamo Double Fuddle, doppia sbornia. O almeno questo è il nomignolo che non sono più riuscito a scrollarmi di dosso dal giorno in cui quel bastardo di Jake si avventò su di me. Però a terra, quella mattina d’inverno, finì lui. Tra le scroscianti risate dei suoi amici, sputò tra i sassi un paio di denti e la sentenza che solo una sbornia doppia avrebbe potuto tenerlo steso a quel modo.
Nuvolette di vapore mi condensavano il fiato mentre osservavo quei brutti ceffi tentare di accerchiarmi. Ma le risate cessarono di colpo, sostituite da uno sconnesso coro di imprecazioni, quando quel tale che chiamavano Pitt cadde al suolo con una strana espressione immortalata negli occhi sbarrati e vitrei, mentre un rigagnolo di sangue gli colava lento dal naso.
Il mio vero nome è Niyolshiye e sono nato tra i Navaho delle Verdi Pianure. Il mio nome significa figlio del vento ed era come il vento che percorrevo quelle terre, assieme ai miei fratelli. Volavamo in un turbine di gare e risate fin sopra la collina degli dei da dove guardavamo, con occhi colmi di meraviglia mista a soggezione, il Sacro Bosco degli Spiriti che si spandeva a perdita d’occhio. Gaagii si sedeva allora su un masso tra gli alberi maestosi e, affilando con gesti sicuri punte di freccia, raccontava le leggende tramandate dagli antichi sciamani sulle prodigiose creature che un tempo avevano abitato quei boschi.
“Ma ora tutto è finito“ era la cupa frase con cui terminava ogni racconto.
Io scuotevo la testa: dentro di me sapevo che nulla, invece, era finito davvero.
Le percepivo nell’aria, quelle creature. Negli aliti leggeri che facevano muovere, senza vento, qualche pigra foglia. Nel ruscellare argentino dell’acqua che giungeva talvolta alle mie orecchie come un leggero trillo di mille campanelle. Nel canto soave di invisibili uccelli tra il fogliame.
E poi, un giorno, la vidi.
L’eterea fanciulla avanzava scalza sul muschio in un’alba di primavera, quando le gocce di rugiada attendono con ansia il sole per brillare come diamanti. Non appena si accorse dei miei occhi scuri puntati su di lei, la creatura si sciolse nel più soave sorriso che mai mi fu concesso di vedere su un volto di donna. Si portò un dito alle labbra, come suggello del nostro segreto, e scomparve con la stessa grazia con la quale l’avevo vista danzare, avvolta in una veste sottile come nebbia.
Ne sono passate di lune e di sangue da quei giorni.
Odori acri come la polvere da sparo si sono insinuati fin dentro al cervello, marchiandolo. Echi di scoppi assordanti rimbalzano ancora in me, portando alla memoria visioni straziate di urla e carni strappate dalle ossa. Furia di stupidi uomini bianchi, sempre pronti a macellarsi in inutili guerre.
Eppure il sergente O’Malley, nonostante tutto, mi piaceva. Era un simpatico e logorroico vigliacco, dalla gracchiante risata sempre pronta, intento a seguire più gli ordini della sua inestinguibile sete che quelli dei suoi superiori. Certo, se mi fosse importato qualcosa della fottuta guerra in cui mi avevano coinvolto a forza, avrei trovato il suo gretto comportamento disprezzabile, ma passare i peggiori momenti degli scontri rintanato in qualche buco con lui e la compagnia di un paio di bottiglie, anziché sotto il fuoco dell’artiglieria incrociata, alla fine mi era apparsa la scelta migliore per la salvaguardia della pelle. Dal momento che il Generale Thornston, per gli insondabili misteri che avvolgono la mente umana, si fidava soltanto di noi per portare i dispacci da un distaccamento all’altro, era facile per me e O’Malley prendere il largo, eseguendo gli ordini, e ricomparire ad acque più calme.
Mi confidò quella sua folle idea una sera, frammista ai soliti biascicati racconti di prodezze da bordello e bevute epiche, mentre ingollava whisky da una piccola bottiglia smaltata. La trovai pessima fin da subito ma questo non bastò a evitarmi, il giorno successivo, il manipolo di gentaglia che si era data appuntamento per discutere il “piano geniale”. In parte disertori, in parte predoni per elezione e tutti con la baldanza di chi è sopravvissuto alla guerra credendo perciò di essere immortale, si misero di buona lena a progettare di assaltare il treno che trasportava i rifornimenti a Yucon. A loro dire, la sorveglianza sarebbe stata sguarnita a causa dell’ingente richiamo di truppe altrove, avvenuto pochi giorni prima.
Ho sentito dire da qualcuno che se un uomo con una pistola incontra un uomo con un fucile, l’uomo con la pistola è un uomo morto. Dalla mia posso aggiungere che se questi ne incontrano un terzo con una mitragliatrice sono entrambi uomini morti.
Il macchinista era stato debitamente freddato con un preciso colpo di fucile e il treno, privo di controllo, stava progressivamente perdendo velocità.
Sciamammo ai fianchi del convoglio come mosche fameliche dirette a un pezzo di sterco, ma dal vagone sul retro della sbuffante locomotiva una porta si aprì scivolando fino a rivelare proprio il potente metallico dispensatore di morte a ripetizione. La raffica scoppiò, improvvisa, e solo i miei fulminei riflessi mi consentirono di sfruttare l’impercettibile vantaggio che mi aveva dato la vista di un brillio sulle lucide canne dell’arma: mi gettai a terra prima che l’arco descritto dal soldato che la manovrava raggiungesse la mia posizione.
Rovinai cadendo lungo il pendio scosceso mentre i proiettili sibilavano tutt’intorno come infiniti schiocchi di frusta, mescolati a richiami concitati e urla di dolore. Punte di pietre mi ferirono scorticandomi, ma rimasi immobile, fingendo di essere morto e attendendo che tutto fosse finito. Quando mi rialzai, fui ben lieto di constatare che non avevo niente di rotto né fori addosso.
Fa caldo oggi. Maledettamente caldo.
Il sudore mi impregna il corpo e la ferita sul collo continua a pulsare, bruciando più del sole e della sete che non mi danno tregua.
I miei passi sono lenti e stanchi mentre osservo a capo chino l’ombra che mi precede solo di poco.
Stupido.
Stupido ubriacone di un O’Malley. Tante precauzioni nell’esercito confederato per fare poi la fine dell’idiota in una rapina da quattro soldi.
Mi fermo un instante e volto indietro la fulva testa. Un ultimo soffocato nitrito di rimprovero a quel cadavere che mi trascino dietro da un po’ a causa del suo stivale malamente incastrato nella staffa della sella che mi porto addosso. Ma ancora per poco. Il Sacro Bosco, la mia casa, è ormai vicino.