Questo articolo approfondito continua l’indagine sulla figura di Gesù di Narareth. A questo LINK potete trovare la prima parte.
PARTE II: LA VITA DI GESÙ
Nella prima parte della trattazione abbiamo esaminato le principali fonti antiche che comprovano l’esistenza storica di un individuo che corrisponde alla descrizione di Gesù di Nazareth.
Il primo quesito si risolveva tutto sommato in un aut aut, potendo essere la risposta solo negativa o affermativa. In questa seconda e ultima parte il nostro lavoro si fa più arduo, in quanto ci preoccuperemo di cercare dei tratti biografici sulla figura e sulla vita di Gesù.
ELEMENTI BIOGRAFICI
Le fonti antiche extra-evangeliche sono sufficienti a farci supporre che Gesù sia effettivamente esistito, ma non si può dire che le stesse siano idonee a fornirci un quadro pressoché completo sulla sua figura e sulla sua vita.
Anche i dati fornitaci dal Talmud risultano contraddittori, ancor più contraddittori dei racconti contenuti nei testi evangelici: ciò può essere spiegato per il fatto che il Talmud mira a fornire un’interpretazione quasi puramente teologica, seppur del tutto negativa, della figura di Yeshu, anche se alcune coincidenze con i racconti evangelici ci indicano che si tratta della stessa persona.
Saremo costretti, per forza di cose, a prendere le mosse dai dati fornitici dalle poche fonti disponibili e a valutarne l’attendibilità o, al più, la plausibilità. Come già affermato nella prima parte i Vangeli contengono infatti elementi assai interessanti se confrontati con dati storici certi.
Non dobbiamo ovviamente aspettarci che, prese per buone le informazioni degli evangelisti e vinte le contraddizioni, reali o apparenti, tra le stesse, si possa ottenere una biografia completa e al cento per cento affidabile sulla vita di Gesù. Ciò nonostante è bene tener presente che una buona percentuale della ricostruzione storica è spesso basata sulla formulazione di ipotesi, sulla ricerca di elementi a sostegno delle stesse e sulla confutazione di altre ricostruzioni, che risultano meno sensate.
Dunque ciò che risulta dall’analisi e dalla valutazione ponderata delle varie informazioni può essere una biografia in chiave probabilistica: ciò che diversi storici sono pronti ad ammettere è infatti che, al di là delle nozioni puramente teologiche e degli eventi miracolosi, riconducibili al solo alveo della fede, i racconti evangelici possano raccontare una storia attendibile, ossia la storia di un predicatore ebreo, considerato “eretico” dalle caste sacerdotali ebraiche, e condannato dalle autorità romane.
L’ETÀ DEI SINOTTICI
Recuperando ciò che avevamo sostenuto nella precedente parte dell’articolo, possiamo fornire una contestualizzazione rudimentale, ma abbastanza precisa: i tre vangeli sinottici, ossia quelli attribuiti per tradizione agli evangelisti Marco, Luca e Matteo, sono oggi datati ad un periodo che va all’incirca dai trenta ai sessant’anni dai fatti narrati; un tempo, abbiamo visto, apprezzabilmente breve per un’epoca in cui le fonti scritte circolavano lentamente.
Ma ciò che più interessa dell’epoca di redazione dei vangeli, e in generale di quel secolo che procede dall’anno 1 d.C., è che si tratta di un’epoca assai tumultuosa per gli ebrei: la Palestina è suddivisa in province romane e reami governati da sovrani fantoccio, e capi politico-religiosi si susseguono senza sosta, favorendo fondamentalmente l’una o l’altra fra due scelte: collaborare con i dominatori, oppure ribellarsi ad essi.
“La Palestina in quel momento è una polveriera, dove si aspetta solo chi accenderà la miccia per fare esplodere tutto.” (Alessandro Barbero, storico)
Inutile ricordare come numerose rivolte furono soppresse nel sangue: nel 66 d.C. viene ricordata l’ultima grande rivolta ebraica contro Roma, che porterà alla distruzione di Gerusalemme e del Tempio di Erode ad opera di Tito nel 70 d.C..
Dunque l’idea di un predicatore religioso, inviso alle elite politiche e religiose dominanti, non appare affatto fuori luogo.
LUOGHI, PERSONAGGI, FATTI
Volendo anche considerare i testi evangelici una fonte precaria, è impossibile non notare che essi ci propongono continuamente, lungo tutta la narrazione, numerosi riferimenti storici e geografici, utili a collocare la vicenda nel tempo e nello spazio. I riferimenti di carattere temporale più evidenti sono un censimento indetto da Augusto, per quanto riguarda la nascita di Gesù, e la ricorrenza della Pasqua ebraica, per quanto attiene alla morte.
Alcuni nomi di personaggi famosi che ritroviamo nei testi in esame sono: Erode il Grande, Erode Antipa, sovrani di Galilea, Erodiade, moglie di Erode Antipa, Ponzio Pilato, prefetto di Giudea, Caifa e Anna, sommi sacerdoti e capi del Sinedrio.
Volendo riproporre appieno le parole dello storico Alessandro Barbero citate nella prima parte dell’articolo, che mostrano come fosse praticamente impossibile inventarsi di sana pianta la figura di un predicatore ebreo così famoso a così breve distanza dall’epoca dei fatti, possiamo notare come tale criterio possa essere utilizzato non solo per dimostrare se egli sia effettivamente esistito o meno, ma anche come chiave di lettura per vagliare l’attendibilità dei fatti narrati, almeno per quanto concerne quei fatti che coinvolgono quegli stessi personaggi.
A servire da elemento corroborante è poi il riferimento a località specifiche, quindi non la generica Palestina o Giudea, ma Gerusalemme, e in particolare il Tempio di Erode, oppure il Golgotha.
Da ultimo, ma non meno rilevante, è da considerare il riferimento alle tradizioni ebraiche: una conoscenza esatta non solo della Torah, ma anche delle maggiori festività, ritualità, abitudini liturgiche della Palestina del primo secolo, sarebbe assai poco attribuibile ad un individuo, per esempio un greco convertito all’ebraismo o al cristianesimo, che non avesse una gran familiarità con esse.
GESÙ L’EBREO
Un’imbarazzante ipotesi avanzata in un recente documentario vuole che Iesous fosse in realtà, non un predicatore ebreo, ma un filosofo greco, Apollonio di Tiana. A scrivere di quest’ultimo è però il greco Lucio Flavio Filostrato, intorno al 200 d.C., quando ormai il cristianesimo, nonostante la perdurante clandestinità, sta diventando un movimento consistente: dunque sembra assai più probabile che i miracoli attribuiti a Apollonio siano stati ripresi proprio dai racconti cristiani. Inoltre, nessuna fonte afferma che Apollonio sia mai stato crocifisso.
Tuttavia la tentazione, innocente seppur ingenua, di individuare nel personaggio di Gesù i tratti di un personaggio greco può essere spiegata sulla base di vari elementi: in greco sono scritti i Vangeli canonici, e tutti gli altri libri neotestamentari. Malgrado ciò, non è possibile non cogliere nei quattro canonici dettagli propri della tradizione ebraica: i richiami ai profeti e alla legge di Mosè, la citazione di profezie messianiche, le prescrizioni sull’osservanza del sabato, il tipo di sepoltura adottato per deporre il corpo Gesù.
Dunque cosa possiamo dire su Gesù? Che era un individuo di tradizione ebraica, di stirpe giudea, o al più galilea. Comunicava comunemente in aramaico, come la maggior parte dei propri coetanei. Possibile invece che non comunicasse in latino, e ancor meno in ebraico, all’epoca ridotta per lo più a lingua legata al culto religioso (non si esclude però che durante le conversazioni di carattere teologico con i farisei, i dottori della legge, facesse uso anche di questa lingua). Del tutto credibile è che parlasse anche il greco, lingua assai più diffusa del latino in quella parte dell’Impero, ed in cui sono stati scritti anche i testi evangelici.
LA PALESTINA PROVINCIA ROMANA
Quando parliamo della terra di Gesù, spesso la nostra immaginazione è quella di una terra arida e spoglia, ed esiguamente popolata. Le varie trasposizioni cinematografiche e televisive della storia di Gesù dipingono un panorama politico piuttosto piatto in cui i pochi governanti hanno facile dominio sui governati. La verità dei fatti era totalmente opposta; lo scenario politico era estremamente variegato: la Palestina era letteralmente infarcita di fazioni, gruppi o sottogruppi, non di rado in conflitto tra loro. C’erano i dominatori romani, ovviamente, e c’era la fazione farisaica, che occupava un posto di rilievo nel Sinedrio (principale consiglio politico-religioso del tempo) e collaborava con i romani. C’erano poi i sadducei, di rango nobiliare, i quali credevano in Dio e nel dovere di osservare la Legge, ma non credevano nell’immortalità dell’anima.
Un’altra particolare corrente era quella dei samaritani, prolifica nella regione cui essi davano il nome, la Samaria: essi erano considerati tanto dai giudei del popolo quanto dalle élites religiose del tempo alla stregua di eretici.
La fazione più ai margini, costituente un esempio di monachesimo ebraico, era quella degli esseni: costoro risiedevano in comunità isolate, conducendo una vita per lo più ascetica ed isolata.
I gruppi più sovversivi erano rappresentati dagli zeloti, desiderosi di cacciare con la forza i dominatori romani.
Al contrario di quanto si è soliti pensare i nazirei, dall’ebraico nazir, “consacrato” o “separato” (l’analogia con la parola Nazareth è una mera assonanza) non rappresentavano una particolare fazione, in quanto il voto di nazireato non richiedeva l’adesione ad un gruppo sociale, ma solo l’adozione di un particolare stile di vita.
La Palestina costituiva all’epoca un’unica provincia con la Siria, ed era sottoposta al comando del governatore di quest’ultima; tuttavia la grande vastità e frammentazione del territorio richiedevano un controllo diretto da parte di funzionari di rango più basso, i praefecti, con poteri civili e militari. Benché si trattasse di una provincia remota, non si trattava affatto di una terra dimenticata dagli uomini, ma di un importante zona di transito commerciale per le carovane provenienti da oriente e da occidente.
PARTICOLARI SULLA NASCITA: LUOGO E DATA
Nella prima parte dell’articolo abbiamo fatto più volte riferimento a dati fornitici dai Vangeli che, se sostenuti da evidenze e dati storici possono costituire una preziosa risorsa nella nostra ricerca: tuttavia abbiamo fatto ciò con l’obiettivo, non poco impegnativo, ma comunque meno arduo di stabilire se la persona di cui stiamo parlando sia effettivamente esistita. Si tratta ora di ricostruire, o anche solo di abbozzare un profilo storico e biografico del personaggio.
Il primo problema è rappresentato ovviamente dalla data di nascita: sinora abbiamo dato un po’ per scontata l’informazione fornitaci da Tacito secondo cui Christus patì sotto l’impero di Tiberio.
Quando ha inizio la storia terrena di Gesù? A porre un certo problema è quell’anno 1 che ancora oggi è comunemente usato come punto fisso da cui computare le date, e che secondo la tradizione originaria corrisponde proprio alla nascita di Gesù: utilizzeremo per comodità le consuete dizioni “avanti Cristo” (a.C.) e “dopo Cristo” (d.C.). L’anno 1 è in modo concorde collocato 753 anni dopo la fondazione di Roma. Sappiamo che Tiberio ha governato tra il 14 d.C. e il 37 d.C.. Il Vangelo di Matteo però cita in corrispondenza della nascita un censimento voluto da Augusto (il cui regno va dal 27 a.C. al 14 d.C), e fa riferimento al tempo in cui Erode il Grande regnava sulla Giudea (costui muore nel 4 a.C).
Il censimento di cui si parla non sembra affatto coincidere con quello indetto dal governatore della Siria Publio Quirinio, forse su impulso dello stesso imperatore: l’anno in questione è il 6 d.C., ed Erode era già morto. La soluzione appare più convincente se si segue la lettera evangelica, e si identifica tale censimento, descritto come voluto da Augusto “su tutta la terra”, con quello effettivamente indetto dallo stesso nell’8 a.C.. Se teniamo conto delle lungaggini che richiedeva l’esecuzione di un simile ordine imperiale possiamo ritenere accettabile uno scarto che va dai due ai quattro anni (giusto il tempo della morte di Erode): dunque possiamo collocare la nascita di Gesù in una data compresa tra i 6 e i 4 anni prima dell’inizio dell’anno 1.
Del tutto arduo, se non impossibile, determinare con esattezza il giorno, o anche solo il mese di nascita. Per la località di nascita si può tener conto di quella indicata dai Vangeli di Matteo e Luca, ossia Betlemme in Giudea, oppure pensare a Nazareth, in Galilea, in cui si dice Gesù sia vissuto per buona parte della sua vita. Anche il particolare di Gesù nato in una grotta, estraneo alla tradizione canonica ma rivelato negli scritti apocrifi, potrebbe non essere poi così inverosimile: storici ed archeologi riconoscono che all’epoca era usanza non rara ricavare delle abitazioni o delle stalle in cavità naturali scavate nella roccia; è dunque possibile, come ipotizzato da alcuni, che Gesù sia nato in una casa-grotta che in realtà era l’abitazione di Giuseppe.
(SEGUE) PARTICOLARE SULLA NASCITA: AVVENIMENTI
Alcuni episodi, anche non miracolosi, narrati dai Vangeli circa la nascita di Gesù risultano assai difficili da accettare: uno di questi è la strage degli innocenti, cui seguì una altrettanto non comprovata fuga in Egitto. Nessuna prova storica che tale strage sia mai avvenuta anche se, qualcuno ha fatto notare, essa non risalterebbe come anomala in un “curriculum” di Erode; è anzi più facile che un’empietà di questo genere sia passata inosservata agli storici se pensiamo che il re in questione era Erode il Grande e non un qualsiasi altro personaggio!
Chiaro che stiamo facendo delle mere supposizioni, idonee ad essere rigettate come fantasie. Tuttavia è lecito pensare a delle implicazioni che i Vangeli tacciono del tutto: Erode non era amato dal popolo non tanto per la sua notoria crudeltà, ma anche e soprattutto per il fatto di non essere di stirpe giudaica: sua madre era araba, mentre suo padre era idumeo; potremmo dire che era un sovrano fantoccio tra le mani dei romani. Betlemme era definita, per tradizione veterotestamentaria, il villaggio di origine di re David: è dunque pensabile che Erode per gelosia o per dare dimostrazione del proprio potere, abbia voluto colpire proprio la casa del vero re di Israele.
Se vediamo la situazione da un punto di vista puramente geografico, comprendiamo la compatibilità, anche solo teorica, della strage con la circoncisione di Gesù presso il Tempio (narrata da Luca ma non da Matteo) e la fuga in Egitto: Betlemme si trova infatti ad un soffio dalla Città Santa (e dal palazzo di Erode, appena una dozzina di chilometri da quest’ultima). Nell’ipotesi di una fuga, percorrere la via di Nazareth avrebbe significato attraversare gran parte del territorio governato da Erode (Giudea e Samaria), per poi trasferirsi in un altro territorio governato da Erode (la Galilea); l’Egitto invece rappresentava invece una via di fuga ben più alla portata: in quella terra c’erano già da tempo delle comunità ebraiche. Ammettere per vera tale fuga non compromette troppo il senso generale della storia, e questo è uno dei probabili motivi per cui gli autori degli altri tre canonici non ne hanno parlato: se consideriamo che Erode morirà di lì a poco, possiamo immaginare che questo esilio forzato sia durato al più un paio di anni, o forse anche solo qualche mese.
GESÙ: IL RABBINO, IL MESSIA, IL RE
Definire Gesù un rabbino potrà risultare una sorta di offesa per alcuni, o un’esagerazione per altri, ma dobbiamo considerare che gli stessi Vangeli utilizzano diverse volte la parola rabbi, in alternativa alla parola greca propria per “maestro”, e in un paio di casi viene impiegato il sinonimo rabbuni: da qui è facile pensare che Yeshu ben Yosef (Yeoschua in ebraico) non fosse, almeno esteriormente, troppo dissimile dai tanti dottori che in Palestina insegnavano e interpretavano la sacra Legge.
Da quello che è possibile intuire leggendo le fonti antiche, tanto evangeliche quanto extra-evangeliche, questo rabbi Yeshu avesse una certa presa sulle folle: non pare plausibile che il Talmud abbia sprecato i suoi ripetuti attacchi nei confronti di un uomo che è difficile non identificare con lo stesso personaggio di cui parlano i Vangeli, se non si fosse trattato di un uomo che godeva di particolare seguito.
Non è da escludere che i seguaci abbiano ad un certo punto cominciato a vedere nel maestro il messia atteso dagli ebrei, oppure il re dei Giudei, o forse entrambe le cose. La parola ebraica masiah trova la propria traduzione in greco nel termine khristos, con il medesimo significato di “unto”, e l’unzione era un rito proprio dell’investitura dei re. L’attesa di un messia costituiva già ai tempi di Yeshu parte integrante della tradizione ebraica: il messianismo ebraico a tutt’oggi è l’aspettativa di un leader destinato a governare su Israele e sul mondo intero. Tutti questi dati possono farci intuire che la speranza di Israele era nella venuta di un capo di rango regale, e non di un qualsivoglia capo politico. In altre parole se Yeshu si fosse dichiarato soltanto un maestro, o al più un profeta non avrebbe rischiato così tanto la vita.
GLI INSEGNAMENTI: GESÙ CONTRO IL TALMUD
La qualificazione, o l’auto-qualificazione del personaggio in questione in un re-messia potrebbe far comprendere le ragioni di una condanna da parte dei romani, ma non da parte degli ebrei. Anche il dichiararsi profeta non avrebbe in sé integrato il crimine di bestemmia o di blasfemia. Dunque come ricostruire l’effettivo capo d’imputazione di quel predicatore senza far riferimento ai Vangeli? Ancora una volta ci viene in soccorso il Talmud, nel quale leggiamo che “quel tale”, come viene indicato a volte nel Talmud di Gerusalemme, o Yeshu, come viene chiamato nel Talmud Babilonese, è condannato per aver compiuto prodigi tramite la stregoneria e per aver insegnato dottrine contrarie all’ortodossia ebraica.
D’altro canto, la dottrina farisea, con tutto il suo bagaglio interpretativo della Legge Sacra, che imponeva il rispetto di numerosi e scrupolosi riti di condotta, sembra essere la più attaccata dal Gesù neotestamentario, forse per il fatto che si trattava di una delle correnti più conosciute e seguite a livello di popolo. Ricordiamo ad esempio il feroce attacco a quei farisei che “filtrano l’inezia e inghiottono un cammello”, riferito al fatto che secondo la legge rabbinica-farisaica bastava un singolo moscerino in una bevanda per rendere la stessa impura.
Resta da ricostruire, un po’ più nel dettaglio in che cosa consistettero effettivamente gli insegnamenti del rabbi Yeshu. Da quello che possiamo dedurre dal Nuovo Testamento l’insegnamento di Gesù non si inquadra in nessuna delle correnti di pensiero che abbiamo descritto qualche paragrafo addietro: il più delle volte egli critica i farisei, forse perché al tempo costituivano la corrente più influente, tuttavia il suo profilo non pare neppure accostabile alla tradizione sadducea, corrente con maggior presenza nel Sinedrio, a quella samaritana, al voto di nazireato, men che meno agli ideali di rivolta propri dello zelotismo.
(SEGUE) GLI INSEGNAMENTI: UN DOTTRINA NUOVA
Ciò che era considerato ortodosso per l’aristocrazia farisea, ossia quella tradizione orale poi consacrata nel Talmud, non costituiva ortodossia per i sadducei, i quali sottolineavano la necessità di una maggiore fedeltà a quella che era l’unica Legge, contenuta nella Torah, e non mediata da insegnamenti ulteriori. Da questo punto di vista l’insegnamento di Gesù poteva rappresentare un punto di interesse per i sadducei, se non fosse che essi rigettavano anche l’idea di una resurrezione dei morti e l’esistenza degli angeli, al tempo precetti già consolidati nella religiosità ebraica: dunque l’idea di un “Gesù sadduceo” non calza affatto. Nel Vangelo di Marco è narrato l’incontro di Gesù con alcuni sadducei; le risposte del rabbi alle loro domande sono emblematiche:
“Non siete voi forse in errore dal momento che non conoscete le Scritture, né la potenza di Dio? Quando risusciteranno dai morti (…) saranno come angeli nel Cielo. (…) Non è un Dio dei morti ma dei viventi!”
I samaritani erano gli abitanti della porzione centrale della Palestina nota come Samaria: essi professavano una forma di ebraismo separato dalla religione del Nuovo Tempio. Gesù nel Vangelo di Giovanni viene accusato di essere un samaritano; nel Vangelo di Matteo però Gesù proibisce ai propri discepoli di predicare nelle città samaritane: impossibile dunque accostare l’insegnamento di Gesù alla dottrina propria di questa fazione.
Alla luce delle suddette considerazioni, la conclusione forse più ovvia cui si può giungere, è che la predicazione del rabbi Yeshu costituisse agli occhio degli ebrei una dottrina originale, distinta da tutte le correnti dottrinali che abbiamo descritto in precedenza, sebbene ben legata alla tradizione della legge mosaica e agli insegnamenti dei profeti vetero-testamentari. Il tutto va inserito inoltre nel contesto del messianismo e dell’apocalittica ebraica, sviluppatesi a partire dal I secolo a.C. e ancora molto influenti in quegli anni.
I DUE PROCESSI
Quanto detto finora apre la strada al discorso sulla storicità del giudizio e sulla condanna a morte di Gesù da parte dei romani. Tale processo appare quanto meno plausibile a patto che si accetti un determinato compromesso: ossia che si accetti il fatto che le autorità romane potessero arrogarsi il diritto di giudicare e di comminare la condanna a morte ad un soggetto di stirpe israelita, sottraendolo alla legge ebraica. Alcuni paiono negare tale compromesso, sostenendo invece che le autorità religiose ebraiche, e nel caso specifico il Sinedrio, avessero l’autorità di emettere ed eseguire condanne a morte ai sensi della legge di Mosè: è chiaro però che l’esattezza di una tale statuizione andrebbe a impedire a priori il decorso degli eventi narrati dai Vangeli; in altre parole, niente processo di fronte a Pilato e niente crocifissione.
Come lasciato intravedere negli scorsi paragrafi, abbiamo deciso di intraprendere invece la via dei due processi. Ossia esamineremo la tesi secondo cui il nostro personaggio abbia, esattamente come lo Iesous dei Vangeli, subito due giudizi distinti, uno da parte ebraica e uno da parte romana. Ricordiamo che il Talmud, remando contro questa tesi, pare sostenere la tesi del “processo singolo”, istruito dalle autorità religiose ebraiche. Come spiegare dunque la profonda contraddizione? Innanzitutto bisogna ribadire che la compilazione dei testi talmudici è molto più tarda dei Vangeli, e che il contenuto degli stessi non corrisponde al pensiero di un unico autore, ma all’interpretazione e all’insegnamento dato da numerosi rabbini. Gli autori sembrano però coevi a mascherare il fatto che vi sia stato più di un giudizio: ciò forse per evitare di inimicarsi ulteriormente le autorità romane, ma forse anche per rimarcare una condanna il cui fondamento è squisitamente religioso.
L’ “APPESO” DEL TALMUD E IL “SANGUE INNOCENTE” DEI VANGELI
A fornirci però la chiave dell’inghippo è però il Talmud stesso il quale, in quei testi dove non si narra la morte per lapidazione del falso profeta, indica che egli è morto crocifisso, come alternativa all’assai ambigua espressione “essere appesi”. La crocifissione era infatti una condanna a morte propria dei dominatori romani.
A confermare ulteriormente la presenza del secondo processo, quello romano, è Tacito, il quale nella sua menzione di Christus ci riferisce che egli fu condannato dal procuratore Ponzio Pilato.
Nel dibattito storico molti concordano che la potestas gladii, ossia la facoltà di mettere a morte qualcuno, fosse appannaggio esclusivo delle autorità romane. Sarebbe favorevole al nostro gioco appoggiare tale visione, in quanto implicherebbe la necessità del secondo processo. Ciò però richiederebbe di vincere le contraddizioni presenti negli stessi Vangeli e in altri testi neotestamentari, in primis il riferimento alla possibilità di lapidare qualcuno in ottemperanza alla legge mosaica: emblematica è l’uccisione di Stefano, primo martire cristiano, narrata negli Atti degli Apostoli. Una possibile spiegazione è che in qualche caso, forse non troppo raro, i vecchi precetti giuridico-religiosi fossero comunque applicati, in disobbedienza alla nuova legge romana.
Giuseppe Flavio nelle sue Antichità Giudaiche attribuisce al Sinedrio la facoltà di emettere e condanne a morte, ma anche che tali sentenze potevano essere eseguite solo con l’approvazione del procuratore romano: ciò ci lascia immaginare che il giudizio del Sinedrio non fosse affatto vincolante.
Inoltre è possibile, in questa non semplice interpretazione, chiamare a soccorso le parole del Vangelo di Matteo: “«Pilato, vedendo che non otteneva nulla, ma che si sollevava un tumulto, prese dell’acqua e si lavò le mani in presenza della folla, dicendo: «Io sono innocente del sangue di questo giusto; pensateci voi». E tutto il popolo rispose: «Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli.»” (Mt 27,24 – 25). Da qui è facile pensare che i redattori del Talmud abbiano voluto, in tal senso, riportare tale assunzione di responsabilità.
FARISEI VS SADDUCEI
Da considerare anche che, i rapporti tra farisei e sadducei, e la reale importanza dei primi nel Sinedrio, il più importante organismo religioso ebraico dell’epoca, andrebbero indagate a fondo onde poter meglio comprendere le ragioni che sottendono alla condanna di Gesù: nel Vangelo di Giovanni ci viene detto che “(…) i sommi sacerdoti e i farisei riunirono il Sinedrio (…)”; tale asserzione viene solitamente interpretata identificando i due termini. Tuttavia ciò che i Vangeli sembrano tacere, quasi fosse un fatto scontato, è che il sommo sacerdote Caifa, e forse anche il suo predecessore e cognato Anna, appartenessero alla fazione dei sadducei. Non è escluso che questi ultimi ricoprissero all’epoca posti di vertice all’interno del Sinedrio; e provenendo essi dall’aristocrazia ebraica più “collaborazionista” nei confronti del dominio romano, si può ben comprendere il significato del passo che segue: “(…) verranno i Romani e distruggeranno il nostro luogo santo e la nostra nazione. (…)” (Gv 11,47 – 48) nonché la successiva statuizione di Caifa “(…) Voi non capite nulla e non considerate come sia meglio che muoia un uomo solo per il popolo e non perisca l’intera nazione” (Gv 11,49 – 50).
Dunque potremmo addirittura avanzare l’ipotesi di una “giustificazione sadducea” della condanna, orientata a tenersi buone le autorità romane, e una “giustificazione farisea”, basata invece su motivazioni di carattere essenzialmente teologico-religioso.
IL CONFLITTO TRA POTERI
Prima di proseguire, urge fare il punto della situazione: abbiamo detto che il predicatore Iesous – Yeshu è stato giudicato dal Sinedrio colpevole di stregoneria e blasfemia, e che viene condotto dal prefetto romano, senza la cui approvazione nessuna sentenza può essere eseguita. Eppure già dai primi riferimenti evangelici si coglie il sentore di una sentenza “tutta romana”, emessa a seguito di un processo “tutto romano”, separato e distinto dal giudizio operato dall’autorità religiosa ebraica; ed è proprio questa la tesi che ho deciso di sostenere. Tacito e Giuseppe Flavio nei loro brevi accenni non fanno menzione ad una sentenza di morte propria del Sinedrio, poi avallata dal praefectus: l’esecuzione della pena secondo la modalità peculiarmente romana della crocifissione costituisce un fortissimo indizio di quanto teorizzato. Possiamo sospettare che, se la faccenda risulta così intricata, ciò non sia dovuto ad una mera questione di giurisdizione; ancora una volta a suscitare curiosità è quello che i Vangeli non dicono, ma lasciano in qualche modo trasparire.
I sacerdoti che componevano il Sinedrio dovevano essere ben consapevoli che il predicatore che volevano vedere messo a morte aveva un ampio sostegno da parte della popolazione; forse non a Gerusalemme, ma soprattutto nelle zone in cui la predicazione di quell’uomo si era maggiormente concentrata: dunque la preoccupazione di quei giudici era di non subire la ritorsione del popolo. Occorreva dunque che fosse un potere più grande e indiscusso a procedere; se il popolo fosse insorto, avrebbe dunque concentrato le proprie energie su quel potere piuttosto che sui capi dei sacerdoti.
IL GIUDIZIO DI FRONTE A PILATO
Come fare dunque per convincere Pilato a prendere in carico la faccenda? Se i sacerdoti avessero recato al praefectus l’accusa di blasfemia, costui se ne sarebbe quasi certamente disinteressato: non era consuetudine dei romani intromettersi nelle questioni religiose degli ebrei. Nei racconti evangelici infatti vediamo i capi d’accusa mutare radicalmente: non più stregoneria e blasfemia, bensì sobillazione del popolo (seditio, ossia rivolta), istigazione a non pagare i tributi, e l’essersi definito re dei Giudei (lesa maestà). Di fronte a tali accuse un alto funzionario romano non poteva rimenare impassibile.
Tutti e quattro i Vangeli propongono in maniera sostanzialmente identica l’episodio del colloquio tra Pilato e Gesù. La domanda centrale del discorso è “sei un re?”. Possiamo coglierlo come un indizio che indica come l’accusa più fondata e meno controversa fosse la lesa maestà; dichiararsi il re dei Giudei infatti costituiva un affronto all’autorità romana, che in Giudea governava direttamente per mezzo di un praefectus. L’evangelista Luca a questo punto inserisce anche un episodio non contenuto negli altri racconti: Pilato, saputo che Gesù proveniva dalla Galilea, demanda il proprio giudizio al tetrarca di quella terra, Erode Antipa, figlio di quell’Erode che abbiamo citato nella prima parte del saggio. Quello che può sembrare un episodio del tutto irrilevante per i successivi sviluppi dei fatti, si rivela in realtà estremamente interessante per la nostra ricerca: abbiamo ormai visto i sacerdoti e il prefetto passarsi la “palla che scotta”; il fatto che Gesù si sia dichiarato non “re di Galilea”, regione governata da Erode, bensì “re dei giudei”, ossia di una provincia governata direttamente dai romani, indica un processo di competenza esclusivamente romana.
Nessuna prova che l’episodio dell’incontro con Erode sia mai avvenuto, ma ancora più difficile da ricostruire è la parte seguente della storia: in tutti e quattro i Vangeli ci viene detto che Pilato era propenso a riconoscere Gesù come innocente o al più, come un delinquente qualunque degno appena di essere castigato (da qui la scelta di farlo flagellare) e poi rilasciato, ma i membri del Sinedrio e la folla insistono perché sia condannato a morte. Era veramente delegabile la scelta da parte di Pilato?
LA SCELTA
Pilato, sentendosi alle strette decide di tentare un’ultima carta: lasciare che sia il popolo a decidere la sorte del nazareno. Il prefetto pone al popolo un’alternativa, la scelta di liberare un prigioniero tra Iesous e un certo Barabba, e di mettere l’altro a morte.
Barabba è un nome molto particolare che, secondo un’ipotesi oggi molto accettata, significherebbe “figlio del padre” (dall’ebraico bar abba). Secondo alcuni la scelta di tale nome sarebbe la chiave per una lettura di tipo gnostico: uccidere il figlio dell’uomo (il corpo) e liberare il figlio di Dio (lo spirito). Ciò spiegherebbe il motivo per cui in alcuni manoscritti del Vangelo di Matteo, questo nuovo personaggio è indicato con il nome Iesous Barabbas. A porre in crisi tale interpretazione sono alcuni particolari di carattere prettamente biografico: Barabba è indicato nei Vangeli, tranne appunto Matteo, come un omicida, un brigante o un sovversivo, in forte contraddizione con l’immagine uniforme di Gesù fornitaci dalle altre parti dei racconti.
Va inoltre considerato che Gesù al tempo era un nome estremamente diffuso: Yehoshua (italianizzato in Giosuè) è il nome del condottiero ebraico che guidò Israele dopo la morte di Mosè; e ancora, Giuseppe Flavio nelle sue Antichità cita una decina di personaggi che recano lo stesso nome, tutti distinti però dal Gesù dei Vangeli! Da tali premesse è possibile rispolverare l’ipotesi che tale Iesous Barabbas sia anch’egli un personaggio storico, distinto però dallo Iesous Khristos protagonista dei Vangeli. Prima cosa che verrebbe da pensare è che Barabba fosse, più che un volgare bandito, uno zelota, forse già noto fra i Giudei come condottiero di una feroce politica antiromana.
PROVOCATIO AD POPULUM
A sollevare durissimi dubbi è la mossa di Pilato di lasciar decidere al popolo, in base ad una imprecisata “tradizione” o usanza per la Pasqua. Tale tradizione non è attestata da nessuna fonte, ma pare inquadrarsi in quell’istituto antico conosciuto come provocatio ad populum: esso prevedeva che la pena capitale venisse mutata in pena più lieve se il popolo si esprimeva in tal senso; purtroppo non abbiamo notizia di una concessione simile nei riguardi del popolo di Giudea. Risulta inoltre ancor più oscura la scelta di Pilato di rischiare il rilascio di un prigioniero pericoloso come Barabba.
Diversi autori, ho notato, preferiscono glissare sul tema. Io ho voluto, a tutti i costi, cercare di fornire una spiegazione, anche se essa dovesse risultare quanto mai precaria e supportata da un numero di dati assai scarso. Senza dubbio, alla luce delle conoscenze odierne, appare estremamente inverosimile che Pilato, romano e pagano, per ottemperare ad una qualche tradizione ebraica, rilasciasse un sedizioso condannato a morte. Tuttavia noi sappiamo che Pilato trascorse dieci anni della propria vita come prefetto della Giudea: è veramente molto difficile che non abbia mai sentito parlare della Pasqua, la maggiore festività ebraica, che conduceva migliaia di pellegrini a Gerusalemme ogni anno; può dunque aver appreso che la Pasqua per gli ebrei era la festa con cui si ricordava la liberazione dalla schiavitù in Egitto. Da qui è facile pensare a cosa può essere passato nella mente di Pilato: “per la vostra festa della liberazione, io libero uno di voi”.
La strategia del funzionario romano appare quanto mai intuibile: da un lato, proprio perché il popolo si era espresso, lui stesso non sarebbe stato imputabile della morte del predicatore ebreo, dall’altro lato, in caso di successivi disordini, i capi dei sacerdoti non avrebbero potuto ricattare il prefetto minacciando di riferire i fatti all’autorità imperiale, in quanto essi stessi avrebbero dovuto rivelare di aver difeso un criminale come Barabba, rischiando perciò la pena capitale.
L’ESECUZIONE
Siamo quasi giunti alla fine del nostro viaggio nella Palestina del I secolo. La condanna è stata emessa, attende solo di essere eseguita.
Anche qui, come per la nascita, non ci è fornita una data precisa in cui la condanna sarebbe avvenuta; abbiamo però vari elementi fornitici dai Vangeli. La morte sarebbe avvenuta il venerdì precedente alla Pasqua, che cadeva di sabato. Le date proposte dagli storici oscillano tra il 26 e il 36 d.C., nel periodo che va da fine marzo a fine aprile. Se prendiamo per buone le indicazioni evangeliche, che ci dicono che Gesù aveva circa trent’anni all’inizio della su predicazione, le date possibili sono le seguenti: il 7 aprile 30, il 27 aprile 31, o il 3 aprile 33.
Durante il giudizio di Pilato, o appena dopo secondo certe versioni, Iesous subisce una delle pene corporali maggiormente usate dai romani: la fustigazione con il flagrum, uno strumento dotato di molte code di cuoio, dotate alle estremità di pesi di piombo che affondavano nella carne.
Il condannato venne poi rivestito per essere condotto sul luogo dell’esecuzione; assai precise sono le indicazioni di tale luogo: una collina chiamata Golgotha. Tale collina esiste realmente ed è confermato il fatto che fosse un luogo in cui venivano eseguite le condanne a morte per crocifissione.
I primi cristiani, è noto, non rappresentavano la crocifissione, in quanto considerata un evento triste e nefasto: anche nel medioevo era maggiormente diffusa l’immagine di Gesù vivente, nelle vesti di un sovrano. L’iconografia tardomedievale, raffigurante la via crucis ci dà l’immagine di Cristo che porta l’intera croce. Un uomo solo, soprattutto dopo essere stato flagellato, non sarebbe mai riuscito a recare con sé l’intera struttura della croce per tutto il tragitto: l’ipotesi più comune è che i condannati portassero legato sulle spalle soltanto il braccio trasversale della croce.
Il testo greco dei Vangeli fa riferimento alla croce solo con il termine stauros, il quale può essere inteso sia come “croce” che come “palo”.
La terminologia latina distingue invece il patibulum, la trave orizzontale, dallo stipes, l’asse verticale; quest’ultima doveva essere già piantata nel terreno sul luogo dell’esecuzione.
LE CAUSE DELLA MORTE
Il condannato, una volta inchiodato al patibulum con chiodi che trapassavano i polsi o i palmi delle mani, veniva issato con corde sullo stipes. I Vangeli ci dicono che alla sommità della croce venne appesa una scritta, quello che viene definito titulus crucis: era usanza infatti affiggere sopra al capo del condannato un’insegna con la motivazione della condanna.
La crocifissione era un metodo che rivelava tutta la sua crudeltà dal momento in cui il condannato, ormai privo di forze, non era più in grado di fare leva sui piedi: accasciandosi sulle ginocchia, il suo sterno era compresso e il respiro si faceva breve.
Una persona poteva resistere per giorni sulla croce, ma la morte sarebbe comunque sopraggiunta a causa dell’insufficienza respiratoria, delle emorragie per le ferite riportate prima o durante la crocifissione, o degli stenti patiti durante la lunga agonia.
Un atto di clemenza poteva consistere nell’accelerare la morte del suppliziato, spezzandone le gambe: secondo i Vangeli è la sorte subita dai due malfattori crocifissi quel giorno.
Ma per Iesous questo non si rivelò necessario: è sopravvissuto solo qualche ora sulla croce, indebolito dalla flagellazione e dal tragitto compiuto con il patibulum in spalla.
Ci si è interrogati anche sulla causa effettiva della morte del predicatore: i testi evangelici, quasi senza volerlo, ci forniscono dei dettagli interessanti. Nel Vangelo di Marco ci viene detto che Gesù lanciò un forte grido, prima di spirare. Giovanni, ci racconta che dopo la morte, Gesù viene trafitto al costato da una lancia romana, e che dalla ferità uscì sangue e acqua: è possibile supporre che la punta della lancia abbia trafitto il cuore del condannato quando era già defunto, e che il suo pericardio, la sacca che conteneva il cuore, fosse pieno di sangue e siero. Da tali informazioni è possibile immaginare che il decesso sia avvenuto per un improvviso arresto cardiaco.
Ed è qui che si conclude il nostro percorso storico sulla vita di un personaggio ancora avvolto nel mistero.
PER APPROFONDIRE:
Gesù Cristo e il cristianesimo, di P. Martinetti, 1934;
Gesù, la verità storica, di E. P. Sanders, 1993;
Il Gesù storico. Guida alla ricerca contemporanea, di Pier Paolo Bertalotto, 2010;
Gesù è davvero esistito?, di B. D. Ehrman, 2012;
Introduzione al Gesù storico, di Vittorio Russo, 1977;
Il Gesù storico, di Vittorio Russo, 1978
Inchiesta su Gesù, Corrado Augias e Mauro Pesce, 2006;
Alessandro Barbero sulla reale esistenza di Gesù di Nazareth, estratto del programma televisivo “aCdC”, 2020;
Gesù è esistito, puntata del programma televisivo “Passato e Presente”, 2020;
Gerusalemme ai tempi di Gesù, puntata speciale del documentario “Ulisse: il piacere della scoperta”, 2019;
Gli ultimi giorni di Gesù, puntata del programma televisivo “Passato e Presente”, 2018.
Ben documentato e interessantissimo. Come sempre. Complimenti, Isabel!