Agli inizi degli anni venti del XV secolo i rapporti tra le diverse entità politiche della penisola erano estremamente tesi: lo Stato visconteo aveva finalmente recuperato le sue forze, mentre Firenze, Roma e poi anche Venezia si sentivano minacciate dalla politica di Filippo Maria. Grazie all’aiuto dei suoi generali, il giovane erede di Gian Galeazzo aveva infatti sottomesso l’intera Lombardia ed occupato Genova (1421). Per di più le sue truppe premevano ai confini dell’Emilia Romagna, della Toscana e del Veneto.
Naturalmente ci volle ben poco per far degenerare la situazione e trascinare le parti interessate in un drammatico conflitto trentennale. Questa serie di eventi fu innescata dalla decisione del morente signore di Forlì (Giorgio Ordelaffi) di lasciare suo figlio nelle mani di Filippo Maria. La madre del protetto (figlia del signore di Imola) non accettò tuttavia l’ingerenza del Visconti e prese le redini del potere. Questo avvenimento scatenò la reazione del governo milanese che incaricò Angelo della Pergola, fidato capitano di ventura, di prendere il comando delle forze ducali e di marciare su Forlì ed Imola.
Nel frattempo la Repubblica fiorentina si era schierata al fianco della reggente e della fazione imolese, capeggiata dalla famiglia signorile. Sfortunatamente gli imolesi si rivelarono dei pessimi combattenti, ma questo non scosse l’animo dei toscani. Firenze era disposta a compiere l’impossibile pur di scongiurare il ritorno della minaccia viscontea. Con Gian Galeazzo aveva già rischiato di perdere la propria autonomia. Ora non poteva confidare in un altro improbabile aiuto dal cielo: era tempo di agire e di prendere il controllo della situazione.
Sotto la supervisione dei fratelli Carlo I e Pandolfo III Malatesta, signori di Rimini ed esperti mercenari, i fiorentini giunsero dunque in Romagna per portare soccorso ai loro alleati romagnoli e respingere l’avanzata dei lombardi. Costoro avevano intanto conquistato Imola, stroncando la dinastia degli Alidosi, ed ottenuto l’inaspettato appoggio del signore di Faenza che si era volontariamente sottomesso al duca.
In quelle terre l’esercito fiorentino edificò diversi campi fortificati e strinse d’assedio Forlì, occupata dalle milizie del duca, ma poco dopo abbandonò il campo per liberare il castello di Zagonara dalla morsa degli avversari. All’ombra di quella fortezza, tra il fango e la pioggia, la cavalleria fiorentina ruppe lo schieramento ducale per poi essere a sua volta sopraffatta dal violento contrattacco di Angelo della Pergola. La sconfitta fu totale: Carlo I fu catturato assieme ad altri tremila cavalieri, mentre Pandolfo III si rifugiò a Ravenna.
Neanche l’intervento di Oddo da Montone, figlio del famoso capitano di ventura Braccio da Montone, riuscì a cambiare le sorti della disputa che sulle rive del Lamone, tra la Romagna e la Toscana, vide un’altra tragica disfatta dell’armata fiorentina (1425). Il giovane Oddo ed i suoi armigeri, reduci dalla guerra tra gli Angiò di Napoli ed i Trastamara d’Aragona, caddero infatti vittime di una vile imboscata ordita da uno dei vecchi ufficiali di Braccio, Niccolò Piccinino, che si era segretamente accordato con Angelo della Pergola ed i suoi compagni.
Nonostante i fallimenti, il governo fiorentino non si fece scoraggiare e continuò a fronteggiare i suoi avversari che ormai avevano oltrepassato la valle del Lamone ed invaso le provincie settentrionali della Toscana. L’inaspettata alleanza con lo Stato mantovano e quello veneziano salvò però la Repubblica fiorentina dalla rovina. L’improvvisa caduta di Brescia, conquistata dai veneziani nel 1426, diede effettivamente la possibilità ai fiorentini di sconfiggere i milanesi e di scacciarli dai loro territori.
L’intervento veneziano provocò naturalmente la risposta del governo milanese che inviò le sue milizie nei domini della Serenissima. Lungo il suo cammino l’esercito visconteo, guidato da Angelo della Pergola, Carlo II Malatesta, Francesco Sforza e Niccolò Piccinino, si imbatté sfortunatamente in un temibile avversario, Francesco Bussone. Costui, in seguito alla brusca rottura con Filippo Maria, era passato al servizio di Venezia ed ora, insieme a Gian Francesco Gonzaga ed a Niccolò da Tolentino, si stava apprestando ad affrontare i mastini del suo vecchio padrone in campo aperto.
La battaglia, svoltasi nei pressi di Maclodio (1427), fu estremamente violenta e vide la morte di numerosi uomini d’arme. Dopo aver attaccato senza preavviso l’accampamento milanese, i veneziani e i loro alleati fiorentini e mantovani si gettarono sulle forze del Visconti e le misero in fuga. Durante la ritirata non solo fu catturato il fratello di Angelo della Pergola, ma cadde sotto i colpi ed i dardi nemici anche un gran numero di soldati lombardi.
Questa dolorosa sconfitta comportò la perdita da parte dello Stato visconteo di Bergamo, Brescia e Crema che con la pace di Ferrara passarono sotto il domino della Serenissima (1428). Dal canto suo Firenze ufficializzò la riconquista della Toscana, ad eccezione ovviamente dei territori lucchesi e di quelli senesi, mentre gli Este ed i Gonzaga accantonarono con gioia l’idea di doversi inginocchiare dinanzi all’odiato biscione lombardo.
Ad ogni modo la rivolta di Volterra e l’alleanza tra Lucca e Milano destabilizzarono pesantemente l’equilibrio interno ed il prestigio della classe dirigente fiorentina, costringendola a reagire con forza inviando Niccolò da Montone nelle zone calde della regione per sgominare i suoi nemici e ripristinare l’ordine stabilito a Ferrara. Il nipote di Braccio sottomise quindi Volterra per poi invadere il lucchese, dove ingaggiò battaglia con le milizie del signore di Lucca. Sulle rive del Serchio fu tuttavia sopraffatto da Niccolò Piccinino che era da poco sopraggiunto in Toscana per soccorrere i nuovi alleati di Filippo Maria (1430).
La rivalità tra Firenze e Lucca compromise pertanto le clausole del trattato di Ferrara e trascinò le due fazioni ed i loro rispettivi sostenitori sul campo di battaglia. L’anno seguente Venezia diede ordine ai suoi generali di invadere il cremonese con la pretesa di trasferirvi il suo quartier generale che in quel momento si trovava nel bresciano. Da Cremona avrebbe potuto attaccare il cuore del Ducato e far successivamente partire l’offensiva finale su Milano. Ma l’esercito veneziano fu sconfitto prima sotto le mura della piazzaforte di Soncino e poi nelle acque del Po a pochi chilometri da Cremona (1431). Fortunatamente, mentre il governo della Serenissima stava tentando di riorganizzarsi, le truppe fiorentine sbaragliarono quelle senesi a San Romano (1432).
Questa battaglia, resa celebre dalla mano di Paolo Uccello che la immortalò in un trittico, fu particolarmente aspra e vide la collaborazione tra Niccolò da Tolentino, da poco rientrato al servizio di Firenze, ed il giovane Micheletto Attendolo. Il primo, che aveva già militato all’ombra del fiordaliso toscano, diresse la fase iniziale dello scontro. Il secondo, giunto a San Romano alla testa dei rinforzi, guidò invece la carica che mise in rotta i senesi ed i loro commilitoni lucchesi e milanesi. Ormai era però troppo tardi: la posizione di forza ottenuta a Maclodio dalle due Repubbliche era irrimediabilmente perduta.
Firenze e Venezia, indebolite sia sul piano economico sia su quello politico, furono così costrette a scendere a patti con Filippo Maria, che si era intanto avvicinato ad Amedeo VIII, duca di Savoia e signore di Torino. I negoziati si tennero nuovamente a Ferrara (1433) ed in questa occasione, al cospetto del padrone di casa (Nicoló lII d’Este) e del pontefice (Eugenio IV), i due schieramenti decisero di reintrodurre i termini sanciti dal trattato precedente.
Tuttavia pochi anni dopo la guerra investì un’altra volta la Pianura Padana: il Piccinino conquistò Bologna e la costrinse ad accettare l’egemonia viscontea in Emilia. La stessa sorte toccò anche a Verona, ma in suo aiuto sopraggiunse l’esercito della Serenissima. I veneziani, guidati dal Gattamelata, riuscirono infatti a scacciare i milanesi dalla città ed a riportarla in seno alla Repubblica (1439).
Successivamente le forze fiorentine e quelle veneziane, guidate da Micheletto Attendolo e sostenute militarmente dallo Stato pontificio, affrontarono le truppe del Piccinino nei pressi di Anghiari (1440). La battaglia, tra una carica di cavalleria e l’altra, durò diverse ore e si concluse con la disastrosa sconfitta dei milanesi. Le milizie del Visconti, nonostante la presenza dei balestrieri genovesi, non riuscirono infatti a reggere i continui attacchi della Lega che alla fine infranse con impeto il loro schieramento. Molti uomini d’arme liguri e lombardi abbandonarono allora il campo e si diedero alla fuga, mentre il resto del contingente fu trattenuto ed imprigionato.
Questa inaspettata riscossa mise in difficoltà il governo milanese che decise di stringere un altro accordo con i suoi avversari. La pace di Cremona (1441) pose fine alla guerra, ma non riuscì a sanare la situazione ed a soddisfare le diverse parti. Ferrara non ottenne nulla, Firenze non riuscì a sottomettere Lucca e Siena, Milano perse definitivamente il bergamasco ed il bresciano, Mantova fu cacciata dal Garda in cambio di alcuni piccoli borghi, mentre Venezia fu costretta a fermarsi nei pressi dell’Adda. L’unica a trarne vantaggio fu Genova che si affrancò dal potere visconteo per tornare finalmente indipendente e padrona dei suoi antichi possedimenti nel Mediterraneo.
Nel frattempo, in alcune regioni della penisola il panorama politico era radicalmente cambiato. Innanzitutto Alfonso V d’Aragona, appoggiato dal vecchio regime visconteo, aveva scacciato Renato d’Angiò da Napoli e riunificato il Regno meridionale. Con quest’atto si concluse pertanto un conflitto che opponeva ormai da quasi due secoli la dinastia francese degli Angiò a quella iberica dei Trastamara. La guerra era scoppiata esattamente nel lontano 1282, quando i siciliani chiamarono in loro aiuto gli aragonesi per mandar via i francesi dalle loro terre. Gli Angiò ed i loro sgherri, che avevano da poco sconfitto gli Svevi a Benevento (1266), erano effettivamente mal visti dalla popolazione locale che preferì concedersi a Pietro III d’Aragona, lontano parente di Federico II di Svevia. Da allora si ebbero innumerevoli scontri armati e diplomatici, interrotti da qualche piccola tregua, che si conclusero solamente con la caduta di Napoli nel 1442.
Parallelamente all’avanzata di Alfonso V nel Meridione, in Toscana Cosimo de’ Medici ed i suoi familiari, titolari di un banco estremamente redditizio, presero il controllo della vita politica fiorentina. Costoro aiutarono inoltre lo Sforza a destituire con l’ausilio delle armi il nuovo governo repubblicano milanese, nato in seguito alla morte di Filippo Maria (1447), ed a prendere il possesso della capitale del Ducato nel 1450. Anche Venezia, intenta a difendere i suoi possedimenti lombardi, partecipò in parte all’impresa sostenendo economicamente e militarmente lo Sforza contro i milanesi a partire dal 1448.
Naturalmente passò poco tempo prima che i rapporti diplomatici tra Firenze, Milano, Napoli, Roma e Venezia degenerassero per l’ennesima volta, mettendo in discussione il precario equilibrio politico stabilito a Cremona. Fortunatamente il nipote di Cosimo, Lorenzo de’ Medici, riuscì a riunire in Lombardia i contendenti per trovare una soluzione che ponesse fine alle controversie. A Lodi (1454) gli esponenti delle cinque potenze misero infatti da parte il loro orgoglio e diedero vita ad un patto che permise la formazione di un contesto politico stabile e foriero di presupposti positivi.
La pace di Lodi e la creazione di un solido quadro geopolitico diedero di fatto la possibilità ai diversi governi della penisola di concentrare i loro sforzi non più sulla guerra, bensì sullo sviluppo culturale ed economico dei loro territori. Milano e Venezia diminuirono i fondi destinati al mantenimento delle loro forze marittime e terrestri che ovviamente si restrinsero in maniera drastica, allontanandosi dagli effettivi schierati nella guerra contro i carraresi ed in quella appena conclusasi. Gli eserciti del Ducato e della Repubblica assunsero pertanto un carattere prevalentemente difensivo, basato sul presidio di un complesso ed esteso sistema di fortezze, ma mantennero alto il livello fisico e tecnico dei suoi componenti e del loro equipaggiamento. Firenze si fece invece la garante di una politica dell’equilibrio, orchestrata da Lorenzo de’ Medici e dai suoi collaboratori, che culminò con la creazione di una lega militare dalla funzione esclusivamente protettiva. Questa difficile alleanza, che comprendeva tutti gli Stati della penisola, avrebbe garantito l’incolumità dei suoi membri nell’eventualità di un attacco esterno o interno e fu proprio con la burrascosa discesa di Carlo VIII in Italia nel 1494 che si mise alla prova la sua effettiva validità.
BIBLIOGRAFIA
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Ermolao Paoletti, Il fiore di Venezia, Volume II, Venezia, Tommaso Fontana Editore, 1839.
Articolo ricco e erudito, ma piacevolmente narrativo su uno dei periodi più complessi della storia d’Italia. Interessante.
Periodo complesso e per me poco conosciuto. Qui l’ho trovato spiegato bene. È stata un’ottima iniziazione.