LEGGI QUI LA PRIMA PARTE
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RISCOPRIRE DON BOSCO
Nel contesto fin qui descritto, e considerati gli studi legati al 2° centenario della nascita di don Bosco, assume un particolare significato l’attuale processo di “riscoperta” del fondatore. Tale orientamento può forse sorprendere chi ha già letto biografie e testi di approfondimento. Sembra quasi impossibile, dopo il duemila, pensare di avere davanti un santo che, almeno in alcuni aspetti, rimane in parte “sconosciuto”. Ma qui non si tratta di avvicinare un soggetto di cui si ignora personalità e opere, ma di entrare meglio nel suo mondo interiore, nei vissuti che lo videro protagonista di momenti lieti e di eventi anche dolorosi, di comprendere con più attenzione quelle caratteristiche che l’hanno reso non unico nel suo genere ma irripetibile nella propria vocazione. È in tale contesto che è possibile anche parlare di novità.
Memorie devote ed episodica edificante
Chi ha cercato negli anni di entrare nell’umanità di don Bosco, nello stesso modo di pensare, si è trovato a volte tra le mani memorie devote e un’episodica edificante. Tale materiale, pur favorendo una filialità verso il fondatore, non è stato sempre dettato da un rigore storico (come già premesso nell’introduzione). In tal senso, la narrazione “a effetto”, il racconto “emozionante”, l’episodio “incredibile”, hanno avuto talvolta il sopravvento su un’esposizione legata a riscontri.
▪ Si cercò in particolare di mettere in risalto i segni non comuni (eccezionali) della personalità di don Bosco:
la predizione di fatti non ancora avvenuti (inclusa la morte di alcune persone); il recepimento di messaggi divini attraverso sogni; la moltiplicazione “miracolosa” di ostie, piccole pagnotte, castagne; il riportare in vita individui defunti (un giovane sui 15 anni di nome Carlo, nel 1849)…
▪ Tale tendenza ottenne talvolta dei risultati opposti alle intenzioni:
qualcuno, avendo appreso dei frequenti suoi “sogni profetici”, finì per considerarlo una persona “astratta”, ma dimenticò la concretezza dei suoi progetti; altri espressero riserve sul suo frequente far riferimento alla morte (senza tener conto dell’alto tasso di mortalità presente in Piemonte e altrove); non mancarono, poi, coloro che, avendo letto dei contatti intercorsi tra don Bosco e i più diversi interlocutori, ritennero il fondatore solo un abile “faccendiere”, un soggetto capace di maneggiare abilmente alte somme di denaro (senza considerare il voto di povertà del prete piemontese e dei confratelli), …
▪ In alcuni casi qualche agiografo arrivò a presentare un’involontaria caricatura del fondatore:
insistendo ad esempio sulle sue doti di “intrattenitore” … ma senza evidenziare un dato essenziale: il gioco, il divertimento, apriva a una spontaneità di rapporti. Per questo motivo anche alla ricreazione negli oratori salesiani venne data molta importanza. In pratica, l’attività ludica rientrò a buon titolo nel disegno educativo del santo astigiano.
Caratteri tipici e formazione
In altre situazioni, le agiografie hanno trascurato alcuni caratteri tipici che si ritrovano nella storia del prete piemontese e che sono utili da studiare per poter comprendere l’animus del fondatore, la sua ratio, il suo modus operandi. Si possono qui ricordare:
▪ le mentalità radicate nell’humus popolare arcaico presenti nell’astigiano, inclusa quella magico-sacrale (sogni, visioni, meraviglie, castighi divini…):
esse spiegano il suo modo di procedere per passi, senza accelerate e senza rallentamenti; il desiderio di mantenere buoni contatti con i vicini di territorio; la condivisione delle situazioni locali; lo spirito di solidarietà che si traduceva in immediati gesti concreti…
▪ gli insegnamenti ricevuti:
-in famiglia:
esortazioni materne, realtà della morte, uso oculato del denaro, valore del tempo, partecipazione al lavoro di gruppo…;
-presso diversi educatori:
don Lacqua, don Sismondo, don Calosso…;
-in ambienti lavorativi presso i coniugi Moglia, Giovanni Roberto, Evasio Savio…:
apprendimento di vari mestieri;
-nel seminario di Chieri:
formazione di tendenze conservatrici, lezioni di teologia morale non distanti da una tendenza rigorista;
-a Torino, nell’interazione con don Guala:
ascetica ignaziana, lotta decisa contro il giansenismo e il regalismo, sincera e tenera devozione al Sacro Cuore, alla Madonna, al Papa, frequenza dei Sacramenti, teologia morale secondo lo spirito di sant’Alfonso Maria de’ Liguori[1];
-a Torino, nell’interazione con don Cafasso, don Cocchi[2], don Cottolengo[3]…: attenzione alle realtà sociali, analisi critica di fenomeni urbani, importanza di un ‘apostolato ambulante’ nei luoghi della periferia, ideazione di progetti di promozione umana;
▪ le riserve mentali:
don Bosco non seguiva il primo impulso, era cauto; valutava le circostanze, si consultava con persone a lui vicine. Da una parte manifestò esplicite riserve verso coloro che osteggiavano la Chiesa cattolica, il Papa e il clero, dall’altra parte – però – non cessò di comunicare con interlocutori utili per le sue opere, anche se questi erano massoni e anticlericali;
▪ le convinzioni:
il fondatore, pur prendendo atto della complessa realtà socio-politica e di situazioni delle quali non sempre era chiaro il possibile sviluppo, avvertì l’esigenza di operare dei cambiamenti, si mostrò contrario alle posizioni passive, inerti, e fu deciso a realizzare un lavoro di rete;
▪ il criterio della concretezza nella soluzione di problemi contingenti:
don Bosco non iniziò il proprio impegno sacerdotale con idee grandiose e con vasti progetti; alcuni atteggiamenti di “grandezza” non gli appartengono. Egli si confrontò sempre con il reale, con quanto era possibile fare. Il suo disegno operativo si ampliò solo quando i mutamenti nel quotidiano gli fecero comprendere l’utilità di andare oltre i confini dell’area diocesana e di quelli della stessa patria.
L’osmosi tra don Bosco e la nuova società
Unitamente a ciò, le agiografie non hanno sempre tenuto conto dell’osmosi tra il fondatore e la nuova società che stava nascendo. Al riguardo si può affermare che qualche autore dimenticò che don Bosco:
▪ intuì che la nascita di contesti socio-economici diversi dai precedenti non sarebbe stata indolore, che avrebbe prodotto lacerazioni, accentuando le dinamiche dei reazionari e i moti popolari tendenti a una re-impostazione dell’intero sistema politico;
▪ osservò che il processo di industrializzazione non costituiva un fenomeno di superficie perché avrebbe inciso sulla condizione dei lavoratori, sulla distribuzione della forza-lavoro, sulla situazione delle famiglie, sul pauperismo;
▪ arrivò alla consapevolezza che detto processo avrebbe prodotto un cambiamento irreversibile nei rapporti sociali, nei costumi della gente, nelle abitudini, nella stessa dimensione spirituale delle persone.
Il passaggio “al nuovo”
Esisteva, quindi, per don Bosco una fase di passaggio ove il “nuovo” non aveva solo il volto di cambiamenti ristretti a mutamenti apicali di responsabilità, o a diversi sistemi amministrativi, o a più aggiornati processi gestionali. Il “nuovo” si presentava con una mutata visione del mondo e dei rapporti umani. Davanti a tutto questo, come reagì il fondatore? Nelle trasformazioni epocali del tempo la forza e la vitalità del suo messaggio emersero e si estesero sul piano della società civile, non su quello dei rapporti con le istituzioni dello Stato; si rafforzarono e raggiunsero risultati nell’ascolto attento dei bisogni collettivi:
▪ l’alfabetizzazione,
▪ la cultura professionale,
▪ il lavoro,
▪ il raggiungimento di un ruolo sociale.
Il giovane prete di Castelnuovo, nato da famiglia contadina, manifestò un cattolicesimo legato a tempi non moderni ma dinamico, sorto nelle campagne piemontesi e divenuto elemento vivo in una dinamica segnata dall’urbanesimo e dalla prima industrializzazione[4]. Da un quadro ambientale e sociale radicalmente diverso da quello in cui era nato, don Bosco seppe individuare gli stimoli e le suggestioni per la realizzazione di istituzioni e di modelli culturali che trascrivevano sull’originaria e inalterata matrice contadina alcuni valori della nascente modernità.
In altri suoi coetanei l’esperienza di una migrazione interna causò realtà dolorose:
▪ il non-adattamento si manifestò anche con fenomeni di de-strutturazione della personalità, la collocazione di ceti poveri in aree marginali produsse asocialità, la difficoltà legata a mantenere equilibri di salute e serenità familiare fu alla base di tensioni che causarono violenze domestiche o comportamenti penalmente rilevanti;
▪ in molti, anche nei meno svantaggiati, fu a volte problematico entrare in circuiti di partecipazione alla vita civile. Lo dimostrano anche talune situazioni fallimentari con conseguente ritorno in ambiente rurale;
▪ don Bosco, al contrario, non visse il passaggio dal luogo natìo alla capitale del Regno come un abbandono di realtà care ma inutili. Egli conservò sempre quanto aveva imparato negli anni dell’adolescenza e della giovinezza e utilizzò anche “quel” patrimonio come elemento di orientamento nelle ore delle decisioni importanti.
La visione della storia
Nel passaggio tra l’area rurale a quella urbana, nel progressivo inserimento della vita torinese, nella graduale comprensione delle dinamiche politiche, nella necessità di opere delle scelte sempre più gravide di conseguenze, don Bosco sviluppò una propria visione della storia. Tale suo modo di vedere i fatti del tempo poggiava per molti aspetti su:
▪ un insieme di temi neo-guelfi[5]:
cambiamenti senza moti rivoluzionari, propensione per un disegno federalista, ruolo centrale del papato,
▪ e di malumori anti-giacobini:
disaccordo verso: la lotta armata, la radicale conflittualità verso la Chiesa cattolica, il deismo, le idee laiciste inerenti i costumi da privilegiare.
Non si trova comunque nel prete astigiano un recupero nostalgico dell’epoca medievale. Al riguardo, all’inizio della sua Storia Moderna si possono leggere alcune righe, come queste:
“La serie degli avvenimenti, che io intraprendo a raccontarvi, dicesi Storia Moderna, sia perché abbraccia i tempi a noi più vicini, sia perché i fatti, che ad essi riferisconsi, non hanno più quell’aspetto feroce e brutale siccome quelli del Medio Evo. Qui è quasi tutto progresso, tutto scienza ed incivilimento; perciò ho motivo a sperare che le cose, che io vi andrò raccontando, debbano di certo riuscirvi utili e nel tempo stesso piacevoli”.
Tuttavia, la sintesi tra la cultura del mondo contadino e i valori della realtà urbana rimase incompiuta, anche se fu ricca di frutti. Da una parte si trova:
▪ una spiccata propensione per il racconto e per la divulgazione dei propri sogni profetici;
▪ una narrazione evocatrice di antiche battaglie tra bene e male;
▪ una legittimazione del proprio ruolo di leader attraverso alcune forme di “bravura” come l’illusionismo, la prestidigitazione, i giochi acrobatici;
▪ una professata familiarità con il meraviglioso (un grande cane grigio si materializzava all’improvviso in momenti di pericolo, lo scortava nei suoi trasferimenti notturni, e spariva).
Su un versante opposto, nella figura e nell’opera del santo, si riscontra una pratica spontanea di valori razionali:
▪ in una città segnata da aree sociali emarginate e “a rischio”, don Bosco inserì i giovani “sbandati” in un’organizzazione, conferì loro un senso di identità, di appartenenza, di orgoglio;
▪ in tempi nei quali la pratica pedagogica cattolica corrente era volta soprattutto all’educazione del cuore, in nome della quale si trascurava volentieri il leggere e il fare di conto, don Bosco – al contrario – predispose un modello pedagogico che mise in risalto l’educazione della volontà e dell’intelligenza;
▪ in un periodo storico ove era elevatissimo il numero degli esclusi dalla scuola di base, don Bosco avvertì l’alfabetizzazione di massa come un compito di importanza primaria, al quale si dedicò con forte determinazione;
▪ in anni nei quali la disoccupazione era tra le cause di tensioni irrisolte, l’ex-contadinello ed ex-vaccaro affermò il valore del lavoro come strumento di emancipazione e come segno di dignità personale;
▪ in una fase politica segnata da fratture e da conseguenti non-intese, don Bosco ebbe una consuetudine anche con le case aristocratiche e patrizie; le istituzioni da lui fondate non sarebbero state in grado di affrontare i necessari oneri senza un supporto derivante da un’interazione con i ceti dirigenti.
Il modello socio-professionale salesiano
Nell’ambito della sua storia terrena, don Bosco si trovò proprio sul confine tra:
▪ una domanda di lavoro
(le migliaia di braccia inesperte che affollavano i quartieri della periferia torinese della zona Dora, con l’apporto di un flusso costante di nuovi inurbati),
▪ e un’offerta
che non era certo ampia ma che imponeva comunque ruoli specializzati e non generici.
Per questo motivo il fondatore dovette operare delle scelte. Tali opzioni costituirono il modello socio-professionale salesiano. I suoi valori furono quelli di un ceto che voleva abbandonare una condizione posta ai margini sociali per inserirsi nella società di mercato con il lavoro. Tale processo si innestò non con delle attività di tipo generico (custode, facchino, addetto alle pulizie…), ma con delle prestazioni specifiche. Essendo svolto in imprese di piccole e medie dimensioni divenne un’affermazione personale di dignità, di capacità, di flessibilità. Un fabbro, un falegname, un tipografo o un meccanico esprimeva una cultura specializzata: era un professionista.
Iniziative precedenti l’opera salesiana
Sul piano dell’istruzione professionale, nell’area torinese, don Bosco venne anticipato dai Fratelli delle Scuole Cristiane[6], chiamati nel 1829 a Torino da Carlo Felice[7].
→ Dalla capitale del Regno sabaudo poterono divulgare i loro metodi e programmi, specie per iniziativa del pedagogista Giovanni Antonio Raynèri (1810-1867), dei ministri Gabrio Casati (1798-1873) e Lanza, del politico Carlo Boncompagni di Mombello (1804-1880) e dello stesso Cavour. Furono utili anche a don Bosco.
Accanto alla succitata congregazione, è da ricordare il Collegio degli Artigianelli.
→ Fondato a Torino (1849) dal già cit. don Cocchi, fu privo per circa 14 anni di una sede propria. Solo nel marzo del 1863 avvenne il trasferimento nello stabile di corso Palestro 14, edificato per avere dei locali più ampi e dei laboratori per preparare i ragazzi ai mestieri di fabbro, falegname, tipografo, legatore … Nel 1866 si chiese a don Leonardo Murialdo[8] di accettare l’incarico di rettore del Collegio[9]. Il prete accettò. Fu un altro santo piemontese molto attivo, proveniente da una famiglia di banchieri e buon amico di don Bosco[10].
Infine, è anche doveroso indicare un’iniziativa non torinese: la Società di Incoraggiamento d’Arti e Mestieri.
→ Fondata nel 1838 da esponenti degli ambienti economici e culturali lombardi, tra i quali Heinrich Mylius (1769-1854), Antonio De Kramer (1806-1853), Michele Battaglia (1800-1870), Luigi Magrini (1802-1868), Giulio Curioni (1796-1878), con lo scopo di favorire il perfezionamento tecnico-produttivo delle manifatture lombarde, la Società d’Incoraggiamento d’Arti e Mestieri iniziò ad operare nel 1841.
In origine l’attività della Società consisteva nell’assegnazione di premi, riconoscimenti e sovvenzioni a artigiani, inventori, capi operai e operatori economici che si segnalavano per l’introduzione di elementi innovativi nei processi di produzione. Ben presto tuttavia si comprese che “il miglior modo di favorire l’industria è quello di illuminarla con l’istruzione”, e la Società si dedicò all’organizzazione di corsi professionali articolati per settore.
Dal modello alla prassi quotidiana
Nei laboratori salesiani si mantenne una disciplina energica. Don Bosco non era un sentimentale e li gestiva come imprese industriali. I regolamenti erano molto sintetici e chiari.
→ È comunque da sottolineare una coincidenza lessicale. L’articolo 1 del regolamento dei laboratori (testo definitivo del 1877), stabiliva che “i giovani allievi di ogni officina debbono essere sottomessi ad ubbidire all’assistente ed al maestro d’arte, che sono i loro superiori”. In modo simile, l’articolo 36 del contratto nazionale dei metalmeccanici (rimasto inalterato dal 1948 al 1970) affermava: “I lavoratori dipendono direttamente dai loro superiori”. Per almeno un secolo quel principio è rimasto valido.
Tuttavia, se questo rappresentava il volto esigente dell’operato salesiano, esisteva anche un risvolto che lo giustificava e lo correggeva: era un modello che non mortificava le attese personali di emergere nel sociale, e che favoriva la mobilità sociale. Per i datori di lavoro, l’impiego di dipendenti che erano passati attraverso le scuole di don Bosco a Valdocco costituiva di per sé garanzia di carattere forte e di capacità professionale.
Mondo imprenditoriale e progetto salesiano
Un primo esempio dell’attenzione del mondo imprenditoriale per la formazione salesiana è dato dalla fitta trama di rapporti che presto si intesse tra don Bosco e la direzione torinese delle ferrovie, che costituiva nella seconda metà dell’Ottocento una delle più importanti imprese della città, e che manifestò una preferenza per l’assunzione di operai preparati a Valdocco. Attraverso questi meccanismi, il modello salesiano:
▪ si presentò come un punto di riferimento per chi desiderava una forma di elevazione sociale,
▪ agì come un moltiplicatore delle aspirazioni sociali per le fasce più deboli della popolazione,
▪ contribuì a diffondere una domanda di istruzione ben al di fuori di quei ceti elevati che ne erano stati i fruitori privilegiati.
Le differenze rispetto alla politica statale
Diverso era allora l’orientamento dello Stato liberale. Senza intuire la domanda di professionalità diffusa che la nascente società industriale avrebbe posto, la legge Casati sull’istruzione del 1859[11] non prese neppure in considerazione l’istituzione di scuole professionali.
Prevedeva invece un triennio di scuola tecnica e un successivo triennio di istituto tecnico destinati, in teoria, a formare i quadri medi della società degli affari, degli impieghi e dei commerci. In teoria, perché nella realtà questo genere di scuola, non sapendo risolversi a una scelta netta tra una cultura generale di stampo umanistico, e un più deciso orientamento al mondo del lavoro, non riuscì a proporre un efficace modello formativo. Ancora negli ultimi anni dell’Ottocento esisteva una forte polemica sull’incapacità di queste scuole a “dare un mestiere”.
Don Bosco e i suoi successori avranno perciò dalla loro una formula assai più flessibile e dinamica. Osserva in proposito lo storico Stella: “Tra l’antico modo di stabilire rapporti di lavoro tra padrone di bottega e apprendisti, e il nuovo modello della scuola tecnica prevista dalla legge organica sull’istruzione, don Bosco preferì percorrere la sua terza via: quella cioè dei grandi laboratori di sua proprietà, il cui ciclo di produzione, di livello popolare e scolastico, era anche un utile tirocinio per i giovani apprendisti”[12].
Si può aggiungere un dato: don Bosco, non in sintonìa con diversi princìpi dello Stato liberale unitario, nel rapporto con la società del suo tempo:
▪ non rifiutò comunque di interagire con le concrete dinamiche politico-economiche;
▪ si rese conto che in uno Stato che proclamava il valore della proprietà e dell’iniziativa privata, era necessario costituire un’organizzazione che rispettasse tale affermazione;
▪ prese atto che la Società salesiana avrebbe dovuto reggersi soprattutto sui proventi delle scuole, dei laboratori e della produzione tipografica ed editoriale.
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OLTRE I RACCONTI SUL SANTO IMPRENDITORE
Nel contesto descritto in precedenza, la figura di don Bosco riacquista forza. Lo attesta anche un fatto non marginale. Ancora vivente il fondatore, l’industriale Alessandro Rossi[13] rivolse attenzione all’opera di Valdocco e chiamò i confratelli del santo nell’area produttiva di Schio. Tutto ciò non avvenne a caso. Le iniziative salesiane presentavano ormai connotati di cultura imprenditoriale recepiti dalle stesse leggi Siccardi. Queste, pur non gradite, furono considerate il segno di una tendenza irreversibile nei rapporti Stato-Chiesa. L’organizzazione salesiana venne allora concepita come una società ove i membri conservavano i diritti civili, erano assoggettati alle leggi dello Stato, pagavano le imposte. In pratica, un’associazione di liberi cittadini impegnati in opere di beneficenza[14]. Realizzare ciò, cercare un’autonomia economica, significava tuttavia investire e organizzare le risorse secondo criteri e strategie che non avevano nulla a che fare con il passato. Per tale motivo don Bosco utilizzò in modo concreto i beni immobili di cui disponeva. Quando gli mancarono le risorse umane per servirsene, li monetizzò. Divenne così un imprenditore privato di iniziative socio-assistenziali.
Influire sulle istituzioni sociali
Nel disegno del fondatore, la congregazione doveva cercare di diventare autosufficiente sul piano economico. A ogni salesiano venne chiesta una presenza attiva nelle istituzioni sociali del tempo. Lo attesta anche da passo del Discorso tenuto dal santo nel 1879, riportato da mons. Antonio Maria Belasio[15] con il titolo Non abbiamo paura!:
“Già Tertulliano diceva a’ pagani: Voi non ci volete perché cristiani: e noi v’abbiamo già empito il vostro esercito… Sì, noi vi abbiamo già empito le vostre curie, traffichiamo con voi nei mercati, ci affratelliamo in tutte le cose, lasciamo a voi solo i templi de’ vostri idoli. Anche i Salesiani diranno: Voi non volete più frati, né religiosi di qualunque congregazione, e noi verremo a farci laureare nelle vostre università per difendere il più caro patrimonio del genere umano, le verità che salvano. Bene, noi saremo artigiani nelle vostre botteghe e lavoreremo come servi fedeli del Padre di tutti; noi saremo chiamati coscritti nei vostri reggimenti, e faremo rispettare le virtù e la religione che non si conoscono se non per bestemmiarle; oh sì, vogliamo intrometterci tra voi dappertutto, e lasceremo ai nemici della religione solo le tane dei vizii. I Salesiani si son gettati nel mezzo di una società in movimento, in progresso, ed essi devono dire con vivace parola: Fratelli, anche noi corriamo con voi; e con amabile affabilità fermarli seco, quasi a divertirli con una cert’aria di novità”[16].
La forma di presenza ricordata dal Belasio non ha nulla in comune con le strategie mirate ad accentuare le diversità. In don Bosco era necessario proporre, coinvolgere, realizzare, partecipare, convergere (quando possibile) su progetti condivisi. Tutto ciò era fattibile se si evitavano delle contrapposizioni di tipo irriducibile. Piuttosto che insistere sull’idea di conflitto sociale, di eversione politica, era necessario partire da micro-realizzazioni, cioè da esperienze concrete. Solo da una quotidianità operosa poteva nascere un “fatto concreto”, un’esperienza ripetibile, una prospettiva non mortificante. In tal senso non si trova nel fondatore né un desiderio di trionfalismo, né una posizione di supremazia. Il suo desiderio rimaneva quello di vivere Cristo nella Chiesa, traendo da tale realtà la forza per operare nel sociale.
L’importanza della comunicazione a raggio
Proteso verso una linea imprenditoriale, don Bosco ebbe anche un singolare senso delle comunicazioni di massa, infrequente in quel momento storico. Il messaggio da trasmettere doveva essere diretto, coinvolgente, impostato in modo da essere ricordato per qualche dettaglio posto in evidenza. La circolazione di testi religiosi e di cultura varia doveva servire per rafforzare nella fede, per sentire cum Ecclesia, per migliorare i costumi, per aiutare le opere salesiane, per formare onesti cittadini. In tale contesto, la produzione editoriale che uscì dai laboratori tipografici ebbe un particolare successo:
“Il Giovane provveduto”
“Le Letture Cattoliche”
“Il Bollettino Salesiano”
diventarono presto i simboli e i veicoli di una rete editoriale che il trascorrere del tempo non fece altro che qualificare ulteriormente.
I centocinquanta volumi e volumetti pubblicati dal fondatore ebbero una vasta diffusione. La sua:
Storia d’Italia raccontata alla gioventù
raggiunse trentuno edizioni. Quando Antonio Gramsci[17], divenuto un torinese naturalizzato, espresse la sua ammirazione per la diffusione della stampa cattolica, certamente aveva presente questo aspetto della cultura imprenditoriale salesiana. All’Esposizione Industriale di Torino del 1884, l’unica istituzione cattolica seriamente rappresentata fu proprio la società salesiana, che espose il ciclo continuo della carta prodotta nello stabilimento salesiano di Mathi Canavese (Torino), con quanto di meglio offriva in quel momento la tecnologia europea, secondo il riconoscimento degli esperti che formavano la giuria. Insieme a questi macchinari, furono esposti anche i procedimenti tipografici che portano dalla carta al libro finito. Si trattò di una delle grandi attrazioni dell’Esposizione.
→ La carta, la tipografia, l’attività editoriale, i laboratori, le scuole, le missioni… il santo imprenditore era così riuscito a realizzare quello che oggi si definisce un sistema sinergico.
Le salite da affrontare
La presenza dei salesiani nelle istituzioni sociali, e i positivi risultati ottenuti sul piano del sistema sinergico e su quello, collaterale, dei processi di comunicazione, farebbero pensare a un don Bosco perennemente vincitore. La storia, al contrario, racchiude pagine dolorose. Il fondatore, infatti, dovette affrontare:
▪ una serie di prove legate al rapporto con le pubbliche autorità:
convocazioni di ufficio sulla base di segnalazioni, critiche legate alla presenza di minori “a rischio”, osservazioni sui metodi pedagogici, ispezioni…;
▪ attacchi di giornalisti:
ad esempio, i redattori del giornale anticlericale la “Gazzetta del Popolo” di Felice Govean[18], accusarono don Bosco di eccessiva spregiudicatezza nell’uso del denaro[19]; analoghi rilievi emersero in sedi ecclesiastiche ufficiali, anche nel corso delle stesse fasi di canonizzazione;
▪ polemiche da parte di non cattolici;
▪ dure affermazioni di un tipografo (Favale[20]) e di un editore libraio (Vigliardi[21]):
sostenevano che le tipografie degli “istituti pii” conducevano una concorrenza sleale nei confronti delle tipografie e librerie private e che era necessario sopprimerle,
▪ vicende ecclesiali che lo videro in forte difficoltà con alcuni esponenti della gerarchia cattolica (specie gli arcivescovi torinesi: Ottaviano Ricardi di Netro[22] e soprattutto Lorenzo Gastaldi:
non identità di vedute sullo sviluppo dell’opera salesiana;
▪ situazioni politiche segnate dalle turbolenze del tempo;
▪ lotte contro il Papa e i suoi sostenitori;
▪ incessanti problemi economici;
▪ difficoltà a conservare negli oratori e negli istituti salesiani lo spirito delle origini[23].
In particolare, sul piano economico, l’attacco frontale convergeva su un punto: il fondatore cercava soldi, li chiedeva a tutti, riusciva a ottenere molti sostegni e lasciti dai benefattori, ma – poi – come veniva usato tutto quel denaro? Erano documentate le spese? Esisteva una puntuale contabilità? Davanti a tali interrogativi non era difficile indicare dove andavano a finire “le ricchezze”. Gli investimenti realizzati e quelli in fase di attuazione restavano prove più che sufficienti a dimostrare un corretto uso del denaro. Malgrado ciò, sarebbe comunque molto interessante tentare una ricostruzione dei conti di don Bosco. Come in tutte le società sviluppatesi nel periodo in esame e nei decenni successivi, non stupirebbe il riscontro di qualche incongruenza. Forse, il valore d’acquisto di determinati beni immobili potrebbe apparire sottovalutato. Comunque, sul piano delle operazioni immobiliari, don Bosco rivelò un intuito singolare. Da una lettera dell’architetto Alessandro Antonelli[24] si ricava il fatto che il fondatore era entrato in trattative con la comunità israelitica torinese per l’acquisto della Mole Antonelliana. Alla fine, non se ne fece nulla. Probabilmente anche lui dubitò sull’utilità dell’iniziativa.
ANNOTAZIONI DI SINTESI
Don Bosco come sacerdote educatore avvertì i drammi legati alle condizioni di abbandono in cui versava una parte della gioventù del tempo. Sul versante della lettura storica intuì (sul piano intellettuale ed emotivo) che i problemi legati alla condizione delle nuove generazioni non erano un fatto circoscritto al Piemonte, ma che avevano in sé una valenza universale (ecclesiale e civile); in ambito operativo avvertì la necessità di promuovere una rete di interventi impostata in modo da coinvolgere lo Stato e la Chiesa secondo un principio di corresponsabilità.
Percorrere le strade del possibile
In presenza di una situazione sociale segnata da ingiustizie, reagì individuando – di volta in volta – le possibilità che gli venivano offerte dalle mutate condizioni storico-culturali, e dalle congiunture economiche che si presentavano. Nonostante l’acuirsi del conflitto tra Chiesa e Stato, tra clericalismo ed anti-clericalismo, tra transigenti ed intransigenti, non si rassegnò alla rottura delle relazioni Stato-Chiesa dal momento che viveva in prima persona la sofferenza per molte persone che si allontanavano dalla propria fede. Nella pacifica convivenza, convergenza e collaborazione tra la politica degli educatori di giovani e quella dei professionisti di area pubblica, don Bosco conservò la libertà e la fierezza dell’autonomia. Non volle legare la sorte della sua opera all’imprevedibile variare delle vittorie politiche. Intese salvaguardare, per sé e per i suoi, la possibilità dì inserirsi nelle condizioni sociali e politiche del tempo, e, al loro interno, operare senza l’obbligo di schierarsi in questa o in quella formazione partitica.
Semplice sacerdote-educatore, senza essere un politico o un sindacalista o un sociologo, e pur essendo figlio di una teologia e di una concezione sociale con evidenti limiti, riuscì comunque ad anticipare, sotto vari aspetti, la moderna azione educativa (basata sui diritti umani dei bambini e degli adolescenti)[25], evidenziò la possibilità di realizzare soddisfacenti integrazioni nella cooperazione pubblico-privato, intuì la validità di un sistema sociale rispondente a logiche di solidarietà e di sussidiarietà (i cui princìpi sarebbero stati acquisiti dalla politica con fatica solo nel secolo successivo). Operando nel civile e nel sociale, ma con precisi ed essenziali risvolti religiosi, don Bosco dette prova di una duplice cittadinanza: quella della città terrena e quella della città celeste, non disgiunte fra loro.
Storia di un fenomeno?
La vicenda terrena di don Bosco è stata definita da taluni come la storia di un fenomeno. Tale linea di pensiero, pur attingendo a documenti, può rischiare – però – di mettere in ombra la fatica di un cammino e può dimenticare un dato: il prete astigiano non si è fatto strada insistendo su analisi teoriche o elaborando trattati scientifici, ma ha scelto di procedere con gesti poveri, in modo umile, con poche risorse.
Il fondatore seppe inserirsi gradualmente nei vissuti dei minori e degli adolescenti, oltre che in quelli di adulti e di anziani. Tutto questo spiega la semplicità del suo linguaggio. Qualche voce critica, nel migrare del tempo, gli ha rimproverato di scrivere in modo troppo semplicistico, di non sviluppare compiutamente un apporto teologico, di non essere eccessivamente preciso nei riferimenti e nelle stesse ricostruzioni storiche, di spingersi un po’ troppo verso l’emotivo e il fantasioso. In realtà, in tali posizioni, si riscontra la non presenza di alcuni tasselli storici.
La scelta di partire “dal basso”
Per realizzare le diverse iniziative che, negli anni, condurranno a un disegno compiuto, don Bosco scelse di partire “dal basso”. Anche se nei programmi progressivamente realizzati ebbe necessità di sostegni, non si preoccupò di convincere “prima” e “subito” i teorici dell’educazione del tempo, non cercò gratificazioni. Non si mosse neanche per coagulare forze politiche in grado di presentare alternative ai programmi statali vigenti, alle linee-guida ministeriali, alle scelte pubbliche decise dalle autorità del tempo.
Il fondatore affrontò la strada dell’esperienza graduale in più ambienti, facendo presto i conti con le prove derivanti dall’inesperienza, dalla precarietà degli inizi e dalla povertà di risorse.
Don Bosco: in parte sconosciuto?
Di don Bosco, grazie anche all’Epistolario, si conoscono la vita spirituale[26], le idee, le iniziative e i contatti attivati con i più diversi interlocutori. Tutto questo, a sua volta, spinge oggi gli studiosi ad approfondire ulteriormente sul piano storico:
▪ le coordinate del disegno educativo;
▪ l’estensione della visione progettuale;
▪ la co-presenza di obiettivi pluricentrici (dall’alfabetizzazione alla formazione professionale, dalla lotta all’emarginazione all’accompagnamento verso nuovi ruoli sociali…);
▪ la complessità dei rapporti di don Bosco con lo Stato (prima Regno di Sardegna poi d’Italia)[27], con il clero, i vescovi e il Papa;
▪ la rapidità con la quale si mossero le missioni salesiane;
▪ le iniziative promosse nel campo della “cultura popolare”cattolica;
▪ l’interazione con esponenti del movimento cattolico.
I limiti di don Bosco non sminuiscono la sua figura
Criticare il lavoro di una persona non è difficile. Ad esempio, è facile individuare i limiti di un’opera di divulgazione popolare del fondatore quale la Storia d’Italia raccontata alla gioventù (che tra il 1856 e il 1888 riscosse ampi consensi). Addirittura, si può anche non accogliere la maggior parte dei giudizi estetici (legati a emozioni e a stati d’animo) espressi da don Bosco nel succitato lavoro. Tutto questo non sminuisce in alcun modo la positività della sua figura. In tale contesto, occorre ricordare che il fondatore è un personaggio che non è facile da classificare secondo gli abituali schemi di una certa storiografia politica. Egli può ben allinearsi alle direttive di Pio IX nel contestare lo Stato liberale; il fatto è che la frequentazione dei suoi massimi esponenti – da Cavour, a Lanza, a Rattazzi – non è affatto occasionale. Secondo una tarda testimonianza del vescovo Geremia Bonomelli[28], don Bosco gli avrebbe detto:
“Nel 1848 io mi accorsi che se volevo fare un po’ di bene, dovevo mettere da banda ogni politica. Me ne sono sempre guardato e così ho potuto fare qualche cosa, non ho trovato ostacoli e anzi ho avuto aiuti anche là dove meno me l’aspettavo”[29].
È anche noto che il personaggio politico più largo di aiuti sostanziali a don Bosco fu Urbano Rattazzi. Quando la capitale venne trasferita a Firenze, Giovanni Lanza e altri coinvolsero il fondatore nella nomina dei vescovi per le sedi vacanti. Giunta al potere la sinistra liberale, il prete astigiano ebbe modo di continuare a tessere forme d’intesa, malgrado critiche e perplessità emergenti negli ambienti politici vaticani, e nonostante l’opposto orientamento del movimento cattolico intransigente.
Dove “collocare” don Bosco?
Il vero punto di vista di don Bosco sulla presenza del cristiano nella realtà sociale e politica non è, dunque, né temporalista, né guelfo, né cattolico-liberale. Con lui le categorie di giudizio esclusivamente politiche non fanno presa.
Non risulta agevole, in definitiva, collocare una persona come don Bosco nelle coordinate di una pluridecennale storiografia politica, riferimenti interiorizzati a tal punto da applicarli ad ogni circostanza storica, situazione, personalità. Gli schemi concepiti per coppie di antinomie (autorità-profezia, tradizionalismo-riformismo, intransigentismo-conciliatorismo) si rivelano inadeguati a rappresentare la complessa vicenda storica del fondatore, così come quella di don Giovanni Battista Piamarta[30] o di don Luigi Guanella[31].
Don Bosco evitò di farsi chiudere in storici steccati
Don Bosco capì che nella situazione piemontese, prima, e dello Stato post-unitario, poi, la religione rischiava di essere troppo coinvolta nelle vibranti passioni della politica, e non si lasciò imprigionare dagli storici steccati.
La linea operativa che caratterizzò la sua opera in quasi mezzo secolo di attività, ed in particolare dopo il 1848, non fu l’alleanza, ma l’interazione, la comunicazione, la reciproca conoscenza, con le istituzioni politiche e amministrative dello Stato liberale (per esigenze immediate e contingenti).
L’intuizione-chiave
Il prete di Valdocco, a cui premeva sempre e in primo luogo aiutare gli uomini a conquistarsi la vita eterna, aveva compreso che non sono i dibattiti, le teorie, i sogni utopistici, i trasformismi, a fare dei cattolici una forza costitutiva del Paese, ma sono piuttosto le iniziative concrete con le quali i cattolici difendono i diritti dei deboli, dei fragili. È in tale contesto che ogni progetto di don Bosco maturò prima di tutto dall’intelligenza dei tempi avuta dal fondatore, e dalla sua disposizione al confronto con il moderno in ambiti quali il sistema di produzione industriale, le innovazioni scientifiche e tecnologiche, la ricerca di migliori condizioni di vita e di lavoro per il ceto operaio.
→ Don Bosco rimane a livello storico un personaggio significativo anche perché aveva compreso che l’ideologia propria dei partiti e movimenti agrari e/o contadini (il ruralismo) era un’utopia fuori dalla realtà. Il problema vero era quello di accettare la sfida dei tempi nuovi, impegnandosi a fare entrare le nuove generazioni nel processo di produzione industriale, aiutando i giovani sul piano della competenza professionale e formandoli ad una saldezza morale e religiosa tale da renderli vittoriosi di fronte ai pericoli di dissociazione e di perdita in umanità che la fabbrica poteva recare con sé.
L’etica del lavoro produttivo
Il prete astigiano contribuì a rinnovare nella Chiesa e nella società quella che Piero Bairati[32] chiama “l’etica del lavoro produttivo”[33]. Fondatore di “una congregazione nuova, sorta – sono parole di Don Bosco – per incorporarsi col popolo e assimilarsi a lui in una sola vita”, la cultura salesiana del lavoro (“chi non sa lavorare non è salesiano”[34]) non appartiene alla storia del primo capitalismo e supera la concezione assistenzialistica.
Fin dai primi regolamenti della casa, redatti tra il 1852 e il 1854, don Bosco volle insistere sul valore auto-formativo del lavoro e sul suo alto significato sociale, essendo esso sempre un modo di servire il prossimo e di contribuire al bene comune. “Adamo era stato posto nel Paradiso terrestre perché lo coltivasse”[35], ammoniva il fondatore. E nella redazione definitiva del regolamento dei laboratori salesiani, quella del 1877, all’articolo 19 si legge una chiara eco del paolino “chi non lavora non mangi”: “L’uomo è nato pel lavoro e solamente chi lavora con assiduità trova lieve la fatica e potrà imparare l’arte intrapresa per procacciarsi onestamente il lavoro”.
Don Bosco accompagna nella transizione
Il fondatore cercò di non rendere dolorosa alle nuove generazioni la transizione da una società rurale a un tessuto industriale che aveva ritmi e comportamenti radicalmente diversi. Insegnò la serietà del lavoro organizzato, volle insistere sulla specializzazione professionale e sulla qualità del prodotto, perché nella società di mercato ogni persona si doveva inserire e si affermava in ragione della propria capacità a produrre beni e servizi. Non ebbe torto la “Voce dell’Operaio” di Torino, che non si era mai occupata del fondatore, a scrivere, in occasione della morte: “Don Bosco consacrò al bene della classe operaia la sua grande anima”[36].
L’intuito imprenditoriale del fondatore gli permise di concretizzare in modo rapido la lezione dei fatti, fin dall’inizio del decennio dominato dalla figura di Cavour. Per quanto potesse non condividerla, don Bosco capì che la politica ecclesiastica liberale era irreversibile e che in quelle condizioni era necessario, per la realizzazione dei programmi educativi e sociali, il raggiungimento dell’autonomia economica sia nei confronti della Chiesa che dello Stato. Le sue intuizioni non potevano reggersi su rendite ecclesiastiche. Così egli cercò di mettersi nella condizione di non possedere beni che potessero essere considerati manomorta ecclesiastica. In una società fondata sulla libertà d’impresa, le istituzioni salesiane dovevano essere un’impresa privata.
L’ultima lezione: spezzare i circoli viziosi
Sono molte le lezioni che don Bosco è stato capace di impartire senza essere seduto dietro una cattedra. I suoi insegnamenti coprono più tematiche: religiose, ecclesiali, sociali, civili, culturali. Potrebbe sembrare a prima vista che si tratti di un disegno a raggiera privo di un qualcosa che riassuma efficacemente le frasi, i discorsi, gli scritti, i messaggi che anticiparono il suo ingresso nella Casa del Padre. Ma, a ben vedere, esiste un’idea-chiave che costituisce l’ultima lezione, cioè l’essenziale. Il fondatore ha scritto tra le pagine della storia un’affermazione: dalla vita in Dio nasce l’impegno di prossimità verso tutti i Suoi figli. Nessuno è escluso. Perdente. Nessuno ha chiuso con la società.
Con questa premessa don Bosco ha lottato per spezzare le logiche perdenti che sostenevano di fatto un immobilismo sociale. Ha cancellato i fatalismi e ha costruito dei passaggi, dei cambiamenti, nei ceti sociali. Non ha gettato bombe e non si è rallegrato per i caduti di diverse guerre, per gli invalidi e per i prigionieri. La sua rivoluzione è sorta da una linea di partenza diversa da quella di molti innovatori del suo tempo. Non programmi di riscossa generalizzata ma percorsi pedagogici. Non assalti alla baionetta ma aree di lavoro per favorire dei percorsi di crescita sociale. Non la sconfitta di un avversario ma la convergenza intorno a valori non negoziabili in assenza dei quali non ci poteva essere – e non ci sarà mai – un disegno di vita.
INDICAZIONI BIBLIOGRAFICHE
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RINGRAZIAMENTI
È doveroso ringraziare quanti hanno sostenuto la preparazione di questo lavoro: (in ordine alfabetico) don Luigi Cei sdb (Archivio Storico Centrale dei Salesiani), don Francesco Motto sdb (Istituto Storico Centrale dei Salesiani), don Marian Stempel sdb, prof. Francesco Traniello (professore emerito, già ordinario di storia contemporanea presso l’università di Torino).
[1] Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787, santo). Vescovo. Fondatore della Congregazione del Santissimo Redentore.
[2] L’oratorio promosso da don Bosco a Valdocco trasse ispirazione da quello dell’Angelo Custode aperto nel 1840 da don Giovanni Cocchi (1813-1895), un prete nativo di Druento, nella zona malfamata e degradata del Moschino, ai margini del borgo cittadino di Vanchiglia. Cfr. al riguardo: D. Bolognini, Don Giovanni Cocchi fondatore degli Artigianelli, Velar, Gorle (BG) – Elledici, Torino 2013.
[3] Giuseppe Cottolengo (1786-1842, santo). Il suo insegnamento principale fu quello di rispondere alle emergenze socio-sanitarie e di tutelare gli ultimi.
[4] In tema di prima industrializzazione si rimanda a: P.F. Giorgetti, La prima rivoluzione industriale tra politica economica ed etica. Vincolismo, liberalismo, socialismo, democrazia, ETS, Pisa 2009.
[5] Neoguelfismo: movimento politico e d’opinione sostenuto dalla pubblicazione (1843) del Primato morale e civile degli italiani di Vincenzo Gioberti (1801-1852). In questo testo l’A. proponeva una soluzione federalista del problema nazionale affidando al Papa una direzione morale apicale.
[6] La congregazione venne fondata da Giovanni Battista de la Salle (1651–1719, santo).
[7] Carlo Felice di Savoia (1765-1831) fu re di Sardegna dal 1821 alla morte.
[8] Leonardo Murialdo (1828-1900, santo). Fondatore della Congregazione di San Giuseppe.
[9] Il precedente rettore era stato nominato canonico parroco della cattedrale di Biella.
[10] G. Dotta, Dall’Oratorio dell’Angelo Custode all’Oratorio di San Luigi: Leonardo Murialdo tra don Cocchi e don Bosco nei primi oratori torinesi, in “Ricerche Storiche Salesiane”, n. 28, 2009, pp. 361-385 (prima parte); n. 29, 2010, pp. 117-138 (seconda parte).
[11] È noto come legge Casati il regio decreto legislativo 13 novembre 1859, n. 3725 del Regno di Sardegna, entrato in vigore nel 1860 e successivamente esteso, con l’unificazione, a tutta l’Italia.
[12] P. Stella, Don Bosco nella storia economica e sociale (1815-1870), LAS, Roma 1980, p. 248.
[13] Alessandro Rossi (1819-1898) fu un imprenditore e un politico.
[14] “Memorie Biografiche”, quinto volume, capitolo 56.
[15] Antonio Maria Belasio (1813-1888). Scrittore e famoso predicatore totalmente dedito alle missioni parrocchiali, era in ottimi rapporti con don Bosco.
[16] A. Belasio, Non abbiamo paura! Abbiamo il miracolo dell’apostolato cattolico di XVIII secoli e le sue sempre nuove e più belle speranze, in “Letture Cattoliche”, n. 322, 1879, p. 59.
[17] Antonio Gramsci (1891–1937) fu tra i fondatori del Partito Comunista d’Italia (1921).
[18] Felice Govean (1819-1898) fu gran maestro reggente del Grande Oriente d’Italia nel 1861.
[19] Alla morte di don Bosco la “Gazzetta del Popolo” si limitò a citarne cognome, nome ed età nell’elenco dei defunti.
[20] Giuseppe Favale (1772-1862). Era il tipografo di gruppi liberali in linea con la politica ecclesiastica governativa. Alla sua morte il nuovo responsabile sarà il figlio Carlo.
[21] Innocenzo Vigliardi (1822-1896), editore libraio.
[22] Alessandro Ottaviano Ricardi di Netro (1808-1870). Il 22 febbraio 1867 fu promosso arcivescovo di Torino
[23] P. Braido, La lettera di don Bosco da Roma del 10 maggio 1884, LAS, Roma 1984.
[24] La lettera è conservata presso l’Archivio Centrale Salesiano. Alessandro Antonelli (1798-1888) fu un architetto la cui opera più nota divenne la Mole Antonelliana. L’edificio era destinato all’inizio a diventare una sinagoga. Il progetto fu poi abbandonato dopo alcuni anni per mancanza di fondi. Si aprì così la possibilità di vendere la struttura a chi era interessato all’acquisto.
[25] P. Braido, Breve storia del “sistema preventivo”, LAS, Roma 1993.
[26] Cfr. ad es.: G. Buccellato, Alla presenza di Dio: ruolo dell’orazione mentale nel carisma di fondazione di san Giovanni Bosco, Pontificia Università Gregoriana, Roma 2004.
[27] Cfr. anche: F. Motto, L’impegno civile e morale di don Bosco nell’Italia unita in dialogo con le istituzioni di governo, in “Ricerche Storiche Salesiane”, n. 29, 2010, pp. 177-200.
[28] Geremia Bonomelli (1831–1914). Fu vescovo di Cremona.
[29] G. Bonomelli, Questioni religiose – morali – sociali del giorno., volume primo, Cogliati, Milano 1900, p. 310.
[30] Giovanni Battista Piamarta (1841-1913, santo). Sacerdote. Promosse a Brescia l’Istituto degli Artigianelli. Fondatore della Congregazione della Sacra Famiglia di Nazareth.
[31] Luigi Guanella (1842-1915, santo). Sacerdote. Fondatore delle Congregazioni dei Servi della Carità e delle Figlie di Santa Maria della Divina Provvidenza.
[32] Piero Bairati (…-1991). Fu uno dei maggiori studiosi di americanistica, attivo pubblicista e partecipe della vita intellettuale piemontese.
[33] P. Bairati, L’etica del lavoro, in “Rivista Storica Italiana”, 92, 1980, n. 1.
[34] “Memorie Biografiche”, volume 19, 157.
[35] P. Braido, Don Bosco, La Scuola, Brescia 1969, p. 129.
[36] P. Braido, Don Bosco prete dei giovani nel secolo delle libertà, LAS, Roma 2003, p. 653.