I silenzi e le parole del deserto. Tra memoria e ascolto

Nelle interazioni che avvengono nell’attuale periodo storico, il riferimento al deserto rimane una indicazione del nulla. Concettualmente, quindi, ciò che non esiste, ciò che non possiede una propria vita, costituisce un deserto. Tale idea è stata poi trasposta anche in considerazioni legate all’animo umano. L’aridità di sentimenti costituisce un deserto interiore. Tutto ciò, spinge quindi in modo costante verso una lettura negativa del circostante. Si tratta, però, di posizioni che rimangono legate a sguardi disattenti a un movimento della natura che racconta di trasformazioni, di novità improvvise, di percorsi esistenziali.

 

Un aspetto del deserto del Marocco

 

 

Il deserto non era deserto

Sul piano scientifico sono diverse le indagini che hanno fornito dei dati significativi. Nel 2015, in uno studio pubblicato su Nature Communications, un gruppo di ricercatori guidati da Charlotte Skonieczny  (Institut Français de Recherche pour l’Exploitation de la Mer) ha fornito alcune evidenze.  In particolare è stata presentata la prova di un sistema fluviale antico in profondità sotto le sabbie del deserto del Sahara. Secondo il team, questi paleo-alvei persi si sono periodicamente riattivati come sistemi fluviali durante i cicli più caldi del clima, che sono chiamati ‘periodi africani umidi’ (AHPs). La più recente fase di AHP ha avuto termine 6500 anni fa.

Skonieczny e colleghi sono stati in grado di identificare il paleo-fiume grazie a un sistema satellitare orbitale denominato ‘ Phased Array’, tipo L-band Synthetic Aperture Radar (PALSAR). PALSAR, in pratica, può scrutare diversi metri sotto le sabbie sahariane, e rilevare l’acqua fossile che ancora scorre lì.

In tale contesto, il team ritiene che il fiume si estenda per oltre 520 km sotto il paesaggio desertico. Può essere collegato ad un sistema paleo-acquatico molto più grande, denominato ‘la valle del fiume Tamanrasett’. Quest’ultimo, è stato descritto come un possibile vasto sistema idrografico antico che, secondo la ricerca cit.  si potrebbe collocare al 12° posto tra i primi 50 bacini idrografici più grandi del mondo.

Dal 2015 al 2017: in Arabia Saudita

Nel 2017, in Arabia Saudita, un team di esperti australiani studia una serie di costruzioni in pietra individuate con ‘Google Earth’. E pubblica i risultati della ricerca sulla rivista ‘Arabian Archeology and Epigraphy’. Scoperte da tempo, non era stato possibile esaminare le diverse formazioni in loco per il divieto saudita. Attualmente, però, con strumenti satellitari, le formazioni sono state visualizzate con particolare chiarezza, e censite. Si tratta di quattrocento ‘cancelli di pietra’. I reperti vengono indicati con questo termine per la loro particolare forma. Alcuni cancelli sono dotati di mura di oltre tre metri. Si sviluppano per una lunghezza compresa tra i tredici e gli oltre cinquecento metri. I reperti si trovano posizionati nella regione di Harrat Khaybar. Dall’alto, le costruzioni appaiono con forme variabili che ricordano degli antichi recinti. Le prime ipotesi degli esperti collocano l’origine delle costruzioni tra i 2mila e i 9mila anni fa, quando alcune popolazioni nomadi popolavano l’area.

 

2019. La nuova scoperta

Mentre si diffondevano gli studi cit.  arriva la notizia che nel Sahara occidentale gli archeologi avevano scoperto quattrocento monumenti in pietra. L’individuazione di questi reperti è avvenuta in un territorio conteso da Marocco e Repubblica Araba Democratica  dei  Sahrawi. Le strutture risalgono a oltre 10mila anni fa, sono posizionate su un terreno di 9 km quadrati.  Alcuni di questi monumenti sono dei dolmen, cioè delle tombe megalitiche preistoriche. Altri sono dei cumuli e dei goulet (imboccature, gole), due file di rocce che corrono parallele per poi allontanarsi.

L’area di Tifariti, un tempo, era un bacino naturale, e sarà stato un luogo di interesse per i migranti di migliaia di anni fa. Esiste al riguardo una teoria. Siccome il Sahara si era seccato a metà dell’Olocene, tra cinque e seimila anni fa, questa poteva essere un’oasi, una delle poche aree ove l’acqua era rimasta. E dove c’era acqua, probabilmente erano presenti persone. In definitiva, la varietà di questi monumenti, riflette la diversità di luoghi e di culture da cui queste persone sono emigrate.

 

Dalla visione non statica a quella spirituale

Le precedenti annotazioni sono servite a presentare delle “novità” che emergono da aree desertiche. Si tratta solo di alcuni esempi. Tale realtà suggerisce di avvicinare il tema del deserto secondo schemi non statici. In realtà, questo nuovo percorso di “conoscenza” delle zone desertiche si incontra, e interagisce, con un altro aspetto del deserto: quello spirituale. Tale affermazione si basa, ad esempio, su molteplici indicazioni bibliche legate all’Antico Testamento.

Nel Libro del profeta Osea, capitolo 2,16 , si trova un’affermazione significativa: “(…) Perciò, ecco, io la sedurrò, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore”. Tale frase ha colpito gli esegeti perché delinea un rapporto di amore. Ciò è confermato dalle affermazioni successive.  “Le renderò le sue vigne e trasformerò la valle di Acor in porta di speranza. Là mi risponderà come nei giorni della sua giovinezza, come quando uscì dal paese d’Egitto. Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nell’amore e nella benevolenza, ti farò mia sposa nella fedeltà e tu conoscerai il Signore” (vv. 17-22).

In definitiva, si rinnova un’intesa tra il Dio dei Padri e il popolo eletto, Israele. È una dinamica segnata dall’intimità, da speranza, da una risposta di quanti affrontarono l’esodo per uscire dall’Egitto. L’amore divino è eterno, e diventa  sigillo di giustizia, di benevolenza, di fedeltà. In tal modo sarà possibile per Israele conoscere il volto del Dio vicino.

Secondo un’opinione prevalente, il Libro di Osea venne scritto durante il  Regno di Israele attorno al 750-725 a.C.. È un testo significativo ove l’attenzione degli studiosi si è anche concentrata sul riferimento al deserto. Ci si è chiesti: che intendeva il profeta con l’indicazione di un percorso speciale? Perché l’amata è condotta dall’amato nel deserto?

 

Condurre nel deserto

Probabilmente il condurre nel deserto ha una valenza simbolica, ma può anche costituire un dato reale. Sul piano simbolico si tratta di un cammino comune ove progressivamentee vengono sempre più attenuate le tensioni del momento, ove ci si allontana da problemi e criticità. Il messaggio pedagogico è chiaro: non ci si avvicina a Dio con il cuore in tumulto e con la mente pervasa da sentimenti di non pace. Al contrario, l’incontro con il Signore è prima di tutto recepimento di quella Vita divina che consente di vedere il circostante con altri occhi. Con altro sguardo. In tal senso è la Parola che guida non il vissuto personale.

La valenza simbolica non esclude, però, dei momenti esperienziali. L’indicazione di inoltrarsi nel deserto non spinge all’isolamento (alla chiusura) ma alla solitudine (al ritrovarsi nel proprio essere creaturale). Non “taglia” i rapporti con il mondo circostante (processo di eliminazione) ma consente di riflettere meglio sulle relazioni, sugli avvenimenti, sulle scelte realizzate e da compiere (processo di globalità in un disegno di vita).

 

Valenza simbolica e vissuto esperienziale

Nel contesto delineato, sono diverse le persone che nel lungo arco della storia della Chiesa hanno voluto entrare nel deserto e vivere in aree certamente poco ospitali.  Tra queste, si può ricordare la figura di Charles de Foucauld (1858-1916, prossimo ad essere canonizzato). La sua fu una vita fatta di contemplazione, preghiera e servizio agli ultimi. Interagì  con gli “uomini blu” del deserto: i tuareg.  Con gli sconfinati orizzonti sahariani e il loro assoluto silenzio, rotto dalle preghiere che i tuareg intonavano cinque volte al giorno, ebbe inizio un percorso di testimonianza evangelica.

Nella vita di de Foucauld fu il deserto a riportarlo sulla via della fede, a fargli scoprire che l’inquietudine del cuore trova pace solo nelle ore di preghiera, ai piedi dell’Eucarestia. Proprio questo anelito lo spinse dove nessun religioso era mai giunto: a Hoggar, nel profondo sud dell’Algeria.  Come Gesù a Nazaret, voleva che la propria presenza testimoniasse solo bontà e fratellanza.

Nell’eremo di Beni-Abbès, nella provincia di Orano, al confine con il Marocco, aveva messo questi cartelli: “Se qualcuno vuole essere mio discepolo, rinunzi a se stesso, prenda la croce e mi segua»; «Fatevi tutto a tutti, con l’unico desiderio di donare a tutti Gesù”; “Vivere oggi, come se dovessi morire stasera, martire”. E quando la prima guerra mondiale, sconfinando dal continente europeo, armò la mano che lo uccise proprio nel suo eremo di pace, quella morte fu semplicemente l’esito più conforme a una vita che, dopo la conversione, era stata pura lode di Dio, rimettendosi totalmente nelle sue mani, fino a dissolversi come il chicco di grano, che tuttavia qui vediamo rinascere anche nel deserto e diventa ancora vita per quanti ne sanno raccogliere l’arduo esempio.

Era il 1° dicembre 1916. Alla sua morte, il religioso lasciò anche un dizionario tuareg-francese in quattro volumi, un dizionario di nomi propri tuareg-francese e una raccolta di poesie e proverbi. Durante la sua vita Charles de Foucauld non riuscì a fondare una congregazione religiosa, nonostante ne avesse scritto la regola. Ma dopo la morte crebbe una multiforme, grande famiglia spirituale –  grazie soprattutto all’opera instancabile di René Voillaume -, oggi comprendente 19 gruppi organizzati in questo modo: 11 Istituti religiosi; 2 Istituti secolari; 6 associazioni pubbliche e private di fedeli. L’insieme costituisce l’Associazione generale delle fraternità di Fratel Carlo di Gesù, con circa 15.000 membri, riconosciuta di diritto pontificio nel 1968.

 

Fratel Charles de Foucauld

 

 

Il deserto fiorirà

A questo punto, viene da chiedersi: quale prospettiva deriva oggi dal deserto?  Se per un momento facciamo un passo indietro di molti secoli c’è una frase del profeta Isaia  (765 a.C. circa – VIII sec. a.C.) che contiene una indicazione particolare. Nel capitolo 35 del suo Libro si trova questa affermazione: “Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa. / Come fiore di narciso fiorisca; sì, canti con gioia e con giubilo. Le è data la gloria del Libano, lo splendore del Carmelo e di Saròn. Essi vedranno la gloria del Signore, la magnificenza del nostro Dio” (vv. 1-2).

Evidentemente, Isaia desidera trasmettere al popolo di Israele, segnato da molte prove, un messaggio di sostegno e di speranza. Eppure, nelle sue parole, si trova anche una prospettiva di lungo periodo che investe proprio la natura, e le regioni desertiche. Si trovano infatti, nell’attuale periodo, delle realtà mirate a trasformare terreni desertici per investire in piani agricoli. Si riportano qui di seguito alcuni esempi.

 

L’oasi di Ghardaya in Algeria

Ogni oasi ha un caratteristico sistema di irrigazione: per esempio, a Ghardaya (valle del Mozab) nel Sahara, l’acqua scorre sotto il letto asciutto di un antico fiume. Oltre un milione di palme da dattero vengono irrigate grazie a un capillare sistema di dighe, sbarramenti e pozzi che canalizzano, smistano e dosano l’acqua, facendo sì che in tutti i giardini ne arrivi la giusta quantità.

 

 

Le oasi di Souf in Algeria

Nella regione del Souf, a Sud-Est di Chott Melrhir, la falda freatica è abbastanza vicina alla superficie. Il sistema di oasi mostra un altro metodo ingegnoso per bagnare i palmeti, chiamato tecnica di Ghout. Anziché irrigare la superficie con pozzi e canali, si scavano per le palme dei veri e propri crateri, in modo che queste possano raggiungere direttamente con le loro radici l’acqua della falda: uno stratagemma che evita le dispersioni dovute all’evaporazione e offre alle piantagioni una valida protezione contro il vento e la sabbia.

 

Nuovi sistemi di coltivazione nel deserto in Algeria

 

Progetto Oasis Josefowitz in Israele

Una squadra di scienziati della Ben-Gurion University ha realizzato e testato, nei pressi dalla stazione di ricerca agricola Hatzeva Yair, una struttura finalizzata alla produzione ecosostenibile di colture ortofrutticole in zone aride. Nelle regioni meridionali d’Israele le piogge sono scarse e la temperatura media ad agosto è di 50°C. Un esperimento in corso dal 2010 ispirato alla permacultura ha già dimostrato che si può far crescere alberi da frutto nel deserto. Una serie di esperimenti agricoli hanno testato differenti qualità dell’acqua di irrigazione e quattro diverse colture.

 

La sabbia nanotecnologica, di Emirati Arabi Uniti e Germania

La Dime, società degli Emirati Arabi Uniti, e il Fraunhofer Institute di Friburgo hanno sviluppato una nanotecnologia rivoluzionaria per creare una sabbia impermeabile idrofoba che si può stendere direttamente in una sottile coltre al di sotto della sabbia del deserto. L’obiettivo è di impedire l’evaporazione della preziosa umidità che si forma nel deserto durante la notte, rendendola disponibile alle radici delle piante. A due chilometri dal Mar Morto, dove la pioggia cade molto raramente e la temperatura ad agosto è di 50°C, è già stato condotto un esperimento. La sabbia nanotecnologica è in fase di produzione.

 

Il Sahara Forest Project in Qatar

Si possono realizzare impianti di coltivazione nei pressi della costa unendo la tecnologia della serra ad acqua di mare con quella del solare termodinamico; la vicinanza al mare permette infatti di garantire la presenza costante di acqua che viene inviata ad un impianto di desalinizzazione tramite una pompa a energia solare. In definitiva, si usa ciò che si ha in abbondanza per produrre quello che più serve: con una vasta area desertica, la luce del sole, l’acqua salata e la CO2 si possono così produrre cibo, acqua ed energia pulita. Il primo progetto, voluto dal governo e finanziato dalla Yara International Asa e dalla Qatar Fertiliser Company, si estende su una superficie di 10mila metri quadrati in prossimità di Measaieed, città industriale del Qatar. L’impianto ha già dato il suo primo raccolto di cetrioli.

 

I punti verdi in Arabia Saudita

In una serie di immagini satellitari, la NASA ha documentato l’evoluzione dell’attività agricola nel deserto saudita dal 1987 a oggi, mostrando la nascita di enormi punti verdi. Ciascuna area è un campo di circa  1 km di diametro, irrorato d’acqua per mezzo di sistemi rotanti su un perno centrale che pompano acqua sotterranea. È una riserva che non potrà essere ricostituita, essendosi formata prima dell’ultima era glaciale, circa 20mila anni fa, e la pioggia (nel deserto saudita circa 100/200 mm di acqua l’anno) normalmente non raggiunge le falde sotterranee. I geologi stimano in 50 anni il periodo durante il quale il pompaggio sarà economicamente sostenibile.

 

L’acquaponica a Bustan, in Egitto

L’acquaponica è un metodo agricolo e d’allevamento che combina acquacoltura e coltivazione idroponica, al fine di ottenere un ambiente simbiotico. L’acqua delle vasche per acquacoltura viene pompata in quelle idroponiche, in modo tale che le piante che vi crescono possano filtrarla traendone nutrimento, nel contempo sottraendo le sostanze di scarto dei pesci. L’acqua così biofiltrata potrà quindi essere reimmessa nelle vasche per acquacoltura e riprendere il suo ciclo. A Bustan, il primo impianto commerciale acquaponico in Egitto, i giovani alberi di ulivo crescono separati dal deserto solo da sottili lastre di vetro: per coltivarli si usa il 90 per cento di acqua in meno rispetto all’analoga coltura convenzionale.

 

L’Airdrop per estrarre acqua dall’aria

Dal concorso globale Sir James Dyson del 2012 è uscita un’interessante invenzione. Edward Linacre ha presentato un apparecchio in grado di ricavare l’acqua dall’aria chiamato Airdrop. Prende spunto dalla tecnica che adottano i coleotteri del deserto: l’aria, anche la più secca, contiene acqua (umidità). Attraverso dei tubi la macchina convoglia l’aria dalla superficie al sottosuolo, facendola condensare. L’acqua di risulta viene indirizzata verso le radici delle colture circostanti. Per ora è stato realizzato un prototipo funzionante.

 

Gli asparagi in Cina

Qui non si tratta di deserto, ma di zone limitrofe coltivate apposta per arginarlo. I ricercatori dell’Accademia delle Scienze agrarie Shanxi hanno condotto un esperimento triennale andato a buon fine nel 2013, con gli asparagi. La verdura, molto usata anche nella cucina cinese, si è riscontrata adatta come frangivento nell’ambito di un progetto di contrasto della desertificazione in Youyu, provincia dello Shanxi. Si cercavano di piante capaci di frenare la sabbia nel nord e ovest della Cina, aree particolarmente minacciate dall’avanzata dei deserti, agevolata dai venti secchi. Gli asparagi si sono dimostrati capaci di resistere alla siccità e al freddo, e di crescere anche su terreni sterili. Il raccolto è stato di 20 tonnellate.

 

Gli aflaj dell’Oman

L’Oman è situato in una delle aree più aride del mondo. La gestione dell’acqua è, da secoli, una priorità. Simbolo dell’ingegnosità omanese sono gli aflaj, cinque dei quali sono stati riconosciuti patrimonio Unesco dell’umanità. Sono antiche canalizzazioni che tutt’oggi distribuiscono 900 milioni di metri cubi d’acqua all’anno. Campi e giardini vengono bagnati per brevi tratti di tempo, in genere mezz’ora, e molti villaggi hanno un orologio solare per scandire i turni di irrigazione.

 

Per ulteriori approfondimenti

segnalazione_dei_media_coltivazioni_sahara_dilernia_1.pdf (uniroma1.it)

Agricoltura nel deserto: la Giordania introduce il Sahara Forest Project – Green.it

 

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