Questo articolo di Alessandra Micheli nasce nel blog Les fleurs du Mal come commento al romanzo storico “Il marchio di Sekhmet” di Isabel Giustiniani, ma sviluppa il tema della religione atoniana che si sviluppò nell’antico Egitto sotto il faraone Akhenaton, alla quale è stato poi attribuito il nome di eresia amarniana (dal nome moderno della città di Akhetaton.)
Il fascino dell’Egitto non possiede né tempo né confini. Attrae ogni sognatore e ogni studioso. Attrae fantomatici visionari (come non ricordare Edgar Cayce, o anche Mario Pincherle); veicola la sete di sapienza nonché le ardite teorie come, ad esempio, quella della correlazione stellare di Adrian Gilbert e Robert Bauval. L’Egitto è testimone di ere passate che travalicano la classica denominazione di civiltà egizia per andare oltre fino a sfiorare e a congiungersi con il mito di Altantide e i racconti del Diluvio dimostrati e dimostrabili, secondo alcuni rivoluzionari e contestati studi, dalle linee di erosione di monumenti come la sfinge.
Non è solo l’architettura di questo antico Paese a strabiliare, fonte di per sé di meraviglie e di stupore, ma anche la sua storia, la sua mitologia, il pantheon di divinità incredibili e mostruose, e quel concetto di sovranità che è poi confluito nella teoria assolutistica (il re come immagine di Dio.)
La storia antica egizia, schiava di un passato glorioso e al tempo stesso ingombrante, tenta di vivere staccandosi un po’ da quella pesante corazza che la identifica strettamente e indissolubilmente con la piana di Giza e con l’avanzata delle conoscenze scientifico-tecnologiche del medio regno.
Ecco perché oggi, accanto alle divinità quasi dimenticate eppure così fiere e gloriose, si affianca una totale diversa e aliena concezione religiosa del tempo. O almeno aliena appare per i profani, imbevuti delle teorie stellari, dei bellissimi e preziosi saggi di Gilbert, Hancock e René Adolphe Schwaller de Lubicz. E tutto questo si deve a un solo uomo, reo di aver sconvolto la precisione del MAAT grazie a una rivoluzione che anticipò il cristianesimo di secoli: l’inserimento, o quanto meno il suo tentativo, di un monoteismo ferreo e granitico. Akhenaton era il nome del famigerato faraone eretico, tolto dai cartigli e adombrato non solo dal biasimo di sacerdoti e popolazione, ma anche dalla volontà pedissequa di cancellarne le tracce.
Questo faraone tentò di estirpare, con una brutalità indiscussa, le radici stesse dell’Egitto che era nato e si era sviluppato alle fronde ombrose di una perfetta e armonica sincronia di divinità legate una all’altra da rapporti intensi e d’interdipendenza tali da poter abilmente descrivere l’ordine cosmico, simboleggiato dalla dea MAAT. Questo ordine era un mosaico che, con perfezione maniacale, richiamava in terra l’ordine del cielo, un motto che ritroveremo poi nella filosofia ermetica:
come in alto così in basso
Akhenaton, e forse è questo il lato affascinante del personaggio, stravolse questo preciso organigramma, spopolandolo da ogni sua componente (le divinità) e mettendo al centro solamente il dio Aton.
Posso comprendere la difficoltà di alcuni a carpirne fino in fondo la portata rivoluzionaria, e cercherò quindi di esplicarla con un semplice (e ammetto stupido) paragone.
Immaginate un orologio antico perfettamente funzionante. La sua azione è regolata, ma soprattutto generata, da tante piccolissime parti: rotelle che mettono in moto un meccanismo strabiliante in quanto in grado di scandire il tempo che passa. E grazie a questo suo ardire, riesce a dare a noi umani una precisa collocazione nello spazio. Spazio e tempo sono le nostre coordinate, legate tra loro da rapporti precisi e numericamente dimostrabili. Ecco, immaginate che uno scienziato folle tolga le piccole rotelle, i componenti infinitesimali, sostituisca la precisione della varietà che fa muovere il tutto con un unico meccanismo centrale. Ed è quello che fece il nostro faraone. Ecco cosa rappresenta, in fondo, il monotesimo: sostituire la varietà con la singolarità. Come se un biologo decretasse che è un unico piccolo e immenso organo a muovere il tutto. E che se anche le singole parti si ammuffissero, il nostro corpo continuerebbe a camminare.
Questa monolitica credenza, diffusa e oramai parte del nostro pensiero odierno, rappresentava per gli antichi abitanti del Kemet l’eresia suprema, l’orrore più assoluto. Questo perché, nonostante un faraone divenisse un dio in terra, ossia l’Osiride incarnato, lo diveniva per virtù di un processo complesso denominato intronizzazione. Tramite questo, il re-sacerdote diveniva dio nel suo significato di sostenitore, protettore, difensore della Sovranità suprema indissolubilmente legata alla MAAT.
Ve la faccio breve: faraone sì, ma non assolutistico perché, nel caso una sua azione avesse arrecato danno alla perfezione dell’ordine cosmico, sarebbe stato reo e passibile di detronizzazione, ovvero la sua legittimità ne avrebbe risentito portandolo a rischio di destituzione. Akhenaton, infatti, nonostante la volontà di fare dell’Egitto una nazione sotto l’egida di un unico dio (il sogno di Costantino il grande, per intenderci) e nonostante gli sforzi volti a crearsi un sostegno politico e sociale, crollò sotto i colpi del tradimento: i sacerdoti degli antichi dei non lo perdonarono mai e attesero, come cobra sibilanti, il momento per “toglierlo di mezzo”. Letteralmente.
Questo fatto, nonostante il grande amore che nutro per l’evoluta civiltà egizia considerata un po’ oggi dagli studiosi una sorta di età dell’oro, non può che suscitarmi un sorriso in quanto mi porta a paragonare la corte egizia alle corti della nostra bella Europa, covi di serpi, di intrighi e imperfezioni.
Per tale motivo lodo il romanzo “Il marchio di Sekhmet” di Isabel Giustiniani, che si apre proprio con la morte del famoso faraone: il rifiuto dell’autrice di demonizzare o di esaltare la storia. La storia è quella che è, senza abbellimenti, senza elogi e senza apologie varie. È il modo con cui l’essere umano imperfetto, e spesso posseduto dalle lusinghe del potere, si destreggia lungo l’impervio cammino che porta, si spera, all’evoluzione. Ecco che le civiltà e il potere politico appaiono sempre ugualia sé stesse, ossessionate nella difesa di privilegi e convinzioni.
Immaginate, dunque, lo stravolgimento apportato da Amenofi IV, al secolo Akhenaton, e immaginate il dissenso profondo in seno alla vecchia casta sacerdotale, letteralmente scalzata in favore del clero di Amarna. Se il passaggio al monoteismo imposto dal faraone riformatore appare quasi scontato in virtù del suo potere, in realtà il libro della Giustiniani ci mostra che non fu affatto semplice, né totale. Apparentemente l’abbandono del tradizionale politeismo egizio a favore di una religione proto monoteistica non fu indolore e nelle reti sotterranee fu duramente e ampiamente contestata.
Sotto lo strato di finto servilismo al re i culti poterono sopravvivere, tanto che gli storici propendono per una definizione più accurata del passaggio culturale che non fu un netto monoteismo di stampo caldeo, ma fu più una sorta di enoteismo monoloatrico. Tranquilli non è uno scioglilingua, né una parolaccia, ma può essere la spiegazione al dramma della disapprovazione sociale sfociata, alla morte del re, con la dura e fervente damnatio memoriae. (non è un caso che fu solo nel 1891, grazie all’archeologo inglese Flinders Petrie che fu scoperta la sua esistenza celata nella sabbia per secoli). Questo termine indica qualcosa di differente dal monoteismo radicale che nega l’esistenza letterale di altre divinità all’infuori della propria, ritenendo le altre illusioni, falsità o, nel caso peggiore, demoniache presenze. L’enoteismo (termine coniato da Max Muller), indica invece un tipo di religiosità che inserisce una preminenza di un dio, in grado di accentrare su di esso tutto il culto senza però negare l’esistenza di altre divinità di cui semmai è sottolineata l’inferiorità e l’estraneità.
Questo processo lascia ampie parti di libertà immaginativa, nonostante un documentato atteggiamento determinato e incisivo da parte del faraone, il quale presupponeva non una conversione di massa, bensì un passaggio lento e graduale che si basasse soprattutto sulle nuove generazioni. Queste, cresciute nel culto specifico, avrebbero poi fatto morire di inedia gli altri culti per assenza di reverenza. E nulla come il non credere, il non celebrare una divinità ne decreta l’oblio, anche se solo in apparenza.
Fu con la morte del faraone, anzi, con l’oramai accreditato suo omicidio, che inizia un periodo particolare, in cui si acuiscono le lotte dinastiche e di potere che renderanno, l’Egitto molto meno sicuro, quasi indifeso rispetto alle insistenze di altri paesi, in particolare gli Hyksos (una tribù semita che proveniva dalla Palestina e che prese di mira le fertili terre d’Egitto con scorribande e razzie, il cui potere ebbe una battuta d’arresto soltanto con l’avvento di Ahmose I che diede inizio alla XVIII dinastia, ripristinando l’unità dello stato e dando inizio al periodo detto Nuovo Regno.)
Ecco il contesto in cui la Giustiniani inserisce una storia nella Storia, che ha il pregio di svelare e raccontare intrighi che nulla hanno da invidiare a quelli delle corti europee del 500 e del 600, e che danno la giusta caratterizzazione non soltanto dei personaggi, ma anche di quell’atmosfera rarefatta e di transizione dove ogni certezza crolla per la volontà o per la follia di un solo uomo.
La storia di Khemfre e di suo fratello Neferu, si svolge in quei giorni strani, a tratti bui, che tentano di riunire e di curare le ferite in seno alla civiltà egizia, grazie alle antiche tradizioni, e alle costanti e mai del tutto scomparse divinità. Ecco che Ptah, Hathor, Sekhmet e gli altri dei tentano di mostrarsi in tutto il loro fulgore, appoggiati e forse mai del tutto dimenticati da una popolazione che, delle loro complicate tradizioni, fece il perno su cui basare l’intera esistenza. Sentirsi togliere quelle sicurezze fu sicuramente devastante. Con molta probabilità la popolazione stessa fu incitata, nella sua ribellione, da un’antica e riverita casta sacerdotale che continuò a considerare l’intervento di Akhenaton un affronto dal momento che si trovò da lui esautorata dal ruolo di guida nella cosmogonia stellare e nei complessi riti mortuari che, nell’ottica della nuova religione, non avevano più posto né senso.
Come si può togliere a un popolo tradizioni millenarie senza causare un vero e proprio shock culturale?
E questo il vero protagonista del testo e Isabel lo esemplifica abilmente nella quasi tragicomica scena dell’impatto dei due fratelli con l’annuncio del ritorno agli antichi culti, ristabiliti con entusiasmo dal clero, specialmente di Amon, e mai realmente offuscati dallo splendore del disco solare Aton. In particolare, il disagio e il disorientamento che Khemfre prova davanti alla fierezza e alla magnificenza degli antichi dei, si manifesta in una aperta ostilità verso il nuovo. Cresciuto con idee ferree, al pari dei sacerdoti redenti, si trova a dover convivere e forse accettare quelle manifestazioni ultraterrene che rappresentano l’ignoto. Eppure non può non avere una sorta di attrazione per la loro millenaria conoscenza, custodita gelosamente dai sacerdoti, e racchiusa in papiri polverosi che aprono le porte dell’inimmaginabile. La scena di Khemfre alle prese con questi testi sacri suscita in noi amanti dell’Egitto un’invidia quasi dolorosa, visto che gli stessi sono e resteranno il miraggio e il sogno di tanti ricercatori che aspirano a trovare la famosa biblioteca perduta o quantomeno la stanza degli archivi.
Tuttavia accade qualcosa di strano, ma al tempo stesso comprensibile: nella mente del giovane si apre un intero universo di possibilità. Lo scibile racchiuso in quei testi non basta alla sua sete di sapere. Ora che hanno aperto la porta proibita, ora che è riuscito ad addentare la famosa mela, avverte un desiderio inesauribile che la tradizione egizia non può placare. Perché, in fondo, si rende conto che la tanta acclamata sapienza, le enormi saggezze tanto declamate dai sacerdoti, restano limitate a una devozione che, invece di invogliare a superare i limiti, pone confini invalicabili. L’arte medica, è strettamente legata alla spiritualità, tanto da confondersi una nell’altra e avere come base il rispetto della Sacra MAAT.
Immaginate un ragazzo geniale, incredibilmente dotato, cresciuto all’ombra di una religiosità semplice come quella di Aton, spogliata da tutti gli orpelli e da tutte le complesse declamazioni circa il modo al di là del velo. Bastava credere in Aton e riverirlo per essere salvi. Non servivano formule, una mappa precisa di un territorio che appariva quasi scarno nella sua rigida logica. Per l’Egitto stellare, la vita, come la morte, era regolata da complessi rapporti di interdipendenza, era un paesaggio difficile e immenso che doveva essere rispettato e conosciuto nei minimi dettagli, descritti nel famoso Libro dei Morti. Ecco che Khemfre, dopo essere cresciuto in una fede quasi scarna rispetto agli atri, si trova davanti a un bombardamento costante di informazioni. Non può non sognare di superare quei limiti che non ha mai avuto la possibilità di percepire come reali. L’arte medica gli pone delle sfide che non possono essere risolte con la fede nella religione ma possono essere spiegate solo con la sperimentazione. Khamfre non può e non riesce ad adattarsi perché, a differenza del fratello, non crea il suo nuovo mondo sostituendo il disagio con la corsa al potere (non è un caso che il fratello abbandoni gli enigmi religiosi in favore di una carriera militare molto più semplice e meno intellettualmente impegnativa). Il giovane, invece, sostituisce la sua precedente percezione del mondo con la ricerca a volte edonistica della conoscenza, tutto senza avere una fede precisa perché, la sua fede è stata spazzata via. Totalmente. E la conoscenza dei nuovi dei, lo pone di fronte a dilemmi profondi e molto moderni: e se mi fossi sbagliato? Se fossi cresciuto in una grande bugia?
E se tutto fosse un’illusione e l’unica vera certezza fosse la materia?
Dunque per colpa, oppure grazie, a questi dolorosi dubbi che il protagonista si troverà spaesato e talvolta inerme di fronte alle tentazioni che solo una forte etica può fronteggiare. Senza certezze, privo del senso del sacro perché profondamente ferito, Khemfre sperimenta solo una conoscenza priva di riferimenti sacri, priva di un ordine superiore che la elevi non solo a rango nozionistico.
Il marchio di Sekhmet è una storia di tutti coloro che hanno iniziato a farsi domande, a destrutturare il loro spazio mitico, a contestare non soltanto la religione in cui sono stati cresciuti ma anche l’impatto e la struttura che essa dona alla società. Senza tuttavia avere un’alternativa valida. Perché la scienza senza saggezza, in fondo, non dona la vera pace.
Il romanzo è una storia apparentemente di passioni, di intrighi, un perfetto thriller storico. Ma a un’analisi più profonda si rivela la storia di tutti coloro che, di fronte al cambiamento, devono ricostruirsi giorno per giorno.
Di fronte al crollo di certezze, devono affrontare pericoli più insidiosi della pesatura dell’anima: mantenerla integra.
E senza, la credenza in qualcosa che va oltre la mera carnalità è più difficile. Ma per fortuna la Rossa Signora (rappresentata sempre con una veste del colore del sangue), dea della strage ma anche della vita, lascia il suo marchio dentro di noi, rivelandoci che laddove c’è distruzione c’è pure rinascita. Ecco che non ci resta che seguire Khemfre nella più ardita delle imprese: abbandonare la distruzione della nostra antica visione del mondo, delle cose e di noi stessi ed essere pronti a intraprendere con un pizzico di follia l’esilio. Magari troveremo davvero qualcosa che mai avremmo pensato di recuperare: il nostro vero volto e non solo quello che la società ci impone.
di Alessandra Micheli
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Titolo: Il marchio di Sekhmet
Autore: Isabel Giustiniani
Pagg. 332
Un articolo lungo, colto, interessantissimo, che apre nuove interpretazioni e nuove prospettive sociologiche e psicologiche alla lettura dei libri di Isabel, libri che più che romanzi sono profondi e informatissimi libri di storia vera e di vita. Unico punto sul quale ho qualche perplessità è il parallelismo tra Akhenaton e Costantino. A mio avviso mentre Akhenaton fu ostacolato sia dalla potente classe sacerdotale, sia dal popolo, Costantino si rese invece conto della ormai profonda partecipazione delle sue milizie alla consolidate e diffuse teorie cristiano-giudaiche, e le assecondò. Del resto, un despota crudele e criminale, come in effetti fu Costantino, non poteva che muoversi in sintonia con teorie e ideologie che non avrebbero potuto che rafforzarlo.
Sì, davvero. Nato come una recensione al romanzo, questo articolo si è rivestito di uno spessore informativo notevole grazie all’enorme erudizione di Alessandra Micheli.